di Umberto Eco
Non c’è bisogno di scomodare gli psicoanalisti per ammettere che i figli tendono a uccidere i loro padri — ed è solo per attenermi alla letteratura in merito che uso il termine maschile, non ignorando che è stata buona e millenaria abitudine, dai cattivi rapporti tra Nerone e Agrippina ai fatti di Novi Ligure, uccidere anche le madri.
Il problema è piuttosto che, simmetrico all’assalto dei figli ai padri, c’è sempre stato l’assalto dei padri ai figli. Edipo, e sia pure senza colpa, uccide Laio, ma Saturno divora i suoi figli e a Medea non potrebbe certo essere intitolata una scuola materna. Per tanti eredi al trono di Bisanzio che accecano i loro padri ci sono tanti sultani che a Costantinopoli si salvaguardano da una successione troppo accelerata uccidendo i figli di primo letto.
Il conflitto padri e figli può assumere anche forme non violente, ma non per questo meno drammatiche. Ci si oppone al padre anche irridendolo, e si veda cosa fa Cam con Noè; anche se si considera l’accettazione di Abramo, disposto a sacrificare Isacco, come sublime esempio di resa al volere divino, direi che nel far questo Abramo considerava il figlio come cosa sua di cui disporre. Che poi Isacco fosse sfortunato lo si vede da quanto gli accade quando padre diventa lui: Giacobbe non lo uccide, certo, ma gli sottrae il diritto di successione con un trucco indegno, approfittando della sua cecità, stratagemma forse ancor più oltraggioso di un bel parricidio.
Ogni querelle des anciens et des modernes è sempre all’insegna di una lotta simmetrica. Per venire a quella secentesca da cui mutuiamo la formula, è vero che Perrault o Fontenelle asserivano che le opere dei contemporanei, in quanto più mature di quelle dei loro antenati, erano dunque migliori (e dunque i poètes galants e gli esprits curieux privilegiavano le nuove forme dell’opera, del racconto e del romanzo), ma la querelle era sorta e si era alimentata perché contro i nuovi si ergevano, autorevolissimi, Boileau e tutti coloro che erano a favore di un’imitazione degli antichi.
Se vi è querelle, agli innovatori si oppongono sempre i laudatores temporis acti, e molte volte l’elogio della novità e della rottura col passato nasce proprio come reazione al conservatorismo dilagante. Se ai nostri tempi ci sono stati i poeti Novissimi, tutti abbiamo studiato a scuola che duemila anni prima c’erano stati i poetae novi. Ai tempi di Catullo la parola modernus non esisteva ancora, ma novi si dicevano i poeti che si richiamavano alla lirica greca per opporsi alla tradizione latina. Ovidio nell’Ars amandi (III 120ss.) diceva prisca iuvent alios (lascio il passato agli altri), ego me nunc denique natum /gratulor; haec aetas moribus apta meis ecc. (io sono fiero di essere nato oggi perché questo tempo mi si confà, perché è più raffinato e non così rustico come le epoche passate). Ma che i nuovi dessero fastidio ai laudatori del tempo andato ce lo ricorda Orazio (Epistole II 1,75ss.), che aveva usato invece di “moderno” l’avverbio nuper, per dire che era un peccato che un libro fosse condannato non per mancanza di eleganza sed quia nuper, perché era apparso solo il giorno prima. Che è poi l’atteggiamento di chi oggi, recensendo un giovane scrittore, lamenta che ormai non si scrivano più i romanzi di una volta.
Il termine modernus entra in scena proprio quando finisce quella che è per noi l’antichità, e cioè verso il V secolo d.C., quando l’Europa intera piomba nella parentesi di quei secoli veramente oscuri che precedono la rinascenza carolingia — quelli che a noi paiono i tempi meno moderni di tutti. Proprio in quei secoli “bui”, in cui si affievolisce il ricordo delle grandezze passate, e ne sopravvivono vestigia combuste e fatiscenti, l’innovazione s’instaura, anche senza che gli innovatori se ne rendano conto. Infatti è allora che incominciano ad affermarsi le nuove lingue europee, forse l’evento culturalmente più innovativo e più travolgente degli ultimi duemila anni. Simmetricamente, il latino classico stava diventando latino medievale. In questo periodo emergono i segni di un orgoglio dell’innovazione.
Primo atto d’orgoglio, il riconoscimento che si sta inventando un latino che non è più quello degli antichi. Dopo la caduta dell’impero romano il vecchio continente assiste alla crisi delle culture agricole, alla distruzione delle grandi città, delle strade, degli acquedotti romani; in un territorio coperto di foreste, monaci, poeti e miniatori vedono il mondo come una selva oscura, abitata da mostri. Gregorio di Tours sin dal 580 denunciava la fine delle lettere, e non ricordo quale papa si chiedeva se fossero ancora validi i battesimi, impartiti nelle Gallie, dove si battezzava ormai in nomine Patris et Filiae (della Figlia) et Spiritus Sancti, perché anche il clero non conosceva più il latino. Ma tra il VII e il X secolo si sviluppa quella che è stata chiamata l’“estetica isperica”, uno stile che si afferma dalla Spagna alle isole britanniche, toccando la Gallia. La tradizione classica latina aveva descritto (e condannato) questo stile caratterizzandolo come “asiano” (e poi “africano”), in opposizione all’equilibrio dello stile “attico”. Nello stile asiano si condannava quello che la retorica classica chiamava il kakozelon ovvero la mala affectatio. E per avere un esempio di come i Padri della Chiesa verso il V secolo si scandalizzassero di fronte a esempi di mala affectatio, si veda questa invettiva di San Gerolamo (Adversus Jovinianum I, PL XXIII 211):
Tanto grande è la barbarie dei suoi scritti e il suo discorso è offuscato e confuso da così gravi vizi di stile che non si comprende più né di che cosa parli né con quali argomentazioni voglia sostenere ciò di cui parla. Tutto si gonfia per poi tutto afflosciarsi; si solleva un pezzo alla volta e, come un serpente malato, si spezza mentre tenta le sue volute […] Tutto avvolge in nodi verbali inestricabili, e si dovrebbe ripetere con Plauto «qui nessuno può comprendere, tranne la Sibilla» […] Ma a che servono queste stregonerie di parole?
Ma quelli che per la tradizione classica erano “vizi”, per la poetica isperica diventano virtù. La pagina isperica non ubbidisce più alle leggi della sintassi e della retorica tradizionale, le regole del ritmo e del metro sono violate per produrre elenchi di sapore barocco. Lunghe catene di allitterazioni che il mondo classico avrebbe giudicato cacofoniche ora producono una nuova musica, e Adhelm di Malmesbury (Lettera a Eahfrid, PL LXXXIX 92) si esalta a costruire frasi dove ogni parola inizia con la stessa lettera: Primitus (pantorum procerum praetorumque pio potissimum paternoque praesertim privilegio) panegyricum poemataque passim prosatori sub polo promulgantes, ecc.
Il lessico si arricchisce di ibridi incredibili, prendendo a prestito termini ebraici ed ellenismi, il discorso si infittisce di crittogrammi. Se l’estetica classica aveva come ideale la chiarezza, l’estetica isperica avrà come ideale l’oscurità. Se l’estetica classica aveva come ideale la proporzione, l’estetica isperica privilegerà la complessità, l’abbondanza di epiteti e di perifrasi, il gigantesco, il mostruoso, l’incontenibile, lo smisurato, il prodigioso. Per definire le onde marine appaiono aggettivi come astriferus o glaucicomus, e si apprezzeranno neologismi come pectoreus, placoreus, sonoreus, alboreus, propriferus, flammiger, gaudifluus…
Sono le stesse invenzioni lessicali lodate nel VII secolo da Virgilio Grammatico nelle sue Epitomi e nelle sue Epistole. Questo folle grammatico di Bigorre, vicino a Tolosa, citava brani di Cicerone o Virgilio (l’altro, quello vero) che questi autori non potevano certo aver scritto, ma poi si scopre, o si intuisce, che apparteneva a una conventicola di retori ciascuno dei quali aveva assunto il nome di un autore classico, ma sotto questo falso nome scrivevano un latino che certamente classico non era, e se ne gloriavano. Virgilio di Bigorre crea un universo linguistico che sembra uscito dalla fantasia di Edoardo Sanguineti, anche se è probabilmente accaduto viceversa. Dice Virgilio che ci sono dodici specie di lingua latina, e in ciascuna il fuoco può avere nomi diversi, come ignis, quoquinhabin, ardon, calax, spiridon, rusin, fragon, fumaton, ustrax, vitius, siluleus, aeneon (Epitomae I 4). La battaglia si chiama praelium, perché avviene sul mare (detto praelum perché per la sua immensità ha il primato o praelatum del meraviglioso, Epitomae IV 10). D’altra parte le regole stesse della lingua latina vengono messe in questione e si racconta che i retori Galbungus e Terrentius per quattordici giorni e quattordici notti siano stati a disputare sul vocativo di ego (e il problema era della massima importanza, perché si tratta di stabilire come si potesse rivolgersi enfaticamente a se stesso («oh io, ho fatto bene? » O egone, recte feci?).
Ma passiamo ai volgari. Verso la fine del V secolo il popolo già non parla più latino, ma gallo-romano, italo-romano, ispano-romano o romano-balcanico. Erano lingue parlate ma non scritte, eppure ancor prima del Serment de Strasbourg e della Carta Capuana, appare una celebrazione della novità linguistica. E negli stessi secoli che, di fronte alla moltiplicazione delle lingue, si rivisita la storia della Torre di Babele e di solito si vede in questa storia il segno di una maledizione e di una sventura. Ma c’è già chi osa vedere nella nascita dei nuovi volgari un segno di modernità, e di perfezionamento.
Nel VII secolo alcuni grammatici irlandesi cercano di definire i vantaggi del volgare gaelico rispetto alla grammatica latina. In un’opera intitolata I precetti dei poeti, si rifanno proprio alle strutture della Torre di Babele: come per la costruzione della torre si erano usati nove materiali, cioè argilla e acqua, lana e sangue, legna e calce, pece, lino e bitume, così per formare il gaelico si erano usati nome, aggettivo, pronome, verbo, avverbio, participio, congiunzione, preposizione, interiezioni. Il parallelo è rivelativo: occorrerà attendere Hegel per ritrovare nel mito della Torre un modello positivo. I grammatici irlandesi ritengono che il gaelico costituisca il primo e unico esempio di superamento della confusione delle lingue. I suoi creatori, attraverso un’operazione che oggi diremmo di taglia e incolla, hanno scelto ciò che c’era di meglio in ogni lingua e per ogni cosa di cui altre lingue non avevano trovato il nome, lo hanno prodotto — e in modo da manifestare un’identità di forma, parola e cosa.
Con ben diversa consapevolezza della propria impresa e della propria dignità, alcuni secoli dopo, Dante si considererà un innovatore in quanto inventore di un nuovo volgare. Di fronte alla pletora dei dialetti italiani, che egli analizza con precisione di linguista ma sufficienza e talora disprezzo di poeta — che non aveva mai dubitato di essere sommo tra tutti — Dante conclude che occorre mirare a un volgare illustre (diffusivo di luce), cardinale (che funzioni da cardine e regola), regale (degno di prender posto nella reggia di un regno nazionale, se mai gli italiani l’avessero) e curiale (linguaggio del governo, del giure, della saggezza). Il De Vulgari Eloquentia tratteggia le regole di composizione dell’unico e vero volgare illustre, la lingua poetica di cui Dante si considera superbamente il fondatore, e che egli oppone alle lingue della confusione come una lingua che ritrova la primigenia affinità alle cose che fu propria della lingua adamica. Questo volgare illustre, di cui Dante va in caccia come di una “pantera profumata”, rappresenta una restaurazione della lingua edenica, così da sanare la ferita post-babelica. Dipende da questa ardita concezione del proprio ruolo di restauratore della lingua perfetta il fatto che Dante, anziché biasimare la molteplicità delle lingue, ne metta in rilievo la forza quasi biologica, la loro capacità di rinnovarsi, di mutare nel tempo. È proprio in base a questa asserita creatività linguistica che egli può proporsi di inventare una lingua perfetta moderna e naturale, senza andare alla caccia di modelli perduti, come per esempio l’ebraico primigenio. Dante si candida a essere un nuovo (e più perfetto) Adamo. Rispetto all’orgoglio dantesco, l’affermazione un poco più tarda di Rimbaud, il faut être absolument moderne, apparirà datata. Nella lotta tra padri e figli, Nel mezzo del cammin di nostra vita è ben più parricida della Saison en enfer.
Forse il primo episodio di lotta tra generazioni in cui appare esplicitamente il termine modernus non si ha nell’ambito letterario bensì nell’ambito filosofico. Se il primo medioevo si era rivolto, come alle sue fonti filosofiche primarie, a testi del tardo neoplatonismo, ad Agostino, e a quegli scritti aristotelici chiamati Logica Vetus, verso il XII secolo entrano gradualmente nel circuito della cultura scolastica altri testi aristotelici (come i Primi e i Secondi Analitici, i Topici e gli Elenchi Sofistici) che saranno detti Logica Nova. Ma su questa sollecitazione si passa da un discorso meramente metafisico e teologico alla esplorazione di tutte quelle sottigliezze del ragionamento che oggi la logica contemporanea studia come il lascito più vivace del pensiero medievale, e sorge quella che si definisce (evidentemente con l’orgoglio di ogni movimento innovatore) Logica Modernorum.
Quale fosse la novità della Logica Modernorum rispetto al pensiero teologico del passato ce lo dice il fatto che la Chiesa ha elevato alla gloria degli altari Anselmo d’Aosta, Tommaso d’Aquino e Bonaventura, ma nessuno dei propugnatori della logica moderna. Non che fossero eretici. Semplicemente, rispetto al dibattito teologico dei secoli passati, si preoccupavano d’altro, oggi diremmo che si occupavano del funzionamento della nostra mente. Costoro stavano più o meno coscientemente uccidendo i loro padri, proprio come poi la filosofia dell’Umanesimo avrebbe tentato di uccidere loro, moderni ormai sorpassati — ma riuscendo soltanto a ibernarli nelle aule delle università, dove le università contemporanee (dico di oggi) li avrebbero riscoperti.
In tutti i casi che ho citato appare tuttavia che ogni atto d’innovazione, e di contestazione dei padri, avviene sempre attraverso il ricorso a un antenato, riconosciuto migliore del padre che si tenta di uccidere, e a cui ci si rifà. I poetae novi contestavano la tradizione latina rifacendosi ai lirici greci, i poeti isperici e Virgilio Grammatico creavano i loro ibridi linguistici prendendo a prestito etimi celtici, visigotici, ellenistici ed ebraici, i grammatici irlandesi celebravano un linguaggio che si opponeva al latino perché era collage di lingue ben più antiche, Dante aveva bisogno di un antenato molto forte come Virgilio (il Marone), la Logica Modernorum era moderna grazie alla scoperta dell’Aristotele perduto.
Un topos assai frequente nel medioevo era quello per cui gli antichi erano più belli e di statura più alta. Rilievo che oggi sarebbe del tutto insostenibile, e basta andare a guardare la lunghezza dei letti in cui dormiva Napoleone, ma che forse a quei tempi non era del tutto insensato: e non solo perché l’immagine che si aveva dell’antichità era data da statue celebrative, che allungavano il celebrando di molti centimetri, ma anche perché con la caduta dell’impero romano si erano avuti secoli di spopolamento e carestie, per cui quei crociati e quei cavalieri del Graal che troneggiano nella cinematografia contemporanea erano con molta probabilità meno alti di molti vittoriosi cavalieri dei nostri tempi. Alessandro Magno era di statura modesta, ma è probabile che Vercingetorige fosse più alto di re Artù. In nome della contrapposizione simmetrica, un altro topos frequente sin dalla Bibbia, attraverso la tarda antichità e oltre, era quello del puer senilis, un giovane che aveva, coi pregi della giovinezza, tutte le virtù della senectus. Ora, apparentemente l’elogio della statura degli antichi può sembrare un vezzo conservatore, e innovativo il modello di quella senilis in iuvene prudentia celebrato da Apuleio. Ma non è così. L’elogio degli antichissimi è il gesto attraverso cui gli innovatori vanno a ricercare le ragioni della propria innovazione in una tradizione che i padri hanno dimenticato.
A parte i pochi casi citati, massime l’orgoglio di Dante, nel medioevo si presumeva di dire cose vere nella misura in cui esse erano state sostenute da un’auctoritas precedente, a tal punto che, se si sospettava che l’auctoritas non sostenesse la nuova idea, si provvedeva a manipolarne la testimonianza perché l’auctoritas, come diceva Alano di Lilla nel XII secolo, ha un naso di cera.
Dobbiamo cercare di capire bene questo punto perché, da Cartesio in avanti, il filosofo è colui che fa tabula rasa del sapere precedente e — come diceva Maritain — si presenta come un débutant dans l’absolu. Qualsiasi pensatore dei giorni nostri (per non dire di un poeta o romanziere o pittore) per essere preso sul serio deve mostrare in qualche modo di dire qualcosa di diverso dai propri immediati predecessori, e anche quando non lo fa deve fare finta di dirlo. Ebbene, gli scolastici facevano esattamente il contrario. Compivano i parricidi più drammatici, per così dire, affermando e cercando di mostrare che stavano esattamente ripetendo quello che avevano detto i loro padri. San Tommaso ha, per i suoi tempi, rivoluzionato la filosofia cristiana, ma sarebbe stato pronto a rispondere, a chi glielo avesse rimproverato (e c’è stato chi ci ha provato), che lui non faceva altro che ripetere quello che aveva detto otto secoli e mezzo prima sant’Agostino. Non era menzogna né ipocrisia. Semplicemente il pensatore medievale pensava che fosse giusto correggere qua e là le opinioni dei suoi predecessori quando gli pareva di avere, proprio grazie a loro, idee più chiare. E di qui nasce l’aforisma dei Nani e dei Giganti.
Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantum humeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine, aut eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine gigantea.
Bernardo di Chartres diceva che noi siamo come nani che stanno sulle spalle dei giganti, così che possiamo vedere più lontano di loro non a causa della nostra statura o dell’acutezza della nostra vista, ma perché — stando sulle loro spalle — stiamo più in alto di loro.
Se volete avere una rassegna delle origini dell’aforisma, per il periodo medievale potete ricorrere al libretto di Edouard Jeauneau, Nani sulle spalle di giganti (Napoli 1969), ma più gaiamente dissennato, vagabondo ed eccitante è quel On the shoulders of giants scritto nel 1965 da uno dei più grandi sociologi contemporanei, Robert Merton. Merton era stato affascinato un giorno dalla formulazione che dell’aforisma aveva dato Newton, in una lettera a Hooke del 1675: «If I have seen further it is by standing on ye sholders of Giants», così è risalito all’indietro per trovarne le origini, e ha proseguito in avanti per documentarne la fortuna, attraverso una serie di divagazioni erudite che di edizione in edizione ha arricchito di noterelle e aggiunte, sino a che, dopo averlo fatto tradurre in italiano (come Sulle spalle dei giganti, Bologna 1991; e avendo avuto la bontà di chiedere una mia prefazione), lo ha riproposto in inglese nel 1993 come «the post-italianate edition».
L’aforisma dei Nani e dei Giganti è attribuito a Bernardo di Chartres da Giovanni di Salisbury nel Metalogicon (III 4). Siamo nel XII secolo. Forse Bernardo non ne è il primo inventore, perché il concetto (se non la metafora dei nani) appare sei secoli prima in Prisciano, e un tramite tra Prisciano e Bernardo sarebbe Guglielmo di Conches, che di nani e giganti parla nelle sue Glosse a Prisciano, trentasei anni prima di Giovanni di Salisbury. Ma quello che ci interessa è che dopo Giovanni di Salisbury l’aforisma è ripreso un poco da tutti, nel 1160 in un testo della scuola di Laon, nel 1185 circa dallo storico danese Sven Aggesen, in Gerardo di Cambrai, Raoul de Longchamp, Egidio di Corbeil, Gerardo d’Alvernia, e nel XIV secolo in Alexandre Ricat, medico dei re d’Aragona, due secoli dopo nelle opere di Ambroise Paré e poi in uno scienziato secentesco come Richard Sennert e poi in Newton. Tullio Gregory segnala una apparizione dell’aforisma in Gassendi (Scetticismo e empirismo. Studio su Gassendi, Bari 1961), ma si potrebbe arrivare come minimo a Ortega y Gasset, che nel suo saggio Entorno a Galileo (Obras completas, V, Madrid 1947, 45), parlando del susseguirsi delle generazioni, dice che gli uomini stanno «gli uni sulle spalle degli altri, e colui il quale sta in alto gode dell’impressione di dominare gli altri, ma dovrebbe avvertire nello stesso tempo che è prigioniero di essi». D’altra parte nel recente Entropia di Jeremy Rifkin trovo una citazione da Max Gluckman che dice: «scienza è qualsiasi disciplina in cui anche uno stupido di questa generazione può oltrepassare il punto raggiunto da un genio della generazione precedente». Tra questa citazione e quella attribuita a Bernardo passano otto secoli, ed è successo qualcosa: un detto che si riferiva al rapporto coi padri nel pensiero filosofico e teologico diventa un detto che contrassegna il carattere progressivo della scienza.
Alle sue origini medievali l’aforisma divenne popolare perché permetteva di risolvere in modo apparentemente non rivoluzionario il conflitto tra generazioni. Gli antichi sono certamente giganti rispetto a noi; ma noi, pur essendo nani, sedendo sulle loro spalle, e cioè approfittando della loro saggezza, possiamo vedere meglio di loro. Questo aforisma era originalmente umile o superbo? Voleva dire che noi conosciamo, sia pure meglio, quello che gli antichi ci hanno insegnato, o che conosciamo, sia pure grazie al debito con gli antichi, ben più di loro?
Siccome uno dei temi ricorrenti della cultura medievale è la progressiva senescenza del mondo, si potrebbe interpretare l’aforisma di Bernardo nel senso che, visto che mundus senescit, noi più giovani invecchiamo rispetto agli antichi, ma almeno comprendiamo o facciamo grazie a loro qualcosa che loro non erano arrivati a fare o comprendere. Bernardo di Chartres proponeva l’aforisma nell’ambito di un dibattito sulla grammatica, dove era in gioco il concetto di conoscenza e imitazione dello stile degli antichi ma, teste sempre Giovanni di Salisbury, Bernardo rimproverava gli allievi che copiavano servilmente gli antichi e diceva che il problema non era di scrivere come loro ma di imparare da loro a scrivere bene quanto loro, in modo che in seguito qualcuno si ispiri a noi come noi ci ispiriamo a loro. Quindi, seppure non nei termini in cui lo leggiamo oggi, un appello all’autonomia e al coraggio innovativo nel suo aforisma c’era.
Diceva l’aforisma che “noi vediamo più lontano degli antichi”. Evidentemente la metafora è spaziale e sottintende una marcia verso un orizzonte. Non possiamo dimenticare che la storia, come movimento progressivo verso il futuro, dalla creazione alla redenzione, e da questa al ritorno del Cristo trionfante, è una invenzione dei padri della Chiesa — per cui, piaccia o non piaccia, senza cristianesimo (sia pure con il messianismo ebraico alle spalle) né Hegel né Marx avrebbero potuto parlare di quelle che Leopardi vedeva scetticamente come «le magnifiche sorti e progressive».
L’aforisma appare all’inizio del XII secolo. Da meno di un secolo si è sopito un dibattito che aveva attraversato il mondo cristiano dalle prime letture dell’Apocalisse sino ai terrori dell’Anno Mille — certamente leggendari quanto a movimento di massa, ma presenti in tutta la letteratura millenaristica e in molte correnti eretiche più o meno sotterranee. Il millenarismo, ovvero l’attesa nevrotica di una fine dei tempi, nel momento in cui nasce l’aforisma, rimane patrimonio attivo di tanti movimenti ereticali ma scompare dalla discussione ortodossa. Si procede verso la Parusia finale, ma essa diventa il punto terminale ideale di una storia che viene vista in positivo. I Nani diventano il simbolo di questa marcia verso l’avvenire.
Dall’apparizione medievale dei Nani inizia la storia della modernità come innovazione che può essere tale perché ritrova modelli dimenticati dai padri. Prendiamo per esempio la curiosa situazione dei primi umanisti, e di filosofi come Pico o Ficino. Sono i protagonisti, ci raccontano a scuola, di una battaglia contro il mondo medievale, ed è più o meno in questo periodo che appare la parola “gotico”, con connotazioni non del tutto favorevoli. Eppure il platonismo rinascimentale che fa? Oppone Platone ad Aristotele, scopre il Corpus Hermeticum o gli Oracoli Caldaici, costruisce il nuovo sapere su una sapienza prisca, anteriore allo stesso Gesù Cristo. Umanesimo e Rinascimento sono moti culturali comunemente intesi come rivoluzionari, che tuttavia impostano la loro strategia innovatrice su un colpo di mano tra i più reazionari che siano mai esistiti, se per reazionarismo filosofico si intende un ritorno alla Tradizione intemporale. E dunque siamo di fronte a un parricidio che elimina i padri ricorrendo ai nonni, ed è sulle loro spalle che si cercherà di ricostruire la visione rinascimentale dell’uomo come centro del cosmo.
È probabilmente con la scienza secentesca che la cultura occidentale si rende conto di avere messo il mondo a gambe all’aria, e dunque di avere rivoluzionato davvero il sapere. Ma il punto di partenza, l’ipotesi copernicana, si rifaceva a reminiscenze platoniche e pitagoriche. I gesuiti del periodo barocco cercano di costruire una modernità alternativa a quella copernicana riscoprendo antiche scritture e civiltà del lontano oriente. Isaac de la Peyrère, eretico patentato, aveva cercato di mostrare (uccidendo le cronologie bibliche) che il mondo era inizia to molto prima di Adamo, nei mari della Cina, e che pertanto l’Incarnazione era stata solo un episodio secondario nella storia di questo nostro globo. Vico vede l’intera storia umana come un processo che ci porta dai Giganti di un tempo a riflettere finalmente con mente pura. L’Illuminismo si sente radicalmente moderno, e come effetto marginale il proprio padre lo uccide davvero, usando come capro espiatorio Luigi Capeto. Ma anche qui, basta leggere l’Encyclopédie, ai Giganti del passato ci si rivolge sovente. L’Encyclopédie presenta tavole incise piene di macchine celebrando la nuova industria manifatturiera, ma non disdegna articoli “revisionisti” (nel senso che rilegge, da nano attivissimo, la storia) in cui si rivisitano antiche dottrine.
Le grandi rivoluzioni copernicane del XIX secolo si richiamano sempre a Giganti precedenti. Kant aveva bisogno che Hume lo risvegliasse dal suo sonno dogmatico, i romantici si dispongono alla Tempesta e all’Assalto riscoprendo le brume e i castelli medievali, Hegel sancisce definitivamente il primato del nuovo verso l’antico, vedendo la storia come movimento perfettivo senza scorie e nostalgie, rileggendo l’intera storia del pensiero umano, Marx elabora il proprio materialismo partendo, con la sua tesi di laurea, dagli atomisti greci, Darwin uccide i suoi padri biblici eleggendo a Giganti le grandi scimmie antropomorfe, sulle cui spalle gli uomini discendono dagli alberi e si ritrovano, ancora pieni di stupore e ferocia, a dover amministrare quella meraviglia dell’evoluzione che è il pollice contrapposto. Con la seconda metà del XIX secolo si fa strada un movimento di innovazione artistica che si risolve quasi interamente in una riappropriazione del passato, dai preraffaelliti ai decadenti. La riscoperta di alcuni padri remoti serve come rivolta contro i padri diretti, corrotti dai telai meccanici. E Carducci si farà araldo della modernità con un Inno a Satana, ma cercherà di continuo ragioni e ideali nel mito dell’Italia comunale.
Le avanguardie storiche di inizio Novecento rappresentano il punto estremo del parricidio modernista, che dice di volersi ormai libero da ogni ossequenza verso il passato. È la vittoria della macchina da corsa contro la Vittoria di Samotracia, l’uccisione del chiaro di luna, il culto della guerra come sola igiene del mondo, la scomposizione cubista delle forme, la marcia dall’astrazione alla tela bianca, la sostituzione della musica col rumore, o col silenzio, o almeno della scala tonale con la serie, della curtain wall che non domina bensì assorbe l’ambiente, dell’edificio come stele, puro parallelepipedo, della rninimal art; e in letteratura della distruzione del flusso discorsivo, dei tempi narrativi, il collage, la pagina bianca. Ma anche qui riemerge, sotto il rifiuto di nuovi Giganti che vogliono azzerare l’eredità dei Giganti antichi, l’ossequenza del Nano. Non dico tanto Marinetti che, per farsi perdonare l’uccisione del chiaro di luna, entrerà nell’Accademia d’Italia, che il chiaro di luna vedeva con molta simpatia. Ma Picasso arriva a sfigurare il volto umano partendo da una meditazione sui modelli classici e rinascimentali, e ritorna infine a una rivisitazione di antichi minotauri; Duchamp fa il baffo alla Gioconda, ma ha bisogno della Gioconda per fare il suo baffo; Magritte per negare che quella che dipinge sia una pipa deve dipingere, con puntiglioso realismo, una pipa. E infine, il grande parricidio compiuto sul corpo storico del romanzo, quello di Joyce, si instaura assumendo il modello della narrazione omerica. Anche il nuovissimo Ulisse naviga sulle spalle, o sull’albero maestro, dell’antico.
Con il che arriviamo al cosiddetto postmoderno.
Postmoderno è certamente un termine tuttofare, che si può applicare a molte cose e forse a troppe. Ma c’è certamente un punto in comune con le varie operazioni dette postmoderne, e nasce come reazione, magari inconscia, alla Seconda Inattuale di Nietzsche, dove si denunzia l’eccesso della nostra consapevolezza storica. Se questa consapevolezza non può essere neppure eliminata dal gesto rivoluzionario delle avanguardie, tanto vale accettare l’angoscia dell’influenza, rivisitare il passato in forma di omaggio apparente, in effetti riconsiderandolo a quella distanza che è consentita dall’ironia.
Veniamo infine all’ultimo episodio di rivolta generazionale, chiaro esempio di contestazione dei giovani “nuovi” contro la società adulta, dei giovani che avvertono di non fidarsi di chi ha più di trent’anni, il Sessantotto. A parte i figli dei fiori americani che traggono ispirazione dal messaggio del vecchio Marcuse, gli slogan gridati nei cortei italiani (Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse Tung!) ci dicono quanto la rivolta avesse bisogno di Giganti da ricuperare contro il tradimento dei padri della sinistra parlamentare, e torna persino in scena il puer senilis, l’icona di un Che Guevara morto giovane ma trasfigurato dalla morte come portatore di ogni prisca virtù.
Ma dal Sessantotto a oggi è accaduto qualcosa, e ce ne rendiamo conto se andiamo a esaminare un fenomeno che alcuni, superficialmente, vedono come un nuovo Sessantotto, dico il movimento antiglobalizzazione. Spesso la stampa dà maggiore evidenza a certe sue componenti giovanili, che tuttavia non esauriscono il movimento, a cui pare aderiscano anche prelati ultrasessantenni. Il Sessantotto era veramente una invenzione generazionale, a cui al massimo si adattavano adulti disadattati, che abbandonavano misticamente la cravatta per il maglione, e il dopobarba per una liberatoria proliferazione pilifera. Ma uno degli slogan iniziali del movimento era la raccomandazione a non fidarsi di chi avesse più di trent’anni. Il movimento antiglobalizzazione, invece, per gran parte non è fenomeno giovanile, e i suoi leader sono adulti maturi come Bové o reduci di altre rivoluzioni. Non rappresenta un conflitto tra generazioni, e neppure tra tradizione e innovazione, altrimenti si dovrebbe dire (altrettanto superficialmente) che gli innovatori sono i tecnocrati della globalizzazione, e i manifestanti laudatores temporis acti con propensioni semplicemente luddiste. Quello che sta avvenendo, dai fatti di Seattle a quelli di Genova, rappresenta certamente una novissima forma del confronto politico, ma questo confronto è assolutamente trasversale sia rispetto alle generazioni che alle ideologie. In esso si oppongono due istanze, due visioni del destino del mondo, vorrei dire due poteri, uno basato sul possesso dei mezzi di produzione e l’altro sull’invenzione di nuovi mezzi di comunicazione. Però, nella battaglia che oppone i globalizzatori alle tute bianche, giovani e vecchi stanno egualmente distribuiti da ambo le parti, e i trentenni rampanti della New Economy si oppongono ai trentenni dei centri sociali, ciascuno con i propri anziani a fianco.
È che nei trenta e più anni che separano il Sessantotto dalla battaglia del G8 si è compiuto un processo che si era avviato molto prima. Cerchiamo di capirne la meccanica interna. In ogni tempo, perché s’instaurasse una dialettica tra figli e padri, occorreva un modello paterno molto forte, rispetto al quale la provocazione del figlio fosse tale che il padre non potesse accettarla, e in essa non potesse accettare neppure la riscoperta dei Giganti dimenticati. Non potevano essere accettati i nuovi poeti quia nuper, come diceva Orazio, era inaccettabile il volgare ai paludati latinisti delle università, Tommaso e Bonaventura innovavano sperando che nessuno se ne accorgesse, ma i nemici degli ordini mendicanti, all’università di Parigi, se ne erano accorti benissimo e avevano cercato di mettere al bando il loro insegnamento. E così via, sino all’automobile di Marinetti, che poteva essere opposta alla Vittoria di Samotracia perché e solo perché i benpensanti la vedevano ancora come un orrido ammasso di ferraglia digrignante.
I modelli debbono dunque essere generazionali. Occorreva che i padri avessero venerato le veneri anoressiche di Cranach perché sentissero come un insulto alla bellezza le veneri cellulitiche di Rubens; occorreva che i padri avessero amato Alma Tadema affinché potessero chiedere ai figli che cosa mai significava quello scarabocchio di Miró, o la riscoperta dell’arte africana; occorreva che i padri avessero delirato per Greta Garbo affinché domandassero scandalizzati ai figli che cosa ci trovassero in quella scimmietta di Brigitte Bardot.
Ma oggi i mass media, e la stessa mediatizzazione dei musei, visitati anche dagli indotti di un tempo, hanno generato la compresenza e l’accettazione sincretistica di tutti i modelli, per non dire di tutti i valori. Quando Megan Gale volteggia tra le cupole e le volute del museo Guggenheim di Bilbao, sia il modello sessuale sia il modello artistico sono appetibili da ogni generazione, il museo è sessualmente desiderabile quanto Megan e Megan oggetto culturale tanto quanto il museo, dato che entrambi vivono nell’amalgama di un’invenzione cinematografica che unisce la gastronomicità dell’appello pubblicitario all’arditezza estetica di quello che una volta era solo film da cineteca.
Tra nuove proposte ed esercizi di nostalgia la televisione rende transgenerazionali modelli come Che Guevara e Madre Teresa di Calcutta, lady Diana e Padre Pio, Rita Hayworth, Brigitte Bardot e Julia Roberts, il virilissimo John Wayne degli anni Quaranta e il mansueto Dustin Hoffman degli anni Sessanta. L’esile Fred Astaire degli anni Trenta danza nei Cinquanta con il tarchiato Gene Kelly, lo schermo ci fa sognare su toilettes femmineamente sontuose come quelle che vediamo sfilare in Roberta, e sui modelli androgini di Coco Chanel. Per chi non ha la bellezza maschia e raffinata di Richard Gere, c’è il fascino esile di Al Pacino e la simpatia proletaria di Robert De Niro. Per chi non può arrivare a possedere la maestà di una Maserati, c’è l’elegante utilità della Mini Morris.
I mass media non presentano più alcun modello unificato. Possono ricuperare, anche in una pubblicità destinata a durare una sola settimana, tutte le esperienze dell’avanguardia, e al tempo stesso riscoprire un’iconografia ottocentesca, offrono il realismo fiabesco dei giochi di ruolo e le prospettive stralunate di Escher, l’opulenza di Marilyn Monroe e la grazia tisicuzza delle nuove top girls, la bellezza extracomunitaria di Naomi Campbell e quella nordica di Claudia Schiffer, la grazia del tip tap tradizionale di A Chorus Line e le architetture futuristiche e agghiaccianti di Blade Runner, l’androginia di Jodie Foster e l’acqua e sapone di Cameron Diaz, Rambo e Platinette, George Clooney (che tutti i padri vorrebbero come figlio neolaureato in medicina) e i neo-cyborg che metallizzano il volto e trasformano i capelli in una foresta di cuspidi colorate.
Di fronte a quest’orgia della tolleranza, a questo assoluto e inarrestabile politeismo, quale è ancora la linea di displuvio che separa i padri dai figli, e costringe gli ultimi al parricidio (che è ribellione e omaggio), e i primi al complesso di Saturno?
Siamo appena all’alba di questo nuovo trend, ma pensiamo per un solo istante all’apparizione prima del personal computer e poi di Internet. Il computer entra nelle case portato dai padri, se non altro per ragioni economiche, i figli non lo rifiutano, e se ne impadroniscono, possono superare i padri in abilità, ma nessuno dei due vi vede il simbolo della ribellione o della resistenza dell’altro. Il computer non divide le generazioni, se mai le unisce. Nessuno maledice il figlio perché naviga su Internet, nessuno per la stessa ragione si oppone al padre.
Non è che sia assente l’innovazione, ma è quasi sempre innovazione tecnologica che, imposta da un centro di produzione internazionale normalmente diretto da anziani, poi crea voghe accettate dalle generazioni più giovani. Si parla oggi del nuovo linguaggio giovanile del telefonino e dell’e-mail, ma posso esibirvi saggi scritti dieci anni fa in cui gli stessi che avevano creato i nuovi strumenti, o gli anziani sociologi e semiologi che li studiavano, vaticinavano che avrebbero esattamente generato il linguaggio e le formule che di fatto hanno diffuso. E se Bill Gates era un giovane agli inizi (ora è un signore maturo che impone appunto ai giovani il linguaggio che dovranno parlare), anche da giovane non ha inventato una rivolta, bensì un’offerta accorta, studiata per interessare sia i padri che i figli.
Si pensa che i giovani autoemarginati si oppongano alla famiglia attraverso la fuga nella droga, ma la fuga nella droga è modello proposto dai padri, e sin dai tempi dei paradisi artificiali di ottocentesca memoria. Le nuove generazioni ricevono l’input dall’internazionale adulta dei narcotrafficanti.
Certo, si potrebbe dire che non è che non vi sia opposizione di modelli, ma soltanto sostituzione accelerata. Però la cosa non cambia. Per uno spazio brevissimo di tempo un certo modello giovanile (da Pier Paolo Pasolini alle scarpe Nike) può apparire oltraggioso ai padri, ma la velocità della sua diffusione mediatica fa sì che entro breve esso venga riassorbito anche dagli anziani, al massimo col rischio che, entro un tempo altrettanto breve, risulti ormai ridicolo per i figli. Ma nessuno avrà il tempo di accorgersi di questo gioco a staffetta, e il risultato globale sarà sempre l’assoluto politeismo, la compresenza sincretistica di tutti i valori. E stata un’invenzione generazionale il New Age? Per i suoi contenuti, è un collage di esoterismi millenari. Può darsi che ad essi, come a una nuova schiera di Giganti ritrovati, si siano rivolti all’inizio dei gruppi giovanili, ma immediatamente la diffusione di immagini, suoni, credenze tipica del New Age, con tutti i suoi parafernali discografici, editoriali, cinematografici e religiosi, è stata gestita da vecchi marpioni dei mass media, e se qualche giovane fugge in Oriente è per gettarsi nelle braccia di un guru anzianissimo con molte amanti e numerose Cadillac.
Quella che pare l’ultima frontiera della differenza, l’anello al naso, lo spillo nella lingua, o i capelli blu, nella misura in cui non sono più invenzioni di pochi singoli ma modello universale, sono stati proposti ai giovani dai centri gerontocratici della moda internazionale. E presto l’influenza dei mass media li imporrà anche ai genitori, a meno che a un certo punto giovani e vecchi li abbandonino semplicemente perché si renderanno conto che con uno spillo nella lingua si mangia male il gelato.
Perché allora i padri dovrebbero ancora divorare i loro figli, perché i figli dovrebbero ancora uccidere i padri? Il rischio, per chiunque, e senza colpa di nessuno, è che in un’innovazione ininterrotta e ininterrottamente accettata da tutti, schiere di Nani siedano sulle spalle di altri Nani.
Benissimo, si dirà. Stiamo entrando in una nuova era in cui, col tramonto delle ideologie, l’offuscamento delle divisioni tradizionali tra destra e sinistra, progressisti e conservatori, si attenua definitivamente anche ogni conflitto generazionale. Ma è biologicamente raccomandabile che la rivolta dei figli sia solo un adeguamento superficiale ai modelli di rivolta provvisti dai padri, e che i padri divorino i figli semplicemente regalando loro gli spazi di una emarginazione variopinta? Quando il principio stesso del parricidio è in crisi, mala tempora currunt.
Ma i peggiori diagnostici di ogni epoca sono proprio i contemporanei. I miei Giganti mi hanno insegnato che ci sono spazi di transizione, in cui vengono a mancare le coordinate, e non si intravede bene il futuro, non si comprendono ancora le astuzie della Ragione, i complotti impercettibili dello Zeitgeist. Forse il sano ideale del parricidio sta già risorgendo in forme diverse e, con le future generazioni, figli clonati si opporranno in modo ancora imprevedibile e al padre legale e al donatore di seme.
Forse nell’ombra già si aggirano Giganti, che ancora ignoriamo, pronti a sedere sulle spalle di noi Nani.
—Ivano Dionigi (a cura di) – Di fronte ai classici. A colloquio con i greci e i latini. – BUR, 2002