Con la proposta dello scudo penale per le forze dell’ordine, il governo Meloni sembra intenzionato a riportarci a una versione aggiornata del “chi controlla i controllori?” La risposta è semplice: nessuno. Del resto, se un agente può operare senza temere di rispondere alla legge, perché preoccuparsi di quei fastidiosi concetti come giustizia o responsabilità? Non che ci aspettassimo di meglio: quando hai ministri come Salvini, Tajani e La Russa, il confine tra sicurezza e impunità diventa inevitabilmente un dettaglio secondario, se non una battuta di spirito.
La scusa ufficiale è la solita: garantire l’efficienza delle forze dell’ordine contro le presunte minacce alla stabilità politica. Minacce che, nella realtà, si limitano a manifestazioni di piazza per la Palestina o contro le tante disuguaglianze che questo governo ignora con un’alzata di spalle. Ma, evidentemente, il diritto a protestare è diventato sinonimo di destabilizzazione, e chi osa alzare la voce deve sapere che, d’ora in poi, la manganellata sarà non solo legittima, ma sacra.
E qui veniamo al punto dolente: la memoria. I sostenitori dello scudo penale sembrano avere un’amnesia selettiva quando si parla di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi o Carlo Giuliani. Episodi che, secondo questa logica, non dovrebbero mai più approdare in un’aula di tribunale. Perché? Perché il governo pensa che il problema non sia il comportamento sbagliato di pochi, ma la libertà di giudicarli. Una bella comodità per chi governa, che così può contare su un esercito di fedelissimi pronti a tutto, immuni a qualsiasi accusa.
Ma non finisce qui. Il vero capolavoro è che perfino le forze dell’ordine, nella voce del segretario del Siulp Felice Romano, hanno rigettato questa proposta. “Ringraziamo Meloni per la sensibilità, ma non invochiamo né immunità né impunità”, ha dichiarato, spiegando che questo scudo non solo è incostituzionale, ma creerebbe una pericolosa frattura tra cittadini e forze dell’ordine. Ora, se anche chi dovrebbe beneficiare di una legge così scandalosa la rifiuta, c’è da chiedersi quale sia il vero obiettivo del governo. Forse è solo un messaggio simbolico, una strizzatina d’occhio alla propria base elettorale, o forse è un test per vedere fino a che punto si può piegare lo Stato di diritto prima che si spezzi.
Naturalmente, c’è chi applaude. Non mancano i soliti nomi che, in nome della sicurezza, giustificano qualsiasi deriva autoritaria. Perché il fascismo non passa mai di moda: si adatta, si maschera, cambia nome, ma l’essenza resta la stessa. E così, tra una stretta di mano e una dichiarazione roboante, questo governo tenta di riscrivere il concetto stesso di giustizia. Non più uguale per tutti, ma calibrata per proteggere chi serve il potere.
Alla fine, però, resta una domanda: se le forze dell’ordine sono già protette dalla legge – come ogni altro cittadino – perché mai dovremmo inventarci un privilegio su misura? La risposta è semplice: non dobbiamo. E la lucidità di Romano ce lo ricorda con forza. Il problema, semmai, è che chi ci governa non ha la stessa lucidità. O forse ce l’ha, ma la usa per consolidare un sistema in cui la giustizia è solo un’opinione.