C’è un aspetto in Pier Paolo Pasolini che non smette di turbare, e non si tratta soltanto della sua opera, né della sua tragica fine, quanto piuttosto del rapporto che egli ebbe con la propria immagine pubblica. È un enigma che si muove tra necessità e ostentazione, tra il bisogno di essere ascoltato e la volontà di essere visto. Non sorprende dunque che Pasolini sia stato forse l’intellettuale scrittore più fotografato del Novecento italiano, una presenza ubiqua che ha segnato un’epoca, un corpo che si è fatto testo, una voce che si è fatta icona. Era ovunque: nelle borgate e nei salotti, nelle piazze e nelle università, sui set cinematografici e nei tribunali, nelle pagine dei giornali e nelle polemiche infinite con chiunque osasse contraddirlo. E, infine, in quelle fotografie scattate da Dino Pedriali poche settimane prima della sua morte, quasi un memento mori visivo, un sigillo iconografico che trasforma il corpo dell’autore in una sorta di reliquia laica.
Eppure, in questo continuo autorappresentarsi, Pasolini sembra non aver mai avvertito il peso della contraddizione: il suo volto, il suo corpo e la sua postura divennero parte integrante della sua produzione intellettuale, strumenti di una comunicazione che mescolava la denuncia con la seduzione. In altri termini, Pasolini si è consumato nella critica al consumismo, si è reso merce nel momento stesso in cui denunciava la mercificazione dell’essere umano. E qui il paradosso si fa evidente. Si può biasimare il consumo di massa mentre si è, al contempo, oggetto di un consumo incessante? Si può accusare il mondo della spettacolarizzazione mentre si offre in pasto alle cineprese, alle macchine fotografiche e agli occhi dei lettori?
La risposta, come in ogni caso che riguardi Pasolini, non è mai univoca. C’è chi vede in questa dinamica una strategia consapevole: un uso deliberato della propria immagine per amplificare il proprio messaggio. Senza il suo volto, senza il suo corpo esposto, senza la teatralità del suo gesto, Pasolini sarebbe stato meno efficace, meno ascoltato, forse meno temuto. Era il prezzo necessario per mantenere viva la sua predicazione: un moderno Savonarola che sapeva di dover bruciare se stesso per illuminare il buio della sua epoca. Ma c’è anche chi legge in questa esposizione una forma di vanità, un compiacimento dell’essere al centro della scena, un narcisismo intellettuale che stride con il rigore delle sue invettive contro la società borghese e i suoi meccanismi di seduzione.
E dunque, cosa sarebbe Pasolini oggi? Se fosse ancora vivo, lo vedremmo sui social, intento a infiammare discussioni su Twitter? Sarebbe un polemista instancabile su Instagram, in perenne lotta contro la volgarità imperante, magari con un video quotidiano su TikTok in cui spiega la rovina antropologica dell’Occidente tra una citazione di Gramsci e una di Baudelaire? L’idea stessa sembra un ossimoro, eppure non è poi così difficile immaginarlo: in fondo, Pasolini era già un influencer, anche senza bisogno di algoritmi e hashtag. La sua figura ha generato un capitale simbolico immenso, un “PIL culturale” che ancora oggi viene sfruttato da chiunque voglia ergersi a intellettuale dissidente.
Ciò che resta indiscutibile è che Pasolini ha attraversato il Novecento con la forza di un corpo culturale che si è fatto metodo, una filosofia incarnata che ha mostrato con la propria stessa esistenza il dissidio insanabile tra arte e potere, tra ribellione e istituzione, tra profezia e spettacolo. Il suo sguardo sul mondo era quello di un apocalittico che, nonostante tutto, sapeva di essere immerso nel medesimo meccanismo che denunciava. L’ultimo dei profeti, l’ultimo degli eretici, e forse l’ultimo degli intellettuali capaci di farsi corpo vivo di una battaglia culturale che, oggi, appare sempre più evanescente.