Quantomeno l’Aga Khan aveva creduto nella Sardegna e nei sardi.
Così si espresse Antonio Simon Mossa (1916-1971) negli anni Sessanta. Lui che cercava di ridare una identità e dignità a un’idea bandita e impronunciabile, coniando nel 1967 la formula “indipendentismo razionale”; lui che del turismo come orizzonte di sviluppo dei sardi scriveva già nel 1956, tre anni prima che il principe ismaelita mettesse piede per la prima volta sull’isola; lui che di una Costa Smeralda a dimensione ambientale e dai tratti sardi fu l’anima più sincera, tanto sincera da rifiutare ogni compenso per il suo lavoro quando nel 1969 vedrà che a prendere piede era un’idea diversa, “milanese”, come mi disse in un dialogo privato Savin Couelle, altro architetto-genio, protagonista inascoltato, che mi descrisse Simon Mossa come “un angelo” in un lungo caffé preso a Porto Cervo tanti anni fa.
Simon Mossa aveva ragione di dire dell’Aga Khan ciò che disse. Sicuramente Karim, in quell’inizio degli anni Sessanta, credette nella Sardegna e nei sardi più di quanto ci credeva lo Stato italiano, che trattava i sardi come banditi e la Sardegna come l’Algeria (per riprendere un parallelo sempre di Simon Mossa). Ci credette più della classe dirigente sarda, che dopo aver ipotizzato una Rinascita rivolta alla modernizzazione dell’agricoltura, della pastorizia e delle produzioni artigiane aveva accettato entusiasticamente l’industrializzazione petrolchimica perché “serviva al Paese”. Ci aveva creduto di più dei padri del sardismo, che teorizzando fra gli anni Venti e Cinquanta che i sardi erano una nazione abortiva, fallita, mancata, un popolo fatalmente sconfitto, ma talmente sconfitto da dover accettare che in fondo era meglio così, avevano toccato il fondo del non credere nei sardi e nella Sardegna. E avevano convinto quasi tutti (ma non Simon Mossa) a scavare la fossa e buttarcisi dentro.
È vero, davanti a tale e tanta desolazione l’Aga Khan vinceva facile in quanto a passare per uno che aveva fiducia nella Sardegna e nei sardi. Ma questo gli va riconosciuto. Senza che questo significhi passare per ingenui. Perché che avesse il suo interesse nel crederci e nell’investirci è tanto ovvio quanto normale. Perché il merito di una visione non va confuso con la contraddizione degli esiti. Tanto più contraddittori perché i sardi non ne hanno governato minimamente gli sviluppi, come Simon Mossa proponeva quando parlava del turismo come un orizzonte da governare.
Ben vengano dunque le celebrazioni di Karim. Ma non come quelle di un benefattore ingenuo e disinteressato. O secondo la solita logica del salvatore che viene sempre da fuori. Ben vengano, con tutte le sfumature del caso, per ricordare uno che ha visto nella Sardegna una potenzialità, una bellezza, che non vedeva quasi nessuno. A parte quell’indipendentista di Simon Mossa. Uno che alla Sardegna ci ha creduto prima e anche più di Karim.