La figura di Gramsci, al di là delle mitizzazioni, ha rappresentato una delle menti più lucide ed analitiche della cultura italiana del XX secolo: il suo rapporto col regime, la persecuzione e, insieme, la protezione di cui è stato oggetto, rappresentano uno snodo storiografico fondamentale.
èStoria 2022 – Lectio di Angelo D’Orsi
Pubblicato il 31 agosto 2022
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Gentile pubblico, èStoria 2022, 18º Festival Internazionale della Storia, vi dà il benvenuto nella tenda Erodoto.
Il festival è ideato e organizzato dall’Associazione culturale èStoria con il patrocinio del Ministero della Cultura, del Comune di Gorizia, della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, della Camera di Commercio Venezia Giulia, dell’Associazione Italiana Editori, dell’Università degli Studi di Trieste e dell’Università degli Studi di Udine. Grazie al sostegno delle amministrazioni pubbliche, di sponsor privati e degli amici di èStoria, qui vi invitiamo ad aderire. L’arredo del palco è gentilmente concesso dalla Moroso di Udine, che ringraziamo per la collaborazione.
Sta per iniziare l’incontro intitolato Arrestate Gramsci, una lectio di Angelo D’Orsi. L’appuntamento è trasmesso anche in streaming sul sito www.estoria.it. Ricordiamo che al termine degli incontri sarà possibile acquistare i libri degli autori presso lo Spazio Autori e incontrare gli ospiti presso lo stand firmacopie. Tra un incontro e l’altro, per motivi tecnici e di sicurezza, invitiamo il pubblico a lasciare la tenda.
Buona storia a tutti!
Buonasera, buonasera, buonasera, buonasera. Così va meglio.
Il titolo non l’ho dato io e la spiegazione del titolo men che mai, perché quello che racconterò contraddice completamente quello che leggete sul dépliant, che corrisponde invece a una comune supposizione che si è un po’ diffusa negli ultimi decenni: per cui Antonio Gramsci in carcere sarebbe stato un “privilegiato”. È una balla clamorosa, diciamolo.
Io ho scritto una biografia di Gramsci, di cui sto facendo adesso una nuova edizione, un’ulteriore edizione con 300 pagine in più. Quindi lasciate perdere tutto quello che avreste voluto sapere. Quindi, dal titolo, comunque capisco che noi ci occupiamo non di ciò che Gramsci pensa e scrive sul fascismo, ma piuttosto dell’atteggiamento che il fascismo ha verso Gramsci.
Possiamo cominciare dall’indomani della marcia su Roma, di cui quest’anno, come sapete, ricorre il centesimo anniversario. All’indomani della marcia su Roma, a Torino, dove Gramsci non era—ma insomma, era stato a Torino fino al maggio del ’22, poi era andato in Russia come delegato presso il Comintern, delegato del suo partito, il Partito Comunista d’Italia, di cui non era segretario. Segretario era Amadeo Bordiga.
C’è un’incursione nella sede del quotidiano L’Ordine Nuovo, diretto da Gramsci a Torino, in via Arcivescovado. Quello fu il primo quotidiano a essere chiuso violentemente dai fascisti. Poche settimane dopo, il 18 dicembre del ’22, i fascisti torinesi, con la benedizione di Cesare Maria De Vecchi, fatto Conte di Valcismon, addirittura organizzarono una spedizione punitiva in grande stile contro anarchici, socialisti, comunisti torinesi: la famosa strage del 18 dicembre, che è ricordata a Torino da un piazzale dove c’è una delle stazioni ferroviarie principali, Porta Susa.
I fascisti non sapevano che Gramsci non fosse a Torino. Anche Gramsci era nel loro elenco, diciamo. Ma Gramsci era a Mosca. Di qua noi possiamo già capire, in qualche modo, quale poteva essere l’atteggiamento del fascismo verso Gramsci.
Gramsci era andato a Mosca nel maggio del ’22 e si sarebbe trattenuto a lungo, diciamolo, anche per ragioni di cuore. A Mosca conosce prima Eugenia, poi Giulia, l’altra sorella Tatiana—la conoscerà poi più avanti a Roma nel 1925. Giulia poi diverrà sua moglie.
Gramsci, in realtà, quando arriverà a Mosca—arriva prima a Pietrogrado, poi a Mosca—sarà in condizioni fisiche molto debilitate. Voi sapete che Gramsci era affetto da una grave malattia che lo colpì quando aveva circa due anni: la stessa malattia di Giacomo Leopardi. Il morbo di Pott, una tubercolosi ossea, cosa che lui scoprì in realtà soltanto nel 1933. Era nato nel 1891.
Quando lo scoprì, come dire, non ebbe bei pensieri verso i suoi genitori, che prima avevano raccontato una bugia perché la malattia, negli ambienti un po’ arretrati culturalmente, fa vergogna e quindi avevano parlato di un incidente domestico. Avevano curato il povero bambino in modo barbarico, prima facendogli delle frizioni sulla schiena, dove intanto si stava manifestando una gibbosità anche davanti, e poi addirittura arrivando ad appenderlo per le caviglie a una trave del soffitto di casa.
Erano abbastanza convinti che il povero Antonio pasp, cioè non sarebbe sopravvissuto a lungo, tant’è che avevano anche ordinato una piccola bara bianca al falegname di Ghilarza e, per comodità, l’avevano messa sotto il letto di Nino, come veniva chiamato. Così sarebbe stato più comodo, per così dire: bastava tirarlo giù.
Dunque, Gramsci arriva a Mosca, arriva in Russia in condizioni veramente debilitate, tant’è vero che i compagni bolscevichi—una passione linguistica, nel ’22 sapeva già sei lingue—e lui riesce a capire che Zinoviev dice tra loro: “Portiamolo a Sovany Bor perché questo potrebbe morire da un momento all’altro, e magari i compagni italiani insinuano che l’abbiamo avvelenato.”
Quindi lo portano in questo posto, che era un Sovany Bor, il bosco argentato—perché era un bosco di betulle (voi sapete che le foglie delle betulle sono argentate)—che era un ex educandato per le signorine dell’aristocrazia zarista e che era diventato un luogo di cura, in particolare per malattie nervose.
Lì conoscerà Eugenia, poi conoscerà Giulia. Si trasferirà poi a Vienna e, mentre è a Vienna, Gramsci innanzitutto fa molte attività, una delle quali è creare un quotidiano del Partito Comunista che non esisteva. Questo quotidiano si chiamò L’Unità, un giornale che Gramsci creò e Renzi disfece, tanto per capire il percorso. Era il 12 febbraio 1924.
Poco dopo ci furono delle elezioni, fatte con la famigerata legge Acerbo, che era un po’ simile a quella riforma elettorale che, sempre il mai abbastanza lodato Matteo Renzi, aveva cercato di far passare nel 2016 ma che, per sua disperazione—infatti poi si è ritirato dalla politica, come noto—non passò.
Grazie a quella legge Acerbo, chi prendeva una maggioranza relativa otteneva i due terzi dei seggi. Quindi una legge “democratica”, per così dire. Inopinatamente, almeno per Gramsci, che stava a Vienna, risultò eletto. Risultò eletto non in Sardegna, non a Roma, non a Torino, dove pure aveva passato quasi 11 anni, ma in un collegio del Veneto.
Quindi voi del Nord-Est avete questo merito, che dovreste rivendicare sempre. Quando litigate con qualcuno, potete dire: “Noi abbiamo eletto Gramsci, tu no. Quindi tu stai zitto, perché noi abbiamo eletto Gramsci.” Questo è un bel merito.
Gli giunge questa notizia che lui non si aspettava e scrive:
“Adesso, come dire, devo tornare in Italia. Devo andare, devo andare a fare il mio dovere di deputato. Il mio dovere di deputato.”
Testualmente:
“Non è che la cosa mi faccia particolarmente piacere, ma quando penso che alcune centinaia di contadini veneti hanno sfidato le bastonature per mettere la scheda, io sento non solo un dovere, ma un’obbligazione morale a precipitarmi a Roma.”
Cosa che infatti fece.
Gramsci, dunque, si trasferisce a Roma e arriva praticamente nel pieno della crisi Matteotti, un momento molto difficile. Comincia a fare il suo dovere di deputato, ma il Parlamento è dominato dai fascisti.
La Camera era piena di fascisti; sapete che il Senato era di nomina regia, quindi composto da vecchi parrucconi. L’età media del Senato era 85-86 anni. Alla Camera, Gramsci comincia a fare il suo dovere. Tutti i santi giorni che Dio manda sulla terra, Antonio Gramsci era il primo a entrare e l’ultimo a uscire.
Non prendeva mai la parola, ma studiava. Studiava i fascisti e prendeva appunti. Essere deputato comunista in un’assemblea dove i fascisti erano i due terzi dei componenti non era una cosa facile.
I fascisti si permettevano di decidere chi potesse entrare o meno a Montecitorio. Bastonavano spesso i deputati comunisti o anche quelli socialisti. Gramsci lo lasciavano passare, un po’ con scherno, come nella battuta di Woody Allen quando invita una bionda a ballare e lei gli dice: “Vai via, sgorbio.”
Ecco, lo facevano passare con un: “Sì, passa pure, tu sgorbio, nano,” e così via.
Un giorno, però, lo sgorbio, il nano, il gobetto—come lo chiamavano in Sardegna—vide già la polizia che stava arrivando. Non aveva ancora detto nulla di pericoloso, cioè…
Un giorno, era il 16 maggio 1925. State prendendo appunti, eh ragazzi? Era il 16 maggio 1925. Antonio Gramsci si iscrive a parlare. Si stava discutendo la trasformazione in legge di un decreto-legge firmato da Alfredo Rocco, grande giurista, anticamente socialista, poi radicale, poi nazionalista, poi fascista. È un percorso abbastanza usuale nella storia d’Italia, no? Io non ho mai visto un percorso inverso, almeno. Se voi ne avete visti, complimenti.
Gramsci quindi si iscrive a parlare e prende la parola contro questo disegno di legge, che formalmente aveva l’obiettivo di mettere fuori legge, appunto, le associazioni segrete, come la massoneria, che peraltro era uno dei grandi finanziatori del fascismo, ma ormai non serviva più. E Gramsci capisce che in realtà quel disegno di legge è un trucco. È un trucco per mettere fuori legge tutte le forze di opposizione, come infatti sarebbe accaduto.
E quindi prova a spiegarlo. Prova a dirlo. Il suo discorso—del resto, queste sono cose pubbliche—basta che andate in una biblioteca del regno e cercate gli atti parlamentari, seduta del 16 maggio 1925, e vedrete che il deputato Gramsci viene interrotto 30 volte. È quasi come andare a un talk show televisivo, ma la stessa cosa.
C’erano già allora quelli che lui chiamava gli “spezzatóri professionali di comizi”. I talk show sono fatti proprio di questi personaggi, ne sappiamo qualcosa. Diciotto di queste trenta interruzioni le fece proprio lui, il Duce in persona.
Voi sapete che non si potevano scattare foto—del resto, la macchina fotografica all’epoca era una rarità—ma sì, c’erano i disegnatori parlamentari. In uno di questi disegni, che poi fu pubblicato su qualche giornale, si vede il testone del Duce con la mano sul padiglione auricolare, per percepire meglio le parole che uscivano dalla bocca del “nano”. La voce di Gramsci era flebile, tuttavia non impedì a Mussolini di interromperlo.
A un certo punto, ci sono due interruzioni interessanti. Mussolini disse a Gramsci:
“Sì, voi avete parlato tanto di rivoluzione. La rivoluzione l’abbiamo fatta noi, le camicie nere.”
E Gramsci, che poi scrisse a sua moglie:
“Che cretino sono stato! Perché quello è lo scopo degli spezzatori di comizio: interromperti e farti perdere il filo del ragionamento. Ne sappiamo qualcosa.”
Scrive:
“Sono stato stupido, mi sarei dato dei pugni sulla testa per essere stato così stupido da raccogliere le provocazioni.”
Infatti, dice, facendo uno sforzo di nervi mostruoso, scrive a Giulia:
“Ho dovuto prima controllarmi, e poi ho risposto: ‘La rivoluzione è quella che cambia una classe sociale al potere. Voi avete semplicemente cambiato un personale politico.’”
E Mussolini rincalza:
“Sì, ma noi abbiamo il consenso dei contadini, degli operai.”
E Gramsci di nuovo “ci cade”, per così dire, e dice un’altra frase che potremmo mettere nelle cartuscelle dei Baci Perugina:
“Il vostro è il consenso ottenuto col bastone.”
A quel punto il presidente di sessione interrompe Gramsci:
“Basta, onorevole. Lei ha finito. La sta buttando troppo in politica.”
Cioè, in Parlamento “la sta buttando in politica”. Vabbè, cioè, ok, arrivederci.
Intanto il fascismo stava includendo, stava proprio, a partire dalla mente di Alfredo Rocco, realizzando una feroce gerarchia istituzionale per ingabbiare la società italiana. Il fascismo procedeva a grandi passi verso lo Stato totalitario.
Superata la crisi Matteotti, quando una parte del mondo antifascista aveva ingenuamente sperato che Sua Maestà, come garante dello Statuto, intervenisse—no, come sappiamo, il re non intervenne. I deputati aventiniani, quelli che poi furono chiamati aventiniani, rimasero fuori dal Parlamento.
I deputati comunisti, che inizialmente avevano aderito anche loro alla secessione dell’Aventino, decisero, proprio su impulso di Gramsci, di tornare in aula.
Ma intanto le autorità fasciste escogitarono un decreto per dichiarare decaduti i deputati aventiniani. Ma Gramsci si sentiva sicuro, perché loro erano rientrati e quindi continuarono a fare la loro attività.
Nella notte tra il 7 e l’8 novembre 1926—ve le state segnando queste date, che sono importanti—si fa un nuovo decreto, di cui nessuno sa nulla, in cui in pratica (e qui gli storici stanno ancora litigando se l’impulso è venuto direttamente dal re o da Federzoni, ministro dell’Interno, o da Mussolini), si aggiunge un codicillo per cui anche i deputati comunisti venivano dichiarati decaduti.
Il decreto non era ancora pubblicato, non ancora in vigore. Gramsci abitava a Roma, presso una famiglia tedesca, la famiglia Passarge, su cui si sono fatte delle speculazioni un po’ grottesche. Comunque, tra l’altro, Gramsci non ha mai avuto una casa sua, come i deputati di oggi. Sempre subaffitto, affittava una stanza o due. Abitava in via Morgagni 25. C’è una targa a Roma: se andate, andate in pellegrinaggio davanti a questa targa, portate una carezza a quella targa e dite: “Questa me la manda D’Orsi.”
Rientrando tardi a casa—era passato prima a casa della cognata, che gli aveva preparato da mangiare—torna a casa. Erano le 10:15 di sera circa. Vede due individui davanti al portone di via Morgagni 25. Come dire, sente “odore di sbirro”. Sono sine nubi: hanno due borsalini, due cappotti, le mani nelle tasche dei cappotti. Lui cerca di passare tra i due, che lo bloccano. Uno dei due, manifestamente il responsabile, dice:
“Onorevole Gramsci?”
“Sì.”
“Ci segua.”
Gramsci chiede, un po’ timidamente:
“Dove andiamo?”
“Non faccia domande.”
Quella frase diventò poi il refrain dei primi mesi dell’azione persecutoria che portò Gramsci in galera, poi al confino, e poi in un’altra galera, e infine nella galera definitiva. Questi momenti furono sempre costellati da questa domanda di Gramsci, che rimaneva senza risposta. Quando chiedeva:
“Dove andiamo?”
La risposta era:
“Non faccia domande.”
Infatti, a un certo punto, lui imparò che non doveva più chiedere. Non fece più domande. Lo “impacchettano”, lo mettono in un’auto e lo portano a Regina Coeli. Più tardi scriverà:
“Furono le due settimane più orribili della mia vita.”
Fino ad allora non sapeva cosa sarebbe successo dopo. Naturalmente, gli assegnano una branda in una cella comune. Racconta che sollevò la coperta e vide un lenzuolo di un colore indefinibile, dove formicolavano le più varie specie di insetti. Riuscì poi a ottenere una cella singola a pagamento, ma furono giorni—come dice lui—“i più terribili della mia vita.” Non sapeva perché fosse lì né di cosa fosse imputato.
Gramsci era, ufficialmente, ancora un deputato in carica. Un giorno, erano passate due settimane. Prima dell’alba, venne violentemente svegliato—ma in realtà non dormiva mai, perché non c’era modo di dormire lì. Gli fu detto:
“Onorevole, prenda le sue cose e ci segua.”
Gramsci fece di nuovo la domanda fatidica:
“Dove andiamo?”
“Non faccia domande.”
Lo impacchettano su un’auto, poi su un treno. Fece un lungo tragitto, con soste in diverse caserme dei Carabinieri. Alla fine, arrivò a Palermo, dove per tre volte un traghetto tentò l’attraversata. Ogni volta tornava indietro, il che complicava tutto: tornare indietro significava far scendere i detenuti, portarli in una caserma e ripetere tutto il giorno dopo.
Un dettaglio importante: i detenuti erano legati tra loro, in file di quattro, con i ferri ai polsi—non manette, ma ferri che si stringono con una vite—e ceppi alle caviglie, legati con catene. Questo vorrei ricordarlo, quando qualcuno dice ancora che “il fascismo, in fondo, non è stato così male.” No, è stato proprio così male.
Finalmente, durante la traversata, gli viene rivelata la destinazione e la motivazione:
“Onorevole, lei è stato condannato a 5 anni di confino di polizia per attività sovversiva.”
Si parlava inizialmente di Somalia, ma poi la destinazione fu Ustica. Qui comincia la seconda fase della peregrinazione di Antonio Gramsci.
Dopo Regina Coeli, queste traversate e poi Ustica. A Ustica rimase 44 giorni. Fu quasi una vacanza, per quanto possibile, perché i confinati politici potevano muoversi dall’alba al tramonto in certe zone dell’isola. A Ustica trovò una ricca compagnia di antifascisti: comunisti, socialisti, socialisti democratici, socialisti riformisti, socialisti rivoluzionari, anarchici, repubblicani.
Tra loro c’era anche il suo vecchio amico e concorrente Amadeo Bordiga, con il quale ci fu sempre un rapporto di concordia e stima reciproca, anche se le loro concezioni della politica e del partito erano assai diverse. Decisero di vivere insieme, anche perché—come scrisse Gramsci in una lettera—“Amadeo, da buon napoletano, fa un caffè formidabile.”
Erano entrambi tabagisti e passeggiavano spesso, discutendo. Gramsci amava molto stare all’aria aperta.
Al 45º giorno, stessa scena: venne svegliato bruscamente da un paio di Carabinieri.
“Onorevole, ci segua.”
“Non faccio domande.”
Fu impacchettato di nuovo e fatto ripartire. Solo durante il percorso venne a sapere la destinazione: il carcere di San Vittore a Milano, dove si sarebbe svolta l’istruttoria per decidere i capi d’imputazione.
Questo viaggio durò 19 giorni, una “traduzione ordinaria”. Sempre legato da catene, in file di quattro, con i ceppi alle caviglie e i ferri ai polsi.
Gramsci ci raccontò in alcune lettere, soprattutto a Tatiana, la cognata, e meno a Giulia, che non era tanto, come dire, pronta a rispondere—i famosi silenzi di Giulia—raccontò questo viaggio. Dice:
“Questo viaggio è stato di per sé una lunghissima cinematografia. Ho conosciuto la più grande varietà di esseri umani e ho capito come ci si possa sbagliare a giudicare dalle apparenze.”
Fa una serie di esempi che, per brevità—perché qui avete dei ritmi che manco la Fiat dei tempi di Valletta aveva, cioè: catena di montaggio, via un altro, avanti un altro!—tralascerò.
Gramsci si rivela uno straordinario osservatore della realtà, un antropologo e uno straordinario narratore. Racconta una serie di scene, in particolare ve ne cito due. Mi ero portato qualcosa, ma ho considerato i tempi, quindi tralascio. Tanto lo so a memoria, quindi non c’è bisogno.
Gramsci dice:
“Questi personaggi, che sono tutti politici, di solito si radunano tra di loro. Come dire, vengono messi insieme tutti i cosiddetti politici.”
Tra costoro, poi, avvengono anche le presentazioni. Per piacere: “Anton…” A un certo punto, nelle presentazioni, qualcuno sentì, percepì il nome “Gramsci”.
C’era un signore, che Gramsci descrive come un gigante, che stava sempre in questa attitudine. A chiunque, specialmente alle autorità che chiedevano le sue generalità—aveva distrutto i documenti—rispondeva invariabilmente:
“Io sono l’Unico, e basta.”
Si definiva, ovviamente, un anarchico individualista, seguace di Max Stirner. Quindi, Gramsci percepisce questo nome. E questo gigante, dall’alto della sua statura imponente, si volta verso di lui e dice:
“Gramsci? Gramsci Antonio?”
“Sì.”
“Ma io mi credevo l’Unico!”
Era napoletano:
“Mi credevo che Gramsci fosse un gigante, non un nano.”
Voltò le spalle e non gli rivolse più la parola. Ma Gramsci lo raccontò con grande ironia.
Un altro episodio che racconta riguarda il brigadiere capo scorta, che faceva l’appello due volte al giorno. Diceva:
“Ma dove vuoi che scappiamo, in quattro, legati?”
Gramsci notò che questo brigadiere si soffermava sempre un po’ più a lungo, giorno dopo giorno, quando arrivava il suo nome. Racconta che spesso sbagliavano:
“Gramasci, Granci, Gramàs…”
A un certo punto, il brigadiere, napoletano anche lui, non ce la fece più e chiese:
“Ma voi siete parente del famoso deputato Gramsci?”
Gramsci scrive poi:
“Ho fatto così la scoperta della mia fama.”
Dovette dire che era lui. Il brigadiere rispose:
“Ma io pensavo che Gramsci fosse un gigante.”
Gramsci commenta:
“Sì, lo so, non sono un gigante. Però…”
Racconta che il brigadiere, vedendo le sue condizioni, un giorno gli allentò i ferri ai polsi, perché ormai aveva le cicatrici che sanguinavano. Cercava poi tutti i giorni di avvicinarsi. Gramsci scriveva:
“Era un uomo pieno di bisogni metafisici.”
Riflette:
“Pensate se quest’uomo avesse incontrato le persone giuste, avrebbe fatto tutt’altro nella vita.”
A un certo punto, il brigadiere cominciò a chiamare Gramsci non più “onorevole”, ma “maestro”. Gramsci ne fu colpito e lo raccontò con una certa ironia.
Gramsci arriva faticosamente a San Vittore. Lì comincia una nuova fase. A San Vittore rimarrà 15-16 mesi. Qui incontrerà il giudice istruttore, un certo Macis, che meriterebbe una conferenza a sé. Voglio fare una conferenza su Macis in una prossima edizione di èStoria.
Macis riesce a “intortare” Gramsci. Gli dice:
“Onorevole—lo chiamavano sempre onorevole—lei non mi deve considerare un fascista. Io sono un uomo della legge. Io sono un magistrato. Voglio difenderla da loro.”
Diceva:
“Sono sardo come lei. Abbiamo studiato nello stesso liceo di Cagliari, il liceo Dettori. Ho letto Marx. Io voglio solo la verità.”
Macis utilizzava la classica tattica dello “sbirro buono”. Ogni tanto arrivava anche lo “sbirro cattivo”. Ma Macis, ogni due o tre settimane, arrivava sventolando un nuovo capo di imputazione. Alla fine, i capi d’imputazione diventarono 12.
Uno di questi prevedeva la pena capitale. Gramsci venne accusato di devastazione e strage.
Macis, un giorno, arrivò con una lettera e disse:
“Onorevole, nel suo partito c’è qualcuno che vuole che lei passi un bel pezzo di tempo in galera.”
Gramsci chiese di vedere la lettera, ma Macis rispose:
“No, la lettera la tengo io.”
La lesse a voce. Era una lettera di Ruggero Grieco, un dirigente comunista. Era una lettera innocua, ma Macis insinuò che avrebbe aggravato la situazione di Gramsci.
Questa lettera diventò un tarlo nella mente di Gramsci. Ancora poco prima di morire, Gramsci fa riferimento alla famigerata lettera di Grieco. Curiosamente, però, la lettera non fu mai presentata al processo. Non risulta agli atti.
Gramsci raccontò nelle sue lettere la vita in carcere. Diceva che il momento più importante della giornata era quello in cui veniva distribuita la posta. I carcerati si radunavano, sperando di sentire il proprio nome. Gramsci scriveva:
“Chi riceve una lettera o una cartolina torna felice in cella. Chi non riceve nulla torna deluso.”
Gramsci scriverà spesso ai familiari:
“La cosa più importante per noi che siamo di qua, e voi non potete capire cosa vuol dire essere di qua, non è mangiare. La cosa più importante è ricevere un segno d’attenzione dall’esterno.”
Racconta tutti i riti del carcere. All’epoca non poteva ricevere libri dall’esterno e doveva accontentarsi di quello che trovava nella biblioteca del carcere di San Vittore. Potete immaginare cosa si trovasse lì: Carolina Invernizio, l’”onesta gallina della letteratura italiana”, quella che sfornava due romanzi l’anno, come le galline fanno almeno due volte all’anno.
Gramsci, a un certo punto, scriverà:
“Si dice che dalle rape non si cava sangue, e io penso che sia un motto sbagliato. Anche dalle rape si può cavare sangue.”
Così comincia a studiare, proprio leggendo questa che i tedeschi chiamano Trivialliteratur, una letteratura ultra-popolare. Coglie elementi di interesse e si chiede:
“Ma perché al popolo bisogna dare solo Carolina Invernizio? Non meriterebbe qualcosa di più?”
Invece di accontentarsi di leggere per passare il tempo, Gramsci, da “professore nato”, inizia a fare dei piani di lavoro. Pensa che l’unico modo per sopravvivere al carcere—non solo resistere, ma sopravvivere—sia lavorare e tenere in esercizio la mente, ma anche il fisico. Fa ginnastica, coltiva le rose, alleva un passerotto, legge quattro quotidiani che riesce a trovare al bettolino del carcere.
Finalmente si arriva all’esito dell’istruttoria. L’autorità decide che il processo si svolgerà a Roma, indicata come sede centrale del Partito Comunista d’Italia. Gramsci deve quindi partire per Roma e, prima di farlo, decide di preavvertire sua mamma.
La madre viveva in Sardegna con il resto della famiglia. Gramsci aveva un amore straordinario per lei, anche per le vicende familiari. Il padre era stato arrestato e aveva scontato 5 anni di galera, lasciando alla madre il peso di curare da sola sette figli. Gramsci era il quarto di sette. Con il padre in prigione, venne a mancare lo stipendio, che era un buon reddito per la famiglia.
Gramsci racconta che, a volte, di notte, spiava sua madre stirare camicie per i ricchi, con un grosso ferro pieno di braci ardenti. La madre, per Gramsci, divenne il centro del suo universo affettivo, mentre il padre scomparve dalla sua vita.
Prima di partire, Gramsci decide di scrivere una lettera alla madre, datata 10 maggio 1928, la vigilia della partenza per Roma, dove sarebbe stato sottoposto al processo.
Fate conto di essere adesso a un concerto alla Scala. Massimo silenzio. Spegnete i cellulari, trattenete i colpi di tosse.
Carissima mamma, non ti vorrei ripetere ciò che ti ho spesso scritto per rassicurarti sulle mie condizioni fisiche e morali. Vorrei, per essere proprio tranquillo, che tu non ti spaventassi o ti abbattessi troppo qualunque condanna siano per darmi, che tu comprendessi bene, anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico.
Che non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che in fondo la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in un certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione.
Che, perciò, io non posso che essere tranquillo e contento di me stesso. Cara mamma, vorrei proprio abbracciarti stretta stretta, perché sentissi quanto ti voglio bene e come vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato. Ma non potevo fare diversamente.
La vita è così molto dura e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini.
Ti abbraccio teneramente.
Nino.
Era il 10 maggio 1928. L’indomani parte per Roma. A Roma si trova davanti al cosiddetto Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, una delle grandi invenzioni di Alfredo Rocco, un tribunale dove non c’è neanche un magistrato.
I giudici cosiddetti, o sedicenti giudici del tribunale, sono tutte camicie nere che hanno fatto carriera in base al numero dei “rossi” che hanno ammazzato. Digiuni di qualunque competenza e cognizione giuridica, naturalmente.
In questo processo, detto processone, si trovarono una cinquantina di dirigenti e militanti comunisti. Tutti quelli che erano caduti nelle retate, quelli che non erano già in prigione, quelli che non erano scappati, quelli che non erano morti.
E forse voi sapete la famosa frase che è stata qualche tempo fa contestata, ma abbiamo testimonianze a riguardo. La requisitoria del pubblico ministero, che non era il giudice istruttore di Milano, il Pubblico Ministero del processo, che si chiamava Isgrò, finì con le famose parole, indicando con dito indice l’imputato Gramsci:
“Dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare per almeno 20 anni.”
La condanna fu a 20 anni, 4 mesi, 5 giorni di reclusione e al pagamento delle spese processuali, proprio la… come dire, la beffa che veniva aggiunta.
A quel punto, tra l’altro, in questo stesso processo, tra gli imputati c’era Umberto Terracini, che prese due anni di più, perché Terracini sfidò dicendo:
“Voi siete degli incompetenti, non avete nessun titolo a giudicarci.”
Tra l’altro, Terracini era un giurista. Quindi mettere nel sacco Terracini era difficile. Ed era un uomo di un coraggio straordinario. Fu punito: ebbe una condanna a 22 anni invece che solo i 20 avuti da Gramsci.
Emanata la sentenza, devo affrettarmi… Emanata la sentenza, Gramsci viene spedito. Si decide che deve andare al Penitenziario di Porto Longone.
Ma sua insaputa, sua madre fa una supplica al capo della polizia, al ministro di Grazia e Giustizia, a Mussolini stesso, perché gli venga risparmiata quella destinazione che era famigerata.
A Porto Longone i detenuti morivano come le mosche per le condizioni di insalubrità di quel carcere.
E alla fine fu mandato al carcere giudiziario di Turi, vicino a Bari, un carcere tutt’ora attivo, dove la cella di Gramsci è monumento nazionale. Potete visitarla prendendo un appuntamento, mandando i documenti in anticipo e seguendo una semplice pratica burocratica che dura circa 7 settimane. Comunque, si può visitare.
Viene mandato a Turi, dove arriva a luglio. Lui sa che dovrà passare 20 anni lì e dirà:
“Io non mi sento né un santo né un eroe, sono semplicemente un uomo medio.”
Beh, se gli uomini medi fossero tutti come Gramsci, come dire, il mondo sarebbe diverso, credo. Gramsci non vuole privilegi, ma vuole godere di tutte le opportunità che la legge, compresa quella vigente fascista, gli consente.
Si mette a studiare tutti i codici, tutte le norme, le raccolte di leggi e regolamenti. Ad esempio, una cosa che gli spettava e che non gli venne concessa fino all’8 febbraio del 1929—dopo essere stato arrestato l’8 novembre del 1926 (avete segnato le date?)—era il diritto di leggere e scrivere in cella.
Gramsci si chiede:
“Ma perché?”
La spiegazione la sappiamo: quando si è deciso che si vuole impedire a quel cervello di funzionare, impedirgli di leggere e scrivere in cella è un modo per portare avanti questo obiettivo.
Finalmente, l’8 novembre del 1929, ottiene questo permesso, ma con ulteriori limitazioni. Può leggere e scrivere in cella solo per 4 ore al giorno. Gramsci si chiede di nuovo:
“Ma perché 4 ore? Vorrei sfruttare tutte le ore di luce.”
Inoltre, gli viene imposto un ulteriore limite: può avere in cella solo quattro pezzi alla volta. Come in certe biblioteche dove non puoi prendere più di tre o quattro libri. I quattro pezzi possono essere tre quaderni e un libro, tre libri e un quaderno, o due quaderni e due libri.
Gramsci comincia così a scrivere i suoi quaderni, che alla fine saranno 33. I primi tre sono di traduzione, mentre gli altri sono quaderni di scrittura. Inizia a scrivere seguendo dei piani di lavoro ben strutturati.
Gramsci, in carcere, è consapevole di essere un uomo sconfitto:
- È sconfitto come individuo, come Antonio Gramsci.
- È sconfitto come uomo e come marito: Giulia non risponde alle sue lettere.
- È sconfitto come padre: non conoscerà mai il suo secondo figlio, Giuliano, nato nell’agosto del 1926, mentre Delio era nato nell’agosto del 1924.
Gramsci supplica ripetutamente Giulia:
“Ti prego, Giulia, vieni. Portami i bambini.”
Gramsci aveva una sorta di ossessione pedagogica. Una delle sue maggiori sofferenze era non poter contribuire all’educazione dei suoi figli, tanto più che Giulia era una teorica dello spontaneismo educativo. “Tanto crescono da soli,” diceva lei.
Gramsci le spiega che non è così:
“Questo atteggiamento di lassismo quando sono piccoli diventa poi di durezza assurda quando sono adolescenti. Quando sono piccoli si lascia loro fare qualunque cosa, lasciandogli venire il delirio di onnipotenza, e poi si pretende di correggerli col bastone, sbagliando due volte.”
Gramsci è sconfitto anche come leader politico: è finito in galera e il suo Partito Comunista d’Italia è stato messo fuori legge. È sconfitto come rappresentante di un movimento proletario, socialista, complessivo.
La sua elaborazione parte dalla constatazione di questa drammatica situazione. Si sente un po’ come Niccolò Machiavelli. Sapete la biografia di Machiavelli: era stato un attore politico, attivo a un livello piuttosto alto, poi la caduta della Repubblica, i Medici, e infine l’esilio.
Machiavelli, ritirato nella villa dell’Albergaccio, comincia a riflettere sulla politica e ci regala tesori come Il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.
Gramsci fa la stessa cosa. Impedito di fare politica attivamente, non rinuncia alla passione politica e nemmeno all’istanza finale della sua passione: la rivoluzione.
Così come Machiavelli ci dà Il Principe e i Discorsi, Gramsci ci dà i quaderni e le lettere dal carcere.
Le lettere non sono soltanto la parte emozionale e letteraria di Gramsci, ma uno strumento che integra i quaderni. Sono un aiuto potente per penetrare questo universo magmatico che sono i Quaderni del carcere, dove Gramsci affronta quasi tutti gli argomenti dello scibile umano.
Nil humani a me alienum puto, in qualche modo. Ma soprattutto riflette sulla modernità del suo secolo e sulle ragioni della sconfitta.
Gramsci vuole capire perché il movimento operaio è stato sconfitto. Non si accontenta di dare la colpa agli altri, ma invita a riflettere su dove noi abbiamo sbagliato:
“Se loro hanno vinto, è anche perché noi abbiamo sbagliato. Dove abbiamo sbagliato? È lì che ci si deve concentrare.”
Stimolato dagli avvenimenti in corso, Gramsci riflette sulla crisi economica del 1929.
Il Comintern, cioè l’Internazionale Comunista, decretò che quella crisi fosse:
“La campana a morto del capitalismo.”
Gramsci cerca di far capire ai compagni in carcere—con cui poi romperà spesso—che non è così. Pensa che quella crisi finirà per rafforzare il capitalismo.
Secondo Gramsci, la politica fordista è intelligente e astuta. È una politica che finirà per ingabbiare le masse, che continueranno a essere vittime, ma diventeranno anche complici di quella politica. Ford, per Gramsci, rappresenta l’ideal-tipo dell’imprenditore capitalista americano.
Ford con la politica degli alti salari, cosa fa? Fa un’operazione di grande intelligenza. Gli alti salari, dice Gramsci, non sono una vittoria del proletariato, ma un modo per incastrarlo ancora di più. Perché quel surplus di denaro che rimane nelle tasche del proletario, il sistema fa in modo che venga speso in beni superflui.
E dove li spendono? Nei supermercati di Ford. Una volta alla settimana vanno al cinema a vedere un film prodotto da Ford, nelle sale cinematografiche di proprietà di Ford. La domenica comprano un rotocalco illustrato—quelli dell’epoca—stampato da Ford.
Ecco che il lavoratore viene trasformato in un gorilla ammaestrato. Tutto deve essere funzionale alla produttività. Il padrone pretende di mettere il naso anche nella camera da letto dell’operaio: anche la sua vita sessuale deve essere regolamentata ai fini della produzione, per così dire.
Questa osservazione di Gramsci, in carcere, in particolare in un quaderno che lui stesso intitolerà Americanismo e Fordismo, anticipa in modo straordinario le analisi degli esponenti della cosiddetta Scuola di Francoforte.
Ma Gramsci, quando scrive queste cose, in America non ci ha mai messo piede, né ci metterà mai piede. La sua biblioteca in carcere, che gli procura poco alla volta il suo fraterno amico Piero Sraffa (economista a Cambridge, ma comunista, sia pure in modo nascosto), alla fine conterà circa 400 volumi.
Gramsci riesce a capire delle cose a partire da spunti piccolissimi. Per esempio, da una recensione a un libro che lui non potrà mai leggere. Noi, oggi, abbiamo la biblioteca di Babele: clicchiamo su Google e troviamo qualunque cosa. Pensate quanto siamo privilegiati rispetto a lui.
Gramsci matura l’idea che, in quell’epoca, in quella fase storica, in Occidente—e per lui l’Occidente non è solo una categoria geografica, ma anche economica, sociale e culturale—la rivoluzione non è più pensabile secondo il modello bolscevico.
Il modello bolscevico era quello dell’assalto frontale, della presa del Palazzo d’Inverno il 7 novembre 1917 a Pietrogrado. Ma Gramsci vede che, in Occidente, non è più possibile.
Analizzando le differenze tra la società occidentale e quella orientale (quella russa), Gramsci giunge alla conclusione che non si tratta di una rinuncia al comunismo o alla rivoluzione. Gramsci rimane un rivoluzionario fino all’ultimo respiro.
Ma pensa che bisogna ideare un altro tipo di rivoluzione, che passi attraverso il lavoro culturale e ideologico. Da qui l’importanza di coinvolgere gli intellettuali.
Ogni classe sociale ha i suoi intellettuali organici, che non sono organici a un partito, come spesso si dice, ma a una classe. Questi intellettuali devono aiutare la classe a formarsi.
Gramsci spiega che, in America, la classe borghese, di cui Ford è il rappresentante ideale, riesce a fare quell’operazione perché prima di essere classe dominante, è classe dirigente.
Ecco perché noi proletari, noi subalterni, dobbiamo diventare classe dirigente per poter essere classe dominante.
Gramsci innova potentemente anche il lessico marxista, arricchendo il pensiero marxista. Nota le nuove funzioni dello Stato: lo Stato non può più essere considerato, come Lenin scrive in Stato e Rivoluzione, semplicemente lo strumento di una classe per esercitare il suo dominio su un’altra.
Oggi c’è uno stato allargato che ha enormi funzioni ideologiche, culturali ed economiche. Gramsci nota che anche parlare di proletari o di operai diventa quasi anacronistico, è insufficiente, perché oggi c’è una platea molto più vasta di oppressi, molto più vasta di quanto siano i lavoratori occupati o inoccupati.
E chi sono? Sono i subalterni. Ecco che Gramsci prova a ragionare in termini di subalterni.
Tra l’altro, questa è una delle ragioni della grande fortuna che Gramsci sta avendo oggi nel mondo, a partire dagli Stati Uniti, ma anche dall’India, dal Giappone, dalla Corea del Sud, dall’America Latina, come grande teorico dei subalterni.
È nata addirittura da Gramsci una corrente che ha prodotto molte cattedre universitarie: i Subaltern Studies, gli studi sui subalterni.
Ecco quindi Gramsci. E devo arrivare alla fine perché sento delle occhiate penetranti alle mie spalle, prima che mi arrivino le freccette.
Gramsci, pur sconfitto, non molla. Non rinuncia all’opzione rivoluzionaria, ma ridefinisce il concetto di rivoluzione.
Tutto questo in un lento ma inesorabile aggravarsi della sua condizione fisica. “Ogni giorno un gradino. Un gradino in giù, un gradino che so che non potrò risalire. Mi sento come un sasso affidato alla corrente. Questo inferno, questo inferno in cui sto vivendo.”
Questo inferno in cui morirà, anche se passerà. A un certo punto, alla fine del 1933, passerà dal carcere di Turi a una clinica di Formia, dove scrive gli ultimi quaderni. Nel 1935 viene spostato in un’altra clinica, stavolta a Roma, la clinica Quisisana.
Paradossalmente, in questa clinica Gramsci non scriverà più. Non ha più la forza: “Non ho più neanche la forza di reggere la penna in mano.”
Ma, soprattutto, ha paura di perdere la capacità intellettiva e di scrivere cose di cui non ha più il controllo. Per questo scrive solo lettere.
È una lenta decadenza che lui osserva come un anatomo-patologo osserva una lucertola che ha sezionato. Parla delle sue malattie, delle sue sofferenze.
Quando arriva nella clinica di Formia ha uno shock. Si trova davanti a uno specchio e vede una figura in quello specchio. Si volta indietro pensando che ci sia qualcuno dietro di lui, perché non si riconosce. È diventato irriconoscibile a sé stesso. Questo per darvi l’idea della trasformazione e delle sofferenze.
Quando Gramsci muore, il 27 aprile del 1937, alle 4 del mattino, è dopo un’agonia sopraggiunta in seguito a un ictus.
Aveva già avuto un ictus nel 1933. Poi, con questo secondo ictus, gli arriverà il decreto di libertà. Ormai aveva già avuto un decreto di semilibertà, di cui però non si fece nulla.
Il decreto di libertà, curiosamente, gli arriva il giorno 25 aprile. Potremmo dire che è stata una sorta di profezia della storia.
Vi ringrazio. Applausi per Gramsci. Sono questi. Grazie, grazie a tutti. Grazie a Storia. Grazie a Gramsci. Grazie a voi.
Grazie. Non mettetemi in imbarazzo, basta. Grazie, grazie.