Fantasia e realtà in “Creature del cielo” di Peter Jackson | Recensione

Negli anni '50, due adolescenti intrecciano fantasia e realtà in un legame ossessivo, culminando nell'omicidio della madre di una di loro. Film enigmatico e visionario.

Creature del cielo (1994)
Titolo originale: Heavenly Creatures
Regista: Peter Jackson

di Stella Bruzzi

Negli anni ’50, in una tranquilla periferia suburbana, due studentesse, i volti e le mani ancora macchiati di sangue, irrompono nel giardino di una casa gridando: “La mamma è gravemente ferita”. Ma per comprendere come Pauline Parker e Juliet Hulme siano giunte a questa tragica epifania, occorre risalire al 1953, allorché Juliet mise piede per la prima volta alla Christchurch Girls’ High School. Pauline, neozelandese di nascita, frequentava già da tempo la scuola, ma la sua esistenza era quella di una solitaria, un’intellettuale relegata ai margini, finché non le venne affiancata Juliet, nuova studentessa inglese. Nonostante le loro origini dissimili, le due stabilirono immediatamente un rapporto esclusivo, nutrito non solo dalla comunione di esperienze di malattie infantili, ma anche da un’adorazione condivisa per il tenore Mario Lanza e, soprattutto, dalla creazione di un universo fantastico, un mundus imaginalis che battezzarono come Quarto Mondo, non cristiano e dedicato a “musica, arte e puro divertimento”.

A Natale, Pauline riceve in dono un diario, nel quale comincia a registrare gli eventi della sua vita con Juliet e l’esplorazione del regno immaginario che iniziano a costruire insieme: un romanzesco medievale, popolato da figure regali come Re Charles e Regina Debora, ambientato nel mitico Borovnia. Questa mitopoiesi divora progressivamente la loro esistenza reale. Scoprono, o meglio, credono di scoprire, come afferma Juliet, la “chiave” del Quarto Mondo: una parte extra del cervello umano posseduta solo da dieci eletti, ed è lì, in questa dimensione liminale, che si rifugiano, finché realtà e fantasia si fondono in una complessa dialettica dell’immaginario.

L’illusione e il reale si sovrappongono ulteriormente quando, un giorno, Juliet viene improvvisamente portata in una clinica per una recrudescenza della tubercolosi. Nonostante la gravità della malattia, i genitori di Juliet trascorrono l’estate in Inghilterra, lasciando la figlia in solitudine. Separate per due mesi, Juliet e Pauline si scrivono lettere sotto i nomi fittizi di Charles e Debora, e quando finalmente Pauline viene autorizzata a visitare l’amica, le racconta che John, uno studente che vive nella sua casa, è innamorato di lei. Juliet, ferita nell’orgoglio e nell’affetto, afferma che ciò le ha spezzato il cuore, ma Pauline, con un misto di distacco e inevitabile passione, consente a John di entrare nel suo letto, finendo però per essere scoperta dal padre, che caccia il giovane. Poco dopo, Pauline cede comunque a John, perdendo con lui la verginità.

Al ritorno della famiglia Hulme in Nuova Zelanda, i genitori di Juliet iniziano a percepire che l’amicizia con Pauline ha assunto connotazioni inquietanti. Il tempo che le due trascorrono insieme viene ridotto, e Pauline è inviata da uno psichiatra. Il distacco da Juliet influisce negativamente sul rendimento scolastico di Pauline, che decide quindi di abbandonare i sogni accademici per formarsi come dattilografa. Nel frattempo, tuttavia, le due progettano la fuga a Hollywood, dove sperano di vendere i diritti del loro romanzo fantastico. Ma i tumulti non si arrestano: Juliet sorprende la madre a letto con un altro uomo, scatenando il processo di divorzio dei genitori. Si stabilisce che Juliet sarà mandata a vivere con dei parenti in Sudafrica. L’idea della separazione definitiva getta le ragazze in un abisso di disperazione che rasenta l’isteria. Pauline si chiude in un mutismo ostinato, e Juliet implora che le sia permesso di portare Pauline con sé in Sudafrica. Come compromesso, Pauline viene autorizzata a soggiornare a casa degli Hulme; le ragazze dormono insieme e pianificano l’omicidio di Honora, la madre di Pauline. Quando arriva il giorno fatidico, le due conducono Honora in un parco locale, dove la colpiscono ripetutamente alla testa con un mattone.

L’epilogo ci è rivelato attraverso scarne didascalie: le ragazze furono giudicate colpevoli di omicidio nel processo che passò alla storia come il caso Parker-Hulme. Furono rilasciate nel 1959, a condizione di non incontrarsi mai più.

* * *

Quando Juliet si presenta alla Christchurch High School, viene inserita nella classe di francese di Pauline, guardando con aria superba le compagne, che portano al collo cartellini di cartone con nomi francesi, un’usanza singolare della loro insegnante, che impone ai suoi studenti di assumere nomi fittizi. Questo microcosmo provinciale degli anni ’50, con i suoi rituali ormai superati e i colori pastello sfacciatamente sgargianti, diviene lo sfondo per un’esplorazione più profonda e complessa di un fenomeno altrettanto bizzarro: l’immaginario adolescenziale, che si nutre della potenza di un simbolismo visionario e insieme perturbante. Come nel film Swoon di Tom Kalin, Creature del cielo, il film di Peter Jackson, rifiuta il tradizionale approccio investigativo, preferendo avvicinarsi a questo caso di omicidio reale attraverso la lente di una relazione ossessiva, un’intimità sigillata e impenetrabile tra i due personaggi centrali. Juliet e Pauline si ritirano in un mondo dominato da rituali e fantasie, che progressivamente recidono ogni legame con la conformità esterna, fino a far sì che la Christchurch degli anni ’50 diventi uno dei personaggi della loro narrazione condivisa. Le due, autoproclamate Creature del cielo del titolo, scrivono il loro proprio percorso di formazione, dall’inginocchiarsi davanti a uomini degni di culto fino all’atto simbolico di bruciare la loro collezione di dischi di Mario Lanza, trasformando questo gesto in un rito funebre, preludio alla decisione di uccidere Honora.

Creature del cielo è una discesa coreografata con precisione nel regno del privato, e dunque, per l’osservatore esterno, dell’insondabile. Inizialmente, ci limitiamo a osservare con distacco analitico le ragazze spogliarsi fino alla biancheria e danzare attorno agli alberi, accompagnate dalla colonna sonora lussureggiante di Lanza che proclama: “She’s the one for me”. Ma poi veniamo improvvisamente trascinati nel loro “Quarto Mondo”, dove le colline reali si dissolvono e si trasformano nel loro paradiso ornamentale. La concretizzazione visiva dei mondi interiori può spesso risultare imbarazzante, come accadde in Sirens, dove l’emergere delle fantasie più profonde suscitava un certo disagio. Tuttavia, ciò che mantiene il controllo narrativo in Creature del cielo è il fatto che le sequenze subcoscienti restano sempre chiaramente collocate all’interno delle immaginazioni adolescenziali che le producono; non si tratta di una proiezione adulta e astratta di ciò che potrebbe essere il sogno di Peter Jackson.

È interessante notare come Borovnia emerga simultaneamente nella vita quotidiana e in quella fantastica. In una scena evocativa, Juliet e Pauline, nei panni di Charles e Debora, rivivono la nascita del loro figlio in un contesto prosaico come la camera da letto di Juliet, scena che richiama i giochi infantili più semplici. Sequenze come questa (insieme all’uso delle voci fuori campo tratte dai diari di Pauline) radicano i voli più arditi della fantasia nel mondo di Borovnia, un castello medievale popolato da figure di plastilina. Forse le scene più coinvolgenti e inquietanti sono quelle in cui i due mondi entrano in collisione, come quando Juliet immagina un personaggio decapitare un vicario in visita.

Mentre la maggior parte dei film che esplorano il rapporto tra realtà e inconscio (da Io ti salverò a Sirens) mantiene sempre ben visibile il confine tra i due, Creature del cielo indugia proprio sulla dissoluzione di questi confini. Il momento più intenso, lirico e assurdo del film arriva verso la fine, quando Juliet mima un’aria di Lanza, mentre una sequenza in bianco e nero mostra la sua famiglia, unita e felice, in una cornice di nostalgica idealizzazione. Sebbene il film eviti con rigore qualsiasi giudizio morale o psicologico sulle due protagoniste, queste scene riescono a catturare quella particolare, euforica solitudine che caratterizza il loro mondo di spadaccini, idoli da matinée e auto-glorificazione. Nel momento culminante dell’omicidio, mentre le ragazze colpiscono ripetutamente Honora alla testa, la violenza dai colori accesi è intervallata da altre sequenze in bianco e nero, che ora mostrano Juliet su una nave, gioiosamente coccolata tra i genitori, che saluta Pauline dal molo. Sono queste le ultime immagini del film, che non si conclude quindi con un ritorno ordinato al punto di partenza, ma con un’allusione enigmatica e ambigua a un tumulto emotivo e psicologico che resta irrisolto.

Questa singola immagine idealizzata riassume la strana sensazione di distanza che pervade Creature del cielo: una distanza che non si limita alla separazione tra realtà e fantasia, ma si estende fino a toccare aspetti più complessi, come le descrizioni in terza persona di Pauline nel diario, che parla di “queste due adorabili”, o il modo in cui la telecamera, pur mostrando spesso le ragazze in primissimo piano, trasmette costantemente la sensazione di osservare da lontano, tentando di comprendere ma senza mai riuscirci del tutto. Quando sullo sfondo dei dettagli della sentenza e del successivo rilascio delle ragazze si diffonde la voce di Lanza che canta You’ll Never Walk Alone, il contrasto è al contempo struggente e disorientante. Nonostante la sensualità, la ricchezza dei dettagli e l’affetto per i suoi personaggi, Creature del cielo lascia Juliet e Pauline misteriose come all’inizio. Ed è proprio questa insondabilità, forse, la fonte del genio del film: senza mai emettere un giudizio sulle loro azioni, esso si astiene dal cercare di spiegarle. Quando, dopo aver dormito insieme, Pauline scrive nel diario della “gioia di quella cosa chiamata peccato”, il riferimento potrebbe riguardare il sesso o qualcosa di molto più vasto. Il film, in questo senso, rappresenta un perfetto equilibrio tra particolare e indeterminato, un’opera che gioca abilmente con le due nozioni elusive di gioia e peccato.

[Traduzione di Alberto Piroddi]

Sight and Sound, Febbraio 1995

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