Il problema non è nuovo, né occasionale, né frutto di qualche pasticcio burocratico. È sistemico, strutturale, deliberato. La Sardegna è l’unica realtà che, pur vantando uno statuto di autonomia, continua a giocare a perdere nel grande gioco delle finanze pubbliche. L’unica che deve versare a Roma i tributi raccolti sul proprio territorio per poi mettersi in coda, cappello in mano, aspettando la restituzione di quanto le spetterebbe di diritto. Una restituzione che, guarda caso, non arriva mai per intero e spesso non arriva affatto. L’ultima voragine? Quasi 2 miliardi di euro che lo Stato italiano deve alla Sardegna e che, chissà come mai, non figurano tra le priorità del governo centrale.
Nel frattempo, i comuni dell’isola, già in perenne emergenza, si ritrovano con il cappio al collo tra tagli incomprensibili e fondi regionali erogati con il contagocce. La questione del fondo unico è solo la punta dell’iceberg: un sistema di finanziamento pubblico che, in teoria, dovrebbe garantire ai comuni le risorse necessarie per l’erogazione dei servizi essenziali – dagli asili nido all’illuminazione pubblica, dal trasporto scolastico all’assistenza agli anziani – e che, invece, viene sistematicamente mortificato da un’interpretazione contabile degna del miglior Azzeccagarbugli.
Perché, se esiste una legge che stabilisce che il fondo unico debba essere adeguato alla variazione delle entrate tributarie ordinarie della Regione, allora la domanda è semplice: perché non viene applicata? Perché il conto si fa sempre e solo alla fine, quando ormai i comuni non hanno più margine di programmazione? E perché nessuno si scandalizza del fatto che, in un decennio, all’appello manchino almeno 150 milioni di euro all’anno?
Chiariamo un punto: questa non è una guerra tra ANCI Sardegna e la Regione, né un braccio di ferro istituzionale. È la cronaca di un fallimento annunciato. Se si continua a mantenere questo sistema di finanziamento, senza una radicale riforma della gestione delle entrate, la Sardegna rimarrà sempre con il cappio al collo, i sindaci continueranno a elemosinare risorse che dovrebbero essere garantite per legge, e i servizi essenziali continueranno a essere erogati in modalità “se e quando arrivano i soldi”.
A farsi portavoce di una proposta radicale e strutturale è A Innantis!, movimento indipendentista che da tempo spinge per una ridefinizione del rapporto tra l’isola e lo Stato italiano. Al centro della loro visione, un principio tanto semplice quanto dirompente: i tributi prodotti in Sardegna devono rimanere in Sardegna. Non un’elemosina, non un contentino, non un patto da rinegoziare ogni volta. Una gestione diretta, chiara e definitiva delle nostre risorse. Perché non esiste autonomia politica senza autonomia fiscale.
L’incontro tra ANCI e Regione Sardegna è un passaggio utile, ma è solo un palliativo se non si affronta la questione alla radice. Ed è questo il punto su cui ci si dovrebbe concentrare: si vuole continuare a giocare secondo le regole truccate di Roma, o si vuole finalmente riscrivere le regole a favore dei sardi?
Perché, a forza di accettare questa logica da mendicanti, il risultato è sempre lo stesso: chi ha bisogno di un servizio aspetta, chi deve lavorare non viene pagato, chi governa il territorio non ha strumenti. E il grande inganno continua.