9 otttobre 2002, Aula Magna di Santa Lucia, Via Castiglione 36, Bologna.
Incontro dal titolo “Perché i classici”, in margine al volume: DI FRONTE AI CLASSICI. A COLLOQUIO CON I GRECI E I LATINI a cura di Ivano Dionigi, Milano, BUR 2002.
«La definizione di classico ha affaticato ininterrottamente i critici, da Gellio (II sec. d. C.), che la riconduceva all’etimologia legata al censo («classici venivano chiamati non tutti coloro che erano compresi nelle prime cinque classi, ma solo gli uomini della prima classe che erano stati censiti per almeno 125.000 assi»), fino ai nostri giorni. Dalle tante definizioni, ne trascelgo alcune. Eliot tipizza Virgilio come «il nostro classico, il classico di tutta l’Europa» perché «interprete, misura e quindi canone di un’intera civiltà»; Italo Calvino chiama classico «un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire»; per Umberto Eco classici sono «quegli autori che abbiamo odiato a scuola a causa dei professori, che poi abbiamo riscoperto e amato perché allungano la vita»; per Alfonso Traina «classico è uno che ha scritto per noi»; per Massimo Cacciari è uno che ci tutela dal potere, perché «chi abbia letto una sola tragedia greca, una sola “invettiva” dantesca, un verso della Ginestra, saprà ascoltare, saprà riconoscere i propri limiti e il valore altrui – ma passivamente obbedire mai»; per il grande critico dantesco Osip Mandel’stàm classico «è ciò che ancora ha da essere». Ecco, questa, è la scritta che dovrebbe campeggiare all’ingresso di tutte le nostre scuole.» (Ivano Dionigi)
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Umberto Eco
Allora non abbiamo ancora deciso cosa sia un classico e ne do una definizione sociologica, cioè priva di giudizi di merito: un classico è un libro che tutti odiano perché sono stati obbligati a studiarlo a scuola.
Qualcuno ha seguito sul supplemento Sette del Corriere della Sera, dove il critico ha lanciato una consultazione tra i suoi lettori: Qual è il libro da buttare nel cestino?
La grande maggioranza è stata ottenuta da I Promessi Sposi, un classico tipo.
A me è successo un colpo di fortuna spaventoso: mio padre, che non era un professionista della cultura ma figlio di un tipografo, aveva avuto alcune letture nella sua giovinezza e mi ha regalato I Promessi Sposi sei mesi prima che me lo facessero studiare a scuola. Io quindi l’ho letto per libera scelta invece di fare i compiti di casa, e mi è piaciuto moltissimo, tanto che da allora l’ho sempre letto e riletto.
Ma tutti i miei compagni di scuola invece l’hanno trovato come materia di studio.
La scuola è organizzata in modo da farvi odiare i classici, indipendentemente dalla bravura del vostro professore.
Noi avevamo un professore di greco e latino che adoravo perché era così simpatico, ma lui amava troppo i classici: quindi li leggeva assaporandoli nella bocca come se mangiasse del miele, e non riusciva a spiegarci perché dovevano piacere a noi. Noi assistevamo al grande spettacolo del suo orgasmo, e così ce lo ricordiamo. Dopodiché non abbiamo mai capito la bellezza di un classico.
Cos’è un classico? È un sopravvissuto.
Voi avrete sentito parlare di termini come il canone. C’è un critico come Harold Bloom che ha già scritto il secondo libro, in fondo, sul canone. Il canone è quell’insieme di testi che noi giudichiamo fondamentali per la nostra cultura.
Ma ciascuno può discutere se un autore tale entra o non entra nel canone, ma insomma c’è, in questo insieme.
Ma un libro entra nel canone perché è sopravvissuto.
Se voi leggete La Poetica di Aristotele, che tratta della tragedia, vedete che nomina un’infinità di tragedie. Noi ne riconosciamo due o tre, perché sono quelle che sono arrivate sino a noi. Le altre non si sa cosa siano: sono morte per strada, erano tragedie sfigate.
Perché è sopravvissuto Sofocle e non un altro? Perché era il più bravo? Perché era il più ammanicato con gli organizzatori teatrali? Per caso, perché le sue opere non erano in quel posto che è bruciato?
Non lo sappiamo.
Se andava un poco più male, non sopravviveva Dante, perché nel Settecento non lo voleva vedere più nessuno.
Comunque, dobbiamo avere una certa fiducia nel filtraggio storico.
Anzitutto, qualcuno ogni tanto mi viene a spiegare che ci sono i libri seri, che sono i classici, anche scritti ora ma che aspirano a diventare classici, e che ci sono invece i best seller (che la gente pronuncia best sellers), che sono quelli che, in quanto divertono eccetera, hanno una grande tiratura e non hanno valore letterario.
Bene, i classici sono sopravvissuti perché erano tutti best seller.
Era un best seller la Bibbia – e lo è ancora.
Dante veniva recitato anche dai fabbri ad alta voce, come vuole l’aneddoto di Boccaccio.
Manzoni, poveretto, ci ha rimesso un sacco di soldi perché sono state fatte decine e decine di edizioni pirata de I Promessi Sposi in varie lingue. Lui non prendeva diritti d’autore, ma era un enorme best seller.
Quindi sono sopravvissuti in quanto best seller.
È questo un criterio attendibile?
Voi sapete che esiste una pubblicità immaginaria, ma non inverosimile, che dice:
Mangiate merda: milioni di mosche non possono sbagliarsi.
Ora, ci sono due obiezioni a questa pubblicità.
- È possibile che milioni di mosche possano sbagliarsi, così come è possibile che milioni di cittadini votino male, eccetera eccetera.
- Può darsi che le mosche abbiano esigenze che non sono le nostre e quindi un libro era un best seller nel II secolo a.C. perché rispondeva ad alcune esigenze che non sono più le nostre.
Però questa battuta sulle mosche si basa su un principio usato anche in teologia: la dimostrazione dell’esistenza di Dio per “consensus gentium”.
Non è una grande dimostrazione razionale, non ha fondamento scientifico, ma dice:
Non potete negare l’esistenza di Dio, visto che da millenni, in ogni cultura, le genti hanno creduto in un principio superiore.
L’idea del consensus gentium è molto importante, perché anche un ateo non può non tenerne conto.
Un ateo può non credere in Dio, ma non può prendere sottogamba il fatto che le genti, nel corso dei millenni, si siano poste il problema del Sacro.
E quindi vedete che il consensus gentium qualche attendibilità ce l’ha.
I classici sono arrivati a noi perché sono sopravvissuti.
Sono sopravvissuti per ragioni darwiniane, per le stesse ragioni per cui noi Homo Sapiens Sapiens siamo sopravvissuti e l’uomo di Neandertal invece si è estinto.
Cioè, i classici sono stati più fortunati dei dinosauri.
Perché?
Perché ci troviamo coi classici di fronte a un problema che è quello della memoria.
La memoria è fondamentale per la vita individuale, no? Chi, improvvisamente, per una lesione cerebrale perde totalmente la memoria diventa… diventa un’ameba. Non ha più identità.
È per quello che a me non interessa il problema della reincarnazione. Non me ne importa che mi dicano che mi reincarno in un cammello se poi quel cammello non si ricorda quello di cui mi ricordo io adesso. Sono affari suoi, e non sono affari miei.
La memoria è fondamentale per le società sin dalla preistoria: il vecchio, seduto sotto una quercia, racconta i miti e le storie dell’epoca precedente ai giovani, e quindi si tramanda questa memoria. La società vive e si sviluppa proprio perché si trascina dietro questa memoria.
Le biblioteche altro non sono che una garanzia di sopravvivenza della memoria collettiva e, con tutti i suoi difetti, lo è anche il web. Senza memoria si vive di meno e si ha minore personalità.
Ma ci sono anche i rischi della memoria. Forse voi avete letto quella novella di Borges, dove c’è un personaggio che si chiama Funes il memorioso. Ricorda tutto. Ricorda ogni foglia di ogni albero che ha visto nella sua vita. Ricorda ogni cosa che gli è successa, in qualsiasi momento. Ha una memoria totale ed è praticamente un imbecille, perché non ce la fa.
È come il web: se noi dovessimo, di colpo, sapere tutto quello che c’è nel web, diventeremmo pazzi.
Qual è la seconda virtù della memoria? La prima è quella che conserva. La seconda è quella che filtra. Guai se la memoria, sia individuale che collettiva, non facesse delle selezioni giorno per giorno, buttasse via quello che non vale la pena o che è troppo complicato ricordare. Saremmo tutti come Funes il memorioso.
Quindi i classici sono il doppio risultato dell’attività di conservazione della memoria e dell’attività di filtraggio della memoria.
Dobbiamo fidarci di questo filtraggio? No, per le stesse ragioni in cui non dobbiamo fidarci necessariamente della democrazia. Può darsi che la maggioranza abbia votato in un modo, ma noi possiamo contestare che questa maggioranza abbia avuto ragione. Così si contesta continuamente il filtraggio, si dice: guardate, si è dimenticato Pinco Pallino, autore importantissimo.
Le università campano su questo, su persone che vanno a ripescare, come psicanalisti nella spazzatura della memoria, delle cose che sono state dimenticate e le ripropongono. Però, così come Churchill diceva che la democrazia era una pessima forma di governo ma sinora non si è trovato nulla di meglio, così non si è trovato nulla di meglio di questa continua oscillazione, per cui il canone rimane sempre con un nucleo costante ma alla periferia si arricchisce continuamente.
Si decide che l’autore più famoso dell’Ottocento francese si chiamava Sue e nessuno lo legge più, e contemporaneamente uno degli autori disprezzati si chiamava Dumas e oggi, tra un mese circa, lo insediano al Pantheon.
È proprio questa attività.
Ma fate pure conto che tutti i classici sopravvissuti siano stati scelti male, che sia stato un incidente, come se ce l’avesse fatta l’uomo di Neandertal e non ce l’avesse fatta il Sapiens sapiens.
Guardate che noi oggi, per esempio, se andiamo dallo psicanalista, parliamo di complesso di Edipo perché la storia ce l’ha raccontata Sofocle. Se andiamo ad analizzare i nostri modi di conoscenza, di linguaggio, persino parliamo di angolo retto perché ne ha parlato Euclide.
Quindi leggere questi classici, che sono sopravvissuti per sbaglio – e ammettiamo pure per ragioni sbagliate – serve però a capire come pensiamo. Noi pensiamo così per ragioni sbagliate? Non importa. Però, se non capiamo da dove ci arriva questo pensiero, non ce la caveremo mai.
I classici riscoperti, o riscoperti dalla collettività che arricchisce il canone o dall’individuo che per la prima volta decide di leggere I Promessi Sposi, sono pieni di deliziose sorprese.
Due giorni fa Benigni è stato qui a raccontare come, prima di iniziare il montaggio di un film, lui si rilegga Dante, perché ci trova delle tecniche di montaggio favolose. Io ho dedicato alcune pagine al montaggio televisivo dell’inizio de I Promessi Sposi: chiunque abbia una telecamera digitale e voglia riprendere qualcosa dal balcone di casa propria farebbe bene a rileggersi l’inizio de I Promessi Sposi per capire come deve muoversi questa camera.
Non si capiscono le macchinazioni del romanzo poliziesco se non si vanno a rileggere i colpi di scena delle Eumenidi di Eschilo. Altro che Poirot.
Uno dei più grandi romanzi polizieschi di tutti i secoli.
Quindi sono un territorio di avventura continua.
Ma può darsi che non vi interessi niente di tutto questo.
Il problema è che la lettura dei classici, con la massima libertà nell’arricchire il canone a vostro piacere, è che allungano la vita.
Di solito noi diciamo che quando non succede niente il tempo non passa mai e invece, quando abbiamo trascorso ore o giorni appassionati, diciamo che il tempo è volato in un minuto. Ma non è vero.
Cercate di ripensare a una giornata o una settimana noiosa che avete trascorso qualche tempo fa. Ne ricorderete pochissimo. Quelle ore, quei giorni formeranno tutti nella vostra memoria una melma, uno spazio brevissimo.
C’è gente che è arrivata alla fine della propria vita dopo aver fatto ogni giorno le stesse cose. Si guarda indietro e non gli pare neanche di essere stata al mondo. Tutto è passato spaventosamente in fretta.
Invece, pensate a una giornata o una settimana in cui vi sono accadute tantissime cose, una dietro l’altra, tutte emozionanti. Magari i quindici giorni che avete passato in montagna, o la settimana di tragedia intorno alla morte di una persona cara.
Li ricorderete come giorni pienissimi, che fate fatica a riassumere, e avrete l’impressione di avere vissuto moltissimo – per fortuna o purtroppo, a seconda della faccenda.
E questa è una delle ragioni per cui gli uomini si sono dedicati sempre a ricostruire il loro passato. L’ho detto anche per bocca dei vecchi che raccontavano intorno al fuoco.
Qualcuno che, insieme ai suoi ricordi personali, abbia anche la memoria del giorno in cui fu assassinato Giulio Cesare o della battaglia di Waterloo, ricorda più cose di chi non sa nulla di quello che è accaduto agli altri.
Io, tra i miei ricordi, ne ho alcuni di molto emozionanti, di cose che non sono accadute a me, ma a mio padre, mia madre, mia nonna, a uno zio che me le hanno raccontate – certe volte anche più e più volte – così che sono venute a far parte della mia memoria personale.
Ho delle ricchissime memorie della Prima Guerra Mondiale, in cui non ero ancora nato.
Ricordando di più, è come se avessi vissuto più a lungo.
E penso che questa sia una buona ragione per leggere i classici, indipendentemente da tutte le altre che possono venire accampate.
Una volta l’editore Valentino Bompiani aveva detto:
“Un uomo che legge ne vale due.”
Preso nel modo più facile, si può intendere che chi legge è più colto e quindi, sapendo più cose, avrà più successo.
Ma non è questo.
Sappiamo benissimo che talora ha immenso successo chi non ha mai letto niente e di uomini ne vale mezzo.
Non è per il successo che bisogna leggere.
Ho la sensazione di aver avuto un’infanzia lunghissima e piena proprio perché è piena di ricordi che ho rubato ad altri.
Li ho rubati a Sandokan e Yanez, mentre correvano coi loro prao nei mari malesi.
A D’Artagnan, mentre duellava con il barone de Winter.
All’Uomo Mascherato, che inseguiva Diana Palmer.
E anche a Renzo e Lucia, in fuga sul ramo del lago di Como.
Perché quel tanto di vita che si conquista leggendo non discrimina tra grandi opere d’arte e letteratura di intrattenimento.
Fanno parte della mia vita la scalinata di Odessa dell’”Incrociatore Potëmkin” e gli inseguimenti alla diligenza visti nel più smandrappato dei film western.
Anche se l’inseguimento alla diligenza di “Ombre Rosse” mi ha fatto vivere più a lungo di molti altri inseguimenti fatti da Randolph Scott in Technicolor.
Ma in fondo fanno parte della mia vita anche vicende non romanzesche:
storie di dinosauri,
il modo in cui Madame Curie ha scoperto il radio,
alcune domande millenarie sul mondo.
Non fatevi ricattare da chi vi dice che bisogna leggere solo i libri importanti.
Ho ricordi intensi e bellissimi anche di libri forse sciocchi, ma che mi hanno nutrito lunghi pomeriggi di eccitazione.
E sono grato a tutti coloro che, scrivendo per me, mi hanno concesso una vita talmente lunga che non riesco a ricordarla tutta in un colpo.
E devo ricordarla a rate.
Per questo spero di campare ancora a lungo: per ricordare tutto quello che mi hanno raccontato.
Forse, quando si è molto giovani, non si pensa che valga la pena di vivere molto.
Io mi ricordo che, quando ero un ragazzo, dicevo:
“Vorrei morire a 60 anni, perché così poi non si diventa malati.”
Ho cambiato idea.
Vi assicuro che, andando avanti negli anni – già dopo i 30 – avere vissuto di più non è una cosa da buttar via.
A parte il fatto che, se adesso scoppia la guerra, metà di voi vivranno di meno.
E dunque, leggere i classici di ogni epoca, compresi i classici contemporanei, è una buona assicurazione.
Non dico per la vecchiaia, ma per una maturità che non tarderà a venire dopo i 24 anni.
Perché ricordate: tutto quello che si legge dopo i 24 anni non rimane.
Ci rimarrà solo quello che abbiamo letto prima.
Neanche ai professori d’università noi dobbiamo dire il contrario.
A parte il divertimento di adesso, perché – ripeto – I Promessi Sposi è una grande storia di amore, passione, morte e inchiesta.
Se ogni trasmissione televisiva è uguale a quella della settimana precedente, ogni libro, anche il più stupido, è diverso da un altro.
Quindi sceglietevi i vostri classici e fatevi il vostro canone.
Massimo Cacciari
Ma i classici hanno a che fare certamente con questa dimensione della memoria attiva, selettiva.
La memoria non ha a che fare con un cassetto di ricordi che possiamo estrarre a piacere, a seconda delle esigenze del momento.
Quindi è vero, credo, che ognuno di noi in qualche modo crea il proprio canone, a partire da quel centro di cui Eco parlava, che è più o meno indiscusso.
E però anche quel centro, più o meno indiscusso, poi viene sottoposto a giudizio, viene ripensato a seconda appunto dei diversi lettori, delle diverse epoche.
Quindi la memoria è un fatto dinamico e i classici non sono una categoria statica.
E però io ritengo che ognuno abbia i suoi classici, crei in qualche misura il suo canone, e però non può esserne senza.
Che cos’è classico?
Classico è quel timbro di polemica o di battaglia che risuona in questo termine, se lo si sa ascoltare.
Il classico è qualcosa che resiste, che sopravvive.
Si diceva: sopravvivere è un atto di resistenza.
In qualche modo, resiste e sopravvive al “moderno”.
Non c’è dubbio: classico ha questo significato.
Quindi è vero che ognuno di noi può avere i suoi classici, anzi, necessariamente ha i suoi classici, se la memoria è memoria attiva.
E però, se non ha i suoi classici, se non si confronta costantemente con il problema del suo canone, è semplicemente un moderno.
Vive l’ora, vive l’impersonale del momento, senza capacità critica.
Io ritengo: senza capacità, senza quella giusta distanza rispetto al “moderno”, che ci permette di non esserne schiavi, di non esserne servi, di non esserne al servizio.
Quindi io ritengo sia necessario risvegliare – per parafrasare Leopardi – risvegliare costantemente i morti in faccia ai vivi.
Leopardi diceva “al sonno dei vivi”.
Vabbè, possono essere più o meno addormentati, i vivi, però risvegliare i morti, cioè quelli che sono sopravvissuti, quelli che resistono nella nostra memoria, in faccia all’ora, al momento, è essenziale per non essere poi, volenti o nolenti, asserviti al momento.
Questa è la forza dei classici.
La forza polemica dei classici.
Nei termini che Eco ha detto, cioè non nei termini dei classici come una categoria data, statica, fissa, ma nei termini di quel canone che è in continuo rinnovamento.
Che si rinnova in noi, che noi ricordiamo – nel senso letterale del termine, cioè che ci portiamo nel cuore.
Che non è qualcosa di superfluo, un vacuum.
E allora è necessario per questo, il classico, il nostro classico.
Ma se non è nostro, se noi non lo ricordiamo, non è un classico.
Perché?
Perché non eserciterà mai quella forza polemica nei confronti dell’ora.
Sarà una delle tante presenze dell’ora.
Se non lo ricordiamo noi, se non è il nostro classico, poi è evidente – come già Eco diceva – che un canone, fondamentalmente, c’è, costruito come a caso.
Ma io, boh, io francamente non credo che sia stato costruito tanto a caso.
Certo, si è rinnovato.
Ma anche le perdite antiche, secondo me – e questa è una battuta, ma se volete poi ne discutiamo – insomma, sono state scelte abbastanza da una memoria attiva.
Una memoria che riconosceva in quei classici, in quegli autori, i classici.
Cioè, coloro che avevano dimostrato davvero una capacità di tenere, di sopravvivere, di resistere, di fare epoca.
E che cos’è fare epoca?
È stare.
È epoché.
Ma poiché non voglio ripetere o continuare sul filo di questo ragionamento, che già Eco ha sviluppato così brillantemente, io vorrei approfittare dell’occasione di oggi, con tanti giovani, tante scuole, per interrogarvi molto direttamente su che cosa abbiano a che fare le nostre scuole con questo discorso sul classico che avete ascoltato.
Perché questo è il punto fondamentale.
Il libro è pieno di contributi sul significato dei classici, eccetera eccetera, ma insomma forse è carente proprio da questo punto di vista.
Ma la scuola, oggi, è quel luogo nel quale liberamente, proprio liberamente, senza essere al servizio di niente, noi ci attrezziamo per resistere come persone libere all’”ora”, al momento, al semplice fluire del tempo?
No?
Questa è la scuola.
La scuola che cos’è?
Che cosa risuona in tutti i termini che hanno detto “scuola” nelle nostre lingue, se non questo?
Paideia. Bildung. Formazione.
Che cosa risuona?
Un luogo nel quale io mi formo liberamente.
E liberamente cosa significa?
Mi formo un deposito di conoscenze, di memorie, che mi permette di reagire criticamente al mio tempo, al mio momento, alla situazione in cui vivo, in cui mi trovo.
Che mi permette di stare in questa situazione, non di soccombere alle situazioni che mi si presentano.
Allora, che cosa ha a che fare la nostra scuola con questo significato del classico che avete sentito?
Questo è il punto che a me pare sempre più problematico, che bisognerebbe discutere in questa occasione.
Certo, ci sono iniziative come quella di Dionisi a Bologna, ci sono iniziative a livello universitario.
Ma, ad esempio, qual è il nesso, oggi, tra formazione secondaria e università?
Io non lo vedo assolutamente.
Dov’è che viene pensato?
Se qualche nesso è stato pensato, è stato pensato tra i diversi gradi di studio precedenti.
Ma tra scuola media e università?
Dov’è?
Dov’è stato progettato l’accordo, la sintesi, la continuità tra i diversi ordini di scuola secondaria e l’università?
Dov’è l’accordo?
Quelli che c’erano potevano anche non andare bene, ma sono stati semplicemente distrutti, non sostituiti da altri progetti.
Una volta c’era qualche nesso tra ordini di istruzione secondaria e università.
Quindi, se sono stati massacrati, non lo sono stati per sostituirli con altri: sono stati semplicemente massacrati.
E c’è un vallo tra scuola secondaria e università, malgrado appunto iniziative come quella di oggi.
Che cos’è, come è stata pensata la nostra scuola, anche nelle ultime riforme?
Non faccio assolutamente un discorso politico.
Secondo me, vi sono fortissimi denominatori comuni negativi tra i diversi progetti di riforma che sono stati avanzati negli ultimi anni.
E qual è, sostanzialmente, questo denominatore comune?
A me pare – per parafrasare una frase che cito nel mio saggio, in questo libro, di Nietzsche – che tutti pensino la scuola come una fabbrica di impiegati.
Pensano la scuola così.
Non nei termini opposti, nei quali risuona il termine scholé, ma esattamente all’opposto.
Un processo il cui esito, il cui successo, si misura sulla quantità di impiegati a cui questo processo conduce.
Ma se è così, se la scuola è al servizio di questo esito, al servizio di questo obiettivo, la scuola si caratterizza essenzialmente come una rincorsa all’ora, al moderno.
In una scuola così concepita, che ruolo possono avere i classici, se non quello di renderli odiosi, come ricordava Eco all’inizio?
Perché, se la scuola è così pensata e organizzata, è evidente che il classico, all’interno di quella scuola, è qualcosa di superfluo, di vacuo.
E gli studenti per forza lo apprendono così, a prescindere dalla bontà o dalla preparazione dell’insegnante.
È una parentesi, qualcosa di superfluo.
Perché se la scuola è pensata come fabbrica di impiegati, e quindi al servizio di un fine puramente pratico, che cosa ci stanno a fare i classici a scuola?
È chiaro che è una contraddizione in termini.
La scuola deve essere soltanto moderna, nel senso letterale del termine.
Ha a che fare soltanto col moderno.
Ma allora il classico diventa una parentesi, qualcosa di superfluo, totalmente periferico.
E quindi l’insegnante può essere il più bravo del mondo, può sapere i classici, può saperli gustare, e può anche riuscire a trasmettere questo suo gusto…
Ma comunque lo studente lo percepirà come una cosa non essenziale.
Perché, se è essenziale alla scuola educare a uno spirito critico, e a quella libertà che viene anche da quella ricchezza di esperienze, di memorie, che trasmettono i classici, i tuoi classici…
Allora, se la scuola ha questo significato, il classico vi svolge un ruolo essenziale.
Che non contraddice affatto che nella scuola si impari anche l’inglese, l’informatica, internet.
Non c’entra assolutamente nulla.
Il problema non è che la scuola insegna informatica, inglese, internet – quello che volete.
Ma se è scuola, allora il classico, in quella scuola, non è un’eccezione.
E qui è stato detto: il classico svolge un ruolo essenziale.
Perché la scuola è una scuola di criticità.
Attrezza, forma ad affrontare i dubbi, le sfide, le trasformazioni ambientali da liberi.
Scommette sulla tua libertà.
So bene che non è semplice definire la libertà, cosa sia, i suoi limiti.
Ma scommette che tu sia capace di parlare in parresia.
Come si dice, no?
Di parlare in modo franco.
Di parlare in modo libero.
Di essere occupato, senza essere al servizio.
Se è possibile.
Allora, questa è la domanda che diventa sempre più centrale.
La nostra scuola la stiamo pensando così? O invece la stiamo pensando – almeno a livello di scuola media, vediamo – se anche in questa proliferazione, secondo me, confusa, di corsi universitari all’inseguimento dell’informazione, della comunicazione, eccetera, non la stiamo pensando un po’ tutta, il nostro processo di formazione, come qualcosa che deve dipendere, che deve creare e produrre dei dipendenti, dei semplici occupati, come si occupavano le città.
Questa è la domanda, perché io temo che, nelle grandi discussioni che si fanno sul superamento – assolutamente necessario, detto e ridetto e ripetuto – di ogni assetto di scuola di classe, si sia confuso questo superamento della vecchia scuola di classe con un’idea di scuola senza i classici.
Senza i classici nell’accezione che qui è stata ricordata.
E questa sarebbe una sciagura.
Ma non soltanto una sciagura per motivi ideologici, eccetera, ma perché io ritengo che questa scuola senza classici, questa scuola che non fa avvertire la necessità del classico, del confronto con chi sa sopravvivere, con chi sa resistere all’impersonale del momento, sia anche una scuola assolutamente ineffettiva.
È anche una scuola profondamente inattuale, io ritengo, rispetto proprio alle esigenze dello stesso momento che viviamo.
Io ritengo che questa immagine di una scuola come fabbrica di occupati, di dipendenti, di impiegati, che questa scuola sia una scuola che appunto non creerà né occupati, né dipendenti, né impiegati.
Che è una scuola ampiamente superata.
Che è un’ottica assolutamente vecchia, arcaica, con cui si affrontano i problemi della formazione oggi, della scuola.
Io ritengo che una scuola non di classe ma anche dei classici, che questa scuola che educa ad uno spirito critico, che educa a quel discorso che mi collega, che mi sa collegare anche con il momento ma non in termini dipendenti, che mi sa stare, che mi insegna a stare nella mia epoca, a resistervi anche, a non dipendere, a non esserne semplicemente al servizio, ecco, che questa scuola sia una scuola in grado di formare giovani molto più poi capaci di lavorare e di trovare occupazioni forti e anche creative all’interno del nostro tempo.
Non chiedo, cioè, è una visione arcaica della scuola quella di una scuola al servizio della situazione data, del mercato, del sistema produttivo, del sistema informatico, del sistema comunicazione, eccetera, eccetera.
È una scuola, è una concezione che io ritengo arcaica e superata.
Tanto più i giovani troveranno, avranno forza anche all’interno del mercato del lavoro quanto più si potranno presentare dotati di uno spirito critico, di una libertà di osservazione, di una capacità di reagire rapidamente al mutare delle situazioni.
E quindi io sono convinto che una scuola non di classe ma dei classici, abitata anche dei classici, sia una scuola molto più utile.
Ecco, non sia la scuola inutile, ma sia una scuola molto più utile anche alle esigenze sacrosante che i giovani avvertono.