Gli aiutanti di Kafka sono esseri inefficaci e sfuggenti, messaggeri senza messaggio, figure dell’incompiuto. Ricordano i gandharva indiani, metà angeli e metà demoni, eterni studenti incapaci di realizzare qualcosa. Presenti nella letteratura per l’infanzia, nelle opere di Walser e nei miti sufi, questi personaggi appaiono come traduttori tra mondi, testimoni dell’inesaudito. Sono gli oggetti dimenticati, i compagni smarriti, le vergogne segrete che, nel giorno del giudizio, si riveleranno pegni di salvezza.
* * *
Nei romanzi di Kafka ci vengono incontro creature che si definiscono “aiutanti” (Gehilfen). Ma aiuto, essi non sembrano proprio in grado di darne. Non s’intendono di nulla, non hanno “apparecchi”, non combinano che scemenze e bambinate, sono “molesti” e, perfino, a volte, “sfacciati” e “lascivi”. Quanto all’aspetto, sono così simili che si distinguono solo per il nome (Arturo, Geremia), si somigliano “come serpenti”. E, tuttavia, sono attenti osservatori, “svelti” e “snodati”, hanno occhi sfavillanti e, in contrasto ai loro modi puerili, facce che sembrano da adulti, “da studenti, quasi” e barbe lunghe e abbondanti. Qualcuno, non si sa bene chi, ce l’ha assegnati e non è facile toglierseli di dosso. Insomma, “noi non sappiamo chi siano”, magari sono degli “inviati” del nemico (il che spiegherebbe perché non fanno altro che appostarsi e spiare). Eppure somigliano ad angeli, a messaggeri che ignorano il contenuto delle lettere che devono recapitare, ma il cui sorriso, il cui sguardo, la cui stessa andatura “sembrano un messaggio”.
Ciascuno di noi ha conosciuto di queste creature che Benjamin definisce “crepuscolari” e incompiute, simili ai gandharva delle saghe indiane, metà geni celesti e metà demoni. “Nessuna ha un posto fisso, contorni netti e inconfondibili; nessuna che non sia in atto di salire o di cadere; nessuna che non si scambi col suo nemico o col suo vicino; nessuna che non abbia compiuto la sua età e che non sia tuttavia ancora immatura; nessuna che non sia profondamente esausta eppure ancora all’inizio di un lungo viaggio”. Più intelligenti e dotati degli altri nostri amici, sempre intenti in immaginazioni e progetti per i quali sembrano avere tutte le qualità, non riescono, però, a finire nulla e restano generalmente senz’opera. Essi incarnano il tipo dell’eterno studente e del gabbamondo, che invecchia male e che, alla fine, dobbiamo, sia pure a malincuore, lasciarci alle spalle. Eppure in loro qualcosa, un gesto inconcluso, una grazia improvvisa, una certa matematica spavalderia nei giudizi e nel gusto, un’aerea scioltezza delle membra e delle parole testimonia della loro appartenenza a un mondo complementare, allude a una cittadinanza perduta o a un altrove inviolabile. Un aiuto, in questo senso, ce l’hanno dato, anche se non riusciamo a dire quale. Forse consisteva appunto nel loro essere inaiutabili, nel loro ostinato “per noi non c’è nulla da fare”; ma, proprio per questo, sappiamo alla fine di averli in qualche modo traditi.
Forse perché il bambino è un essere incompiuto, la letteratura per l’infanzia è piena di aiutanti, esseri paralleli e approssimativi, troppo piccoli o troppo grandi, gnomi, larve, giganti buoni, geni e fatine capricciose, grilli e lumachine parlanti, ciuchini cacadenari e altre creaturine incantate che nel momento del pericolo spuntano per miracolo a trar fuori d’impaccio la buona principessina o Giovanni senza paura. Sono i personaggi che il narratore dimentica alla fine della storia, quando i protagonisti vivono felici e contenti fino alla fine dei loro giorni; ma di loro, di quella “gentaglia” inclassificabile cui, in fondo, devono tutto, non si sa più nulla. Eppure provate a chiedere a Prospero, quando ha dimesso tutti i suoi incanti e fa ritorno, con gli altri umani, al suo ducato, che cos’è la vita senza Ariele.
Un tipo perfetto di aiutante è Pinocchio, il burattino meraviglioso che Geppetto vuol fabbricarsi per girare il mondo con lui e guadagnare cosi “un tozzo di pane e un bicchier di vino”. Né morto né vivo, mezzo golem e mezzo robot, sempre pronto a cedere a tutte le tentazioni e a promettere, un istante dopo, che “da oggi in poi sarò buono”, questo archetipo eterno della serietà e della grazia dell’inumano, nella prima versione del romanzo, prima che all’autore venisse in mente di aggiungere una fine edificante, a un certo punto “stira i piedi” e muore nel modo più vergognoso, ma senza diventare un ragazzo. E un aiutante è anche Lucignolo, con quel suo “personalino asciutto, secco e allampanato, tale e quale come il lucignolo nuovo di un lumino da notte”, che annuncia ai compagni il paese di Cuccagna e ride a crepapelle quando si accorge che gli sono spuntate le orecchie d’asino. Della stessa pasta sono anche gli “assistenti” di Walser, irreparabilmente e caparbiamente occupati a collaborare a un’opera del tutto superflua, per non dire inqualificabile. Se studiano — e sembra che studino sodo — è per diventare uno zero tondo tondo. E perché mai dovrebbero aiutare quel che il mondo ritiene serio, visto che in verità non è che follia? Preferiscono passeggiare. E se, camminando, incontrano un cane o un altro vivente, gli bisbigliano: “non ho nulla da darti, caro animale, ti darei volentieri qualcosa, se l’avessi”. Salvo, alla fine, sdraiarsi su un prato per piangere amaramente la loro “stupida esistenza di sbarbatelli”.
Anche fra le cose si danno aiutanti. Ciascuno conserva di questi oggetti inutili, metà ricordo e metà talismano, di cui un po’ si vergogna, ma a cui non vorrebbe per nulla al mondo rinunciare. Si tratta, a volte, di un vecchio giocattolo sopravvissuto alle stragi infantili, di un astuccio da scolari che custodisce un odore perduto o di una maglietta striminzita che continuiamo, senza ragione, a tenere nel cassetto delle camicie “da uomo”. Qualcosa del genere doveva essere, per Kane, lo slittino Rosebud. O, per i suoi inseguitori, il falcone maltese che, alla fine, si rivela esser fatto della “stessa materia di cui sono fatti i sogni”. O il motorino di motocicletta trasformato in montapanna, di cui parla Sohn-Rethel nella sua stupenda descrizione di Napoli. Dove vanno a finire questi oggetti-aiutanti, questi testimoni di un eden inconfessato? Non esiste per loro un magazzino, un’arca in cui saranno raccolti per l’eternità, simile alla genizah in cui gli ebrei conservano i vecchi libri illeggibili, perché potrebbe pur sempre esserci scritto il nome di Dio?
Il capitolo 366 delle Illuminazioni della Mecca, il capolavoro del grande sufi Ibn-Arabi, è dedicato agli “aiutanti del Messia”. Questi aiutanti (wuzara, plurale di wazir, è il vizir che abbiamo incontrato tante volte nelle Mille e una notte) sono uomini che, nel tempo profano, posseggono già le caratteristiche del tempo messianico, appartengono già all’ultimo giorno. Curiosamente — ma forse proprio per questo — essi sono scelti fra i non-arabi, sono stranieri fra gli arabi anche se ne parlano la lingua. Il Mahdi, il messia che viene alla fine dei tempi, ha bisogno dei suoi aiutanti, che sono in qualche modo le sue guide, anche se essi non sono, in verità, che le personificazioni delle qualità o “stazioni” della sua stessa saggezza. “Il Mahdi prende le sue decisioni e pronuncia i suoi giudizi solo dopo essersi consultato con essi, poiché sono i veri conoscitori di ciò che esiste nella realtà divina”. Grazie ai suoi aiutanti, il Mahdi può comprendere la lingua degli animali e estendere la sua giustizia tanto agli uomini che ai jinn. Una delle qualità degli aiutanti è, infatti, di essere “traduttori” (mutarjim) dalla lingua di Dio nella lingua degli uomini. Secondo Ibn-Arabi, tutto il mondo non è anzi che una traduzione della lingua divina e gli aiutanti sono, in questo senso, gli operatori di un’incessante teofania, di una continua rivelazione. Un’altra qualità degli aiutanti è la “visione penetrante”, con la quale essi riconoscono gli “uomini dell’invisibile”, cioè gli angeli e gli altri messaggeri che si nascondono in forme umane o animali.
Ma gli aiutanti, i traduttori, come si fa a riconoscerli? Se, stranieri, si nascondono fra i fedeli, chi avrà la visione per distinguere i visionari?
Una creatura intermedia fra i wuzara e gli aiutanti di Kafka è l’omino gobbo che Benjamin evoca nei suoi ricordi infantili. Questo “inquilino della vita distorta” non è soltanto la cifra della goffaggine puerile, non è soltanto il mariolo che ruba il bicchiere a chi vuole bere e la preghiera a chi vuole pregare. Piuttosto chi lo guarda “perde la capacità di fare attenzione”. A sé e all’omino. Il gobetto è, infatti, il rappresentante del dimenticato, che si presenta a esigere in ogni cosa la parte dell’oblio. E questa parte ha a che fare colla fine dei tempi, così come la sbadataggine non è che un anticipo della redenzione. Le storture, la gobba, le goffaggini sono la forma che le cose assumono nell’oblio. E ciò che noi abbiamo già sempre dimenticato è il Regno, noi che viviamo “come se Regno non fossimo”. Ma quando il messia verrà, lo storto diventerà diritto, l’impaccio spigliatezza e l’oblio si ricorderà di se stesso.
Perché, è stato detto, “per loro e i loro simili, gli incompiuti e gli inetti, ci è data la speranza”.
L’idea che il Regno sia presente nel tempo profano in forme losche e distorte, che gli elementi dello stato finale si nascondano proprio in ciò che oggi appare infame e deriso, che la vergogna, insomma, abbia segretamente a che fare con la gloria, è un profondo tema messianico. Tutto ciò che ora ci appare incanaglito e dappoco è il pegno che dovremo riscattare nell’ultimo giorno, e a guidarci verso la salvezza è proprio il compagno che si è perso per strada. È il suo volto che riconosceremo nell’angelo che suona la tromba o in quello che, sbadato, si lascia cadere di mano il libro della vita. La scandella di luce che affiora nei nostri difetti e nelle nostre piccole abiezioni non era altro che la redenzione. Aiutanti, in questo senso, furono anche il cattivo compagno di scuola che ci passò sottobanco le prime fotografie pornografiche o il sordido sgabuzzino in cui qualcuno ci mostrò per la prima volta le sue nudità. Gli aiutanti sono i nostri desideri inesauditi, quelli che non confessiamo nemmeno a noi stessi, che nel giorno del giudizio ci verranno incontro sorridendo come Arturo e Geremia. Quel giorno, qualcuno ci sconterà i nostri rossori come cambiali per il paradiso. Regnare non significa esaudire. Significa che l’inesaudito è ciò che rimane.
L’aiutante è la figura di quel che si perde. O, meglio, della relazione col perduto. Questa si riferisce a tutto ciò che, nella vita collettiva come in quella individuale, viene in ogni istante dimenticato, alla massa interminata di ciò che di esse va irrevocabilmente perduto. In ogni istante, la misura di oblio e di rovina, lo scialo ontologico che portiamo in noi stessi eccede di gran lunga la pietà dei nostri ricordi e della nostra coscienza. Ma questo caos informe del dimenticato, che ci accompagna come un golem silenzioso, non è inerte né inefficace, al contrario, esso agisce in noi con non meno forza dei ricordi coscienti, anche se in modo diverso. Vi sono una forza e quasi un’apostrofe del dimenticato, che non possono essere misurate in termini di coscienza né accumulate come un sapere, ma la cui insistenza determina il rango di ogni sapere e di ogni coscienza. Ciò che il perduto esige non è di essere ricordato o esaudito, ma di restare in noi in quanto dimenticato, in quanto perduto e, unicamente per questo, indimenticabile. In tutto questo l’aiutante è di casa. Egli compita il testo dell’indimenticabile e lo traduce nella lingua dei sordomuti. Di qui quel suo ostinato gesticolare, di qui quel suo impassibile viso da mimo. Di qui, anche, la sua irrimediabile ambiguità. Poiché dell’indimenticabile si dà solo parodia. Il posto del canto è vuoto. Affianco e intorno si danno da fare gli aiutanti, che preparano il Regno.
—Giorgio Agamben, Il Giorno del Giudizio, Nottetempo, 2004