Le cronache di Narnia – Il leone, la strega e l’armadio | Recensione

Narnia: Il leone, la strega e l’armadio alterna magia visiva e artificiosità. Swinton brilla, ma la fedeltà al testo e l'assenza di emozione lo rendono freddo.

di Alberto Piroddi

Senza dubbio, Le cronache di Narnia – Il leone, la strega e l’armadio si presenta come un’opera che aspira a diventare uno di quei colossi cinematografici capaci di definire un’era, come le trilogie di Tolkien o i racconti magici che hanno reso grande la Disney nei decenni passati. Ma guardare questo film è un’esperienza che oscilla pericolosamente tra la magia promettente e l’artificio freddo, quasi come se ci trovassimo di fronte a una gigantesca macchina narrativa che cerca di sedurci ma fallisce nell’essere sincera. È spettacolare? Certo. Ma non è sufficiente. Non quando il cuore del racconto viene appiattito in una sequela di immagini scintillanti e dialoghi privi di vita.

Il film si apre con i fratelli Pevensie, spediti in campagna per sfuggire ai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Questi primi momenti dovrebbero servire a radicare i personaggi in un contesto storico ed emotivo, ma invece si trascinano in una serie di interazioni artificiali. I dialoghi sono meccanici, il dramma familiare forzato. Solo quando Lucy (la giovane Georgie Henley) trova la strada per Narnia attraverso l’iconico armadio, il film comincia davvero a respirare. Ma anche lì, l’aria che si respira è di un’incantevole freddezza: la neve scintilla, le foreste sono misteriose, ma tutto sembra troppo pulito, troppo progettato. Narnia non è un mondo magico, ma un set cinematografico perfettamente illuminato.

Non si può ignorare l’investimento negli effetti speciali. Centauri, fauni, e creature fantastiche prendono vita in modi che sono, a tratti, straordinari. Ma più spesso, la magia si spezza. Il problema non è tanto nella qualità tecnica del CGI (sebbene ci siano momenti in cui l’effetto digitale è fin troppo evidente, come nella fuga sul ghiaccio), quanto nella mancanza di un senso di peso o presenza. Le creature sembrano fluttuare nella loro stessa irrealtà, come se Narnia fosse stata costruita non con mattoni e sogni, ma con pixel.

E poi ci sono i Pevensie. Georgie Henley, la piccola Lucy, è la stella più luminosa: genuina, curiosa, capace di portare un senso di meraviglia che manca agli altri attori. William Moseley, Anna Popplewell e Skandar Keynes (Peter, Susan e Edmund) offrono performance variabili che vanno dalla compostezza scolastica a momenti di vera goffaggine emotiva. È difficile investire emotivamente in personaggi che sembrano recitare più per obbedire alla sceneggiatura che per vivere realmente le loro avventure.

Ma c’è una figura che eleva tutto: Tilda Swinton nei panni della Strega Bianca. La sua presenza domina ogni scena, con un’interpretazione che mescola sottigliezza glaciale e un senso di pericolo latente. Swinton è una forza gravitazionale che attira tutto intorno a sé, con una malvagità calma e un controllo calcolato ipnotici, ma vittima di una sceneggiatura che le concede troppo poco spazio per svilupparsi davvero.

E poi c’è Aslan, il cuore simbolico della storia. Con la voce di Liam Neeson, il grande leone è maestoso, ma manca di calore. Neeson fornisce il giusto tono di saggezza e autorità, ma Aslan rimane un personaggio distante, più un simbolo che un essere vivente. E il suo momento cruciale, il sacrificio sull’altare, manca di impatto emotivo: una scena che dovrebbe straziare il cuore, ma che invece scivola via come un altro momento ben illuminato e ben orchestrato.

La battaglia finale, che contrappone le forze del bene e del male, è una danza coreografata di creature fantastiche e guerrieri eroici. Ma per quanto visivamente impressionante, manca di tensione reale. Non c’è sangue, non c’è vero pericolo. La violenza è sterilizzata a tal punto che si perde ogni senso di posta in gioco. È una battaglia per gli occhi, non per l’anima. Questo contrasto tra la grandiosità dell’azione e l’assenza di peso emotivo è emblematico del film nel suo complesso.

Uno dei problemi centrali di Narnia è la sua fedeltà al testo di C.S. Lewis. Certo, è ammirevole che il film cerchi di rispettare la fonte originale, ma questa fedeltà diventa una gabbia. Le linee di dialogo sembrano recitate più per dovere che per convinzione, e l’aggiunta di alcune scene nuove non riesce a iniettare freschezza. La regia di Andrew Adamson è diligente ma poco ispirata, più interessata a fare il compitino che a rischiare qualcosa.

Nonostante le sue carenze, Narnia non è privo di momenti di vera bellezza. La prima visita di Lucy a Narnia, con il suo incontro con il signor Tumnus (James McAvoy), è un momento delicato e incantevole. E la sequenza del sacrificio di Aslan, per quanto non all’altezza emotiva del materiale, è visivamente mozzafiato. È in questi frammenti che il film riesce a evocare qualcosa di simile alla magia.

Le cronache di Narnia – Il leone, la strega e l’armadio è un film che sembra costantemente in bilico tra il potenziale e la delusione. È un’opera che cattura l’occhio ma raramente il cuore, un’esperienza che lascia più un’impressione visiva che un’emozione duratura. Forse, come la neve di Narnia, è bello da guardare, ma freddo al tatto.

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