C’è un pudore tragico in Amerikatsi, come se il film stesso esitasse nel raccontare la propria storia. Un pudore che diventa indecisione, un ondeggiare tra due anime: da un lato la fiaba leggera, quasi circense, dall’altro la brutalità silenziosa della storia, la sua spietatezza. Michael Goorjian – regista, sceneggiatore, protagonista – vuole abbracciare tutto, e così facendo lascia che il film sfugga tra le dita. Non è né carne né pesce, né una favola compiuta né un dramma storico definitivo. È un film che fluttua, un film che osserva.
Charlie (Goorjian) è un armeno della diaspora, cresciuto negli Stati Uniti, che nel 1948 torna nella madrepatria, ammaliato dall’illusione di una nuova Armenia sotto l’ala sovietica. Ma è uno straniero nel suo stesso sangue, un corpo estraneo che la macchina stalinista non può tollerare. Bastano pochi passi, pochi sorrisi, perché la sua libertà si trasformi in prigionia. La cella diventa il suo destino. Ma da quella finestra sbarrata Charlie guarda un’altra vita, quella di un ufficiale sovietico e della sua famiglia. Il loro quotidiano diventa il suo teatro, la loro felicità il suo simulacro di sopravvivenza. Come il Jeanne Dielman di Chantal Akerman, il film si sofferma sui gesti minimi, sulla ripetizione, sulla sacralità dell’abitudine. Ma Goorjian non è Akerman, e non ha il coraggio di insistere sul nulla. Presto arriva il simbolismo, la metafora, l’invadenza della sceneggiatura.
Eppure, c’è qualcosa di autentico in questi silenzi, in questa osservazione muta. Charlie imita il suo ignaro vicino, ripete i gesti di un’esistenza che non gli appartiene: cucina senza cibo, brinda senza vino, danza senza musica. È il prigioniero che sogna, l’uomo che non vive ma si riflette nel mondo altrui. Qui il film tocca il sublime, sfiora una verità primitiva: l’essere umano sopravvive solo se può immaginare.
Ma Goorjian non si fida della sua stessa idea. Vuole che il film “significhi”, che la sua storia diventi parabola. Ed ecco il problema. Amerikatsi si sposta, si contamina, si riempie di dialoghi che spiegano, di emozioni che vengono sottolineate, di eventi che devono commuovere. La leggerezza delle prime scene si perde. Il film si appesantisce con il desiderio di essere “grande cinema”, con la volontà di avere un messaggio. Ma la verità è che il cinema non ha bisogno di messaggi. Il cinema è verità o non è nulla.
Ci sono momenti che funzionano. L’uso dello spazio è straordinario: la cella è un universo chiuso, ma quella finestra è un portale, un cinema privato in cui il mondo continua ad accadere. La fotografia, calda e morbida, dipinge l’Armenia con la nostalgia di un paese che esiste solo nel ricordo. Ma la prigione non è mai abbastanza terribile, la disperazione mai abbastanza disperata. C’è sempre una speranza che brilla, sempre una bellezza che consola. Amerikatsi teme il buio. Vuole redimere, vuole rassicurare.
Eppure la storia di Charlie non dovrebbe rassicurare. Dovrebbe essere un incubo ad occhi aperti, il racconto di un uomo condannato a vivere attraverso gli altri, a consumare la propria esistenza nella distanza. Ma il film non osa spingersi fino in fondo. Si rifugia nel sentimento, nella catarsi. Cerca un finale che dia senso al dolore. Ma il dolore non ha senso. Il dolore è.
Goorjian è un attore delicato, con un volto che sa essere malinconico senza esagerare. Ma il suo Charlie è passivo, troppo osservatore, troppo lontano da ciò che gli accade. E così il film, come il suo protagonista, diventa uno sguardo senza carne, un’idea che non si sporca mai con la realtà.
C’è qualcosa di poetico in tutto questo, ma è una poesia addomesticata. Amerikatsi è un film che teme il proprio stesso coraggio. Un film che guarda il passato con dolcezza quando dovrebbe urlare. E il cinema, quello vero, non è mai dolce. Il cinema vero, come la storia, non consola. Il cinema vero divora.