di Chris Montanelli
Andrea Segre si avventura nel difficile e delicato mondo del biopic politico con Berlinguer – La grande ambizione, un progetto che ha tutto il potenziale per essere solenne, ma che inevitabilmente lotta contro la sua stessa impostazione. Siamo di fronte a un film che tenta di catturare la complessità di una figura politica come Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano negli anni cruciali dal 1973 al 1984, anni segnati da profondi cambiamenti sociali e politici in Italia. Segre si muove con cautela in un campo che per natura non si presta a semplificazioni. Tuttavia, nonostante l’evidente onestà intellettuale e il rispetto per la materia trattata, La grande ambizione fatica a essere davvero incisivo. Non per mancanza di contenuti, anzi, il film è denso di fatti e riferimenti storici, ma piuttosto per una scelta stilistica che, pur volendo essere austera e rigorosa, risulta in una narrazione quasi soffocata dalla sua stessa rigidità.
La storia di Enrico Berlinguer è una storia di idee, di lotta politica e di tensione morale. Per Segre, sembra quasi ovvio partire da questo presupposto, tanto che decide di costruire il film su blocchi di citazioni dai discorsi del leader comunista, intercalandoli con brevi scene della sua vita privata. Ma questa scelta narrativa si rivela a doppio taglio. Da un lato, permette di dare voce a un Berlinguer che molti italiani conoscono solo per via indiretta; dall’altro, si finisce per ridurre la figura dell’uomo a una sorta di reliquia storica, una figura quasi immobile, sempre sull’orlo dell’agiografia, che non concede mai un respiro vitale, un’emozione vera.
Berlinguer non era un uomo facile da capire o da rappresentare, e Segre lo sa bene. Nonostante la sua immensa popolarità, Berlinguer fu una figura politica complessa, spesso solitaria e decisamente controcorrente, anche all’interno del PCI. Il film di Segre tenta di trasmettere questa dualità, mostrando un uomo profondamente impegnato nella sua missione politica ma al contempo intrappolato da una realtà che lo ostacola a ogni passo. Tuttavia, questa rappresentazione finisce per risultare eccessivamente distaccata, quasi fredda, come se il regista volesse mantenere un rispetto reverenziale che impedisce di sondare più in profondità le contraddizioni del suo personaggio.
L’intento di Segre è chiaro: evitare le trappole della facile retorica o del biografismo agiografico. Il regista vuole farci vedere Berlinguer come un uomo di parola, di pensiero, ma anche di azione, senza cadere nella semplificazione. Eppure, l’intera struttura del film sembra piegarsi sotto il peso della sua stessa ambizione. La grande ambizione si concentra sugli anni tra il 1973 e il 1978, un periodo di grande trasformazione per l’Italia, segnato da eventi come il colpo di Stato in Cile, la rinuncia di Berlinguer ai fondi sovietici, e soprattutto il tentativo del “compromesso storico” con la Democrazia Cristiana. Berlinguer è raffigurato come un leader calmo, ponderato, distante dalla frenesia della politica contemporanea. Tuttavia, la sua visione politica non riesce mai a prendere davvero forma nella narrazione cinematografica. Segre sembra troppo timido nel mostrare le difficoltà e i compromessi necessari per un uomo politico, concentrandosi invece su una figura che finisce per sembrare monolitica, quasi irreale.
La performance di Elio Germano è uno dei punti più alti del film. Germano interpreta Berlinguer con una misura e una delicatezza che sfuggono alla tentazione dell’imitazione pura. L’attore riesce a trasmettere la pacatezza e la riservatezza del leader comunista, eppure anche qui ci troviamo di fronte a una rappresentazione che rimane sospesa in una sorta di limbo emotivo. Germano non ha molte possibilità di esplorare le sfumature psicologiche del personaggio, forse perché il copione non glielo consente, e così Berlinguer appare sempre in un’aura di compostezza che, alla lunga, lo rende distante e impenetrabile.
Le scene che mostrano Berlinguer nel privato, tra i suoi familiari, sono brevi scorci che si affacciano su una vita personale ridotta ai minimi termini. Viene evidenziato il suo amore per i figli, il suo rapporto con la moglie, ma sono momenti che sembrano più funzionali a spezzare il ritmo dei discorsi politici piuttosto che a raccontare realmente l’uomo dietro il politico. Anche qui si avverte la sensazione che Segre voglia trattenersi dal mostrare troppo, come se svelare troppo dell’aspetto umano di Berlinguer potesse intaccare la sua immagine pubblica. Il risultato è che questi frammenti di vita privata appaiono quasi posticci, aggiunti per dovere di cronaca, ma senza un vero slancio narrativo.
La regia di Segre è, come sempre, attenta e precisa. Le immagini d’archivio sono integrate con grande intelligenza e sensibilità, e la fotografia di Benoît Dervaux, con le sue tinte desaturate, crea un’atmosfera di riflessione e gravità. Tuttavia, se da un lato questa scelta visiva sottolinea la serietà del progetto, dall’altro contribuisce a rendere il film pesante, quasi opprimente nella sua austerità. Non c’è un momento di respiro, un’idea che voli sopra le rigide strutture della narrazione, e questo fa sì che il film perda di slancio, rimanendo intrappolato in una forma di rigidità che non si addice alla figura di un uomo che, nel bene o nel male, era profondamente legato alla realtà pulsante della sua epoca.
La grande ambizione tenta di raccontare un periodo cruciale della politica italiana, ma lo fa con una lentezza che rischia di farci perdere di vista l’urgenza e la tensione di quegli anni. Le scene chiave, come gli incontri con Aldo Moro, sono trattate con una sobrietà che, se da un lato evita la spettacolarizzazione, dall’altro lascia il pubblico con un senso di incompletezza. L’omicidio di Moro, che avrebbe dovuto rappresentare il culmine emotivo e politico del film, viene risolto in modo troppo rapido, quasi sottotono, come se Segre non volesse immergersi davvero nella tragedia di quegli eventi.
C’è una riflessione importante da fare su cosa significhi fare un biopic su una figura come Berlinguer. Si può scegliere la strada della narrazione rigorosa, filologica, che rimane fedele ai fatti storici, oppure si può cercare di penetrare nelle dinamiche personali e politiche che hanno formato il personaggio. Segre sceglie la prima via, e questo è forse il suo più grande difetto. Il film rimane intrappolato in una rappresentazione quasi documentaristica, che non riesce mai a dare davvero vita alla complessità dell’uomo e del politico. Berlinguer, alla fine, sembra più una figura scolpita nel marmo, un monumento alla politica che fu, piuttosto che un essere umano con le sue contraddizioni, i suoi dubbi, le sue speranze.
Certo, è difficile non provare un senso di rispetto per un film che si propone di trattare una figura così importante per la storia italiana. Ma il rispetto da solo non basta a fare un buon film. Bisogna rischiare, bisogna permettere alle emozioni di emergere, bisogna sporcarsi le mani con la materia viva della politica, che non è mai bianca o nera, ma sempre piena di sfumature. La grande ambizione è un film che si accontenta di mostrare Berlinguer come una figura intoccabile, un uomo che non sbaglia mai, che non si lascia mai travolgere dalle passioni. E in questo, Segre sembra perdere di vista la verità più profonda della politica stessa: che essa è fatta di compromessi, di errori, di sfide continue.
Se da un lato il film ci ricorda l’importanza di Berlinguer e della sua visione politica, dall’altro non riesce a farci davvero sentire il peso delle sue scelte, delle sue lotte interne, delle sue frustrazioni. È un film che rimane sulla superficie delle cose, nonostante l’impegno evidente nel cercare di andare più in profondità. Forse perché Segre, da documentarista, è più a suo agio con i fatti che con le emozioni, con la cronaca che con il dramma umano.
C’è un momento nel film in cui Berlinguer, interpretato da Germano, dice una frase che potrebbe riassumere perfettamente lo spirito del film: “Non dobbiamo mai perdere di vista il bene comune.” È una frase che risuona con grande forza, ma che nel contesto del film appare quasi vuota, priva della tensione emotiva che dovrebbe accompagnare un’affermazione così importante. Berlinguer è un uomo di ideali, e questo Segre lo coglie perfettamente, ma ciò che manca è il senso della lotta, del sacrificio, della fatica che comporta cercare di cambiare il mondo.
La grande ambizione si chiude con immagini di repertorio dei funerali di Berlinguer, un milione e mezzo di persone in piazza San Giovanni a Roma per rendere omaggio al loro leader. È un finale potente, ma anche un po’ facile. Quello che ci manca è un vero senso di chi fosse Berlinguer, oltre l’icona, oltre il leader politico.