Giordano Bruno, l’esilio del pensiero libero

Più che il rogo, Bruno sfida l’ignoranza. Il suo esilio non fu privazione, ma scoperta; la condanna, il timore di chi giudica. Pensare costa, sempre.

Verrà un giorno che l’uomo si sveglierà dall’oblio e finalmente comprenderà chi è veramente e a chi ha ceduto le redini della sua esistenza, a una mente fallace, menzognera, che lo rende e lo tiene schiavo.
Giordano Bruno

Il 17 febbraio 1600, Giordano Bruno fu arso vivo in Campo de’ Fiori, a Roma. Attorno a lui, i “confortatori” tentavano di strappargli un’abiura, recitando il copione imposto dal tribunale dell’Inquisizione. Non bastava giustiziare un uomo, bisognava piegarlo, costringerlo a riconoscere la supremazia dell’autorità che lo condannava.

La sua eresia non consisteva solo nelle teorie sull’universo infinito e sulla pluralità dei mondi. Il vero scandalo era il metodo con cui affrontava il sapere. Nessuna verità rivelata, nessun dogma indiscutibile, solo la ricerca continua, l’indagine senza confini, il pensiero che si rifiutava di inginocchiarsi. Una visione incompatibile con il potere che si fondava sulla certezza assoluta, sull’unica via possibile, sul peccato di chi osava dubitare.

Le fiamme non consumarono la sua sfida. Nel silenzio della piazza, senza una confessione, senza un atto di sottomissione, il filosofo andava incontro alla morte con la consapevolezza che nessun rogo avrebbe spento il fuoco delle idee. Un uomo bruciava, la sua visione del mondo continuava a esistere.

Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam
Il timore che provate voi a infliggermi questa pena è superiore a quello che provo io a subirla.

Questa sua celebre frase non è soltanto un atto di sfida, ma un capovolgimento dialettico: il tribunale che lo condanna si rivela, nel momento stesso della sua sentenza, più tremante della vittima. Non è Bruno a essere giudicato, bensì coloro che, nella loro stessa pronuncia, tradiscono la paura di ciò che non possono comprendere, né tanto meno controllare.

Venni, tra gli altri io, attratto dal desiderio di visitare la casa della sapienza, ardente di contemplare codesto Palladio, onde non mi vergogno d’aver sopportato la povertà, la malevolenza e l’odio dei miei, le esacrazioni, le ingratitudini di coloro ai quali volli giovare e giovai, gli effetti d’un’estrema barbarie e d’un’avarizia sordidissima. Per il che non mi duole d’esser incorso in fatiche, dolori, esilio: ché faticando profittai, soffrendo feci esperienza, vivendo esule imparai: ché trovai in breve fatica lunga quiete, in leggera sofferenza gaudio immenso, in un angusto esilio una patria grandissima.
—Da Due orazioni. Oratio valedictoria-Oratio consolatoria – a cura di Guido Del Giudice

Se la frase finale scolpita nei resoconti dell’Inquisizione segna il Bruno della sfida e dell’alterigia intellettuale, la riflessione contenuta nelle Due orazioni ci restituisce un Bruno di sorprendente profondità esistenziale, un uomo che trasfigura la sua condizione di perseguitato in un cammino ascetico, in un’esegesi interiore della sofferenza. L’esilio, l’umiliazione e la povertà non sono per lui accidenti della vita, ma esperienze formative, perché faticando profittai, soffrendo feci esperienza, vivendo esule imparai. Qui Bruno si rivela nella sua cifra più alta: la conoscenza non è un atto contemplativo, né una semplice speculazione astratta, ma il risultato di un lavorio incessante, di un’apertura radicale verso l’universo come totalità in movimento. Come già sapeva il neoplatonismo, la verità non si dona a chi resta immobile, ma a chi si dispone al viaggio, a chi accetta l’itineranza dello spirito. L’adesione bruciante alla ricerca è la sua vera patria, mentre il mondo, con le sue barriere e i suoi arbitrari confini, non è che un orizzonte provvisorio da oltrepassare.

Nella figura di Bruno si riflette, con inquietante attualità, la dialettica tra libertà e autorità, tra l’esigenza di un pensiero critico e la tentazione perenne della censura. L’Inquisizione che lo processa non è un accidente della storia, ma il riflesso di un meccanismo metastorico: ogni epoca costruisce i propri strumenti di repressione intellettuale, sia che si manifestino sotto le vesti della teologia, sia che si travestano da razionalismo scientista o da conformismo ideologico. L’eretico è sempre colui che, nel rompere uno schema, costringe il sistema a riconoscere il proprio limite. E proprio per questo il rogo di Bruno non è la sua sconfitta, ma la condanna eterna dei suoi carnefici. La storia non lo ha sepolto sotto la cenere, ma lo ha consegnato all’immortalità della sua stessa rivolta.

Nella foto, Gian Maria Volonté in Giordano Bruno, regia di Giuliano Montaldo – 1973

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