L’economista Jeffrey Sachs critica duramente gli Stati Uniti, accusandoli di guidare il mondo verso il disastro con una politica estera arrogante e pericolosa, indipendentemente dall’amministrazione al potere. Pur negando di essere un difensore di regimi come Cina e Russia, sostiene che l’Occidente, guidato dagli USA, sia responsabile dell’attuale guerra in Ucraina più di Vladimir Putin. Sachs dichiara inoltre che Benjamin Netanyahu, più che essere un’estensione della politica americana, influenzi pesantemente le scelte degli USA in Medio Oriente, alimentando guerre come quelle in Gaza, Libano e Iraq. Forte della sua esperienza come consigliere per governi e Nazioni Unite, Sachs descrive episodi come il presunto colpo di Stato orchestrato dalla CIA ad Haiti, sottolineando come tali azioni e atteggiamenti stiano avvicinando l’umanità a una catastrofe nucleare globale.
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Gli Stati Uniti, con la loro politica estera arrogante e interventista, rappresentano una minaccia crescente per la stabilità globale, spingendo il mondo verso una potenziale catastrofe nucleare. L’Orologio dell’Apocalisse, un simbolo creato dagli scienziati atomici nel 1947, segna oggi 90 secondi alla mezzanotte, il punto più vicino al disastro mai raggiunto. Questo segna il fallimento di una leadership che, indipendentemente dall’amministrazione al potere, ha continuato ad avvicinare l’umanità al baratro.
Dietro a questa dinamica si cela un approccio che combina l’uso spropositato della forza militare con interventi segreti per rovesciare governi. Episodi come il colpo di stato in Haiti nel 2004, orchestrato dalla CIA, mostrano come gli Stati Uniti abbiano minato la sovranità nazionale di vari paesi. In quel caso, l’allontanamento forzato del presidente Aristide fu accompagnato da sanzioni e isolamento economico, che prepararono il terreno per il rovesciamento.
L’atteggiamento interventista si estende anche all’Europa dell’Est. Dal 2014, gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo decisivo nella crisi ucraina, sostenendo il cambio di governo e contribuendo a innescare un conflitto che dura tuttora. Questo interventismo, dettato dalla volontà di espandere l’influenza militare della NATO ai confini della Russia, viene portato avanti ignorando i numerosi avvertimenti di esperti e diplomatici, che avevano previsto il rischio di una guerra devastante.
Il problema non si limita agli Stati Uniti come unica superpotenza. La loro eredità imperialista è radicata in una tradizione di dominio che risale all’Impero britannico. Con oltre 750 basi militari distribuite nel mondo, la potenza americana esercita un’influenza senza precedenti, superando di gran lunga qualsiasi altra nazione. Tuttavia, questo controllo non si traduce in maggiore stabilità, ma in conflitti e instabilità diffusi, che spesso servono interessi particolari mascherati da difesa della libertà e della democrazia.
Un esempio emblematico è il rapporto tra gli Stati Uniti e Israele, dove il ruolo di guida non è così unilaterale come potrebbe sembrare. In realtà, la politica americana in Medio Oriente è fortemente influenzata da Israele, con Benjamin Netanyahu che, a partire dal 1996, ha delineato strategie per mantenere il controllo sui territori palestinesi e affrontare i paesi considerati nemici, come Iran, Iraq, Siria e Libia. Questa influenza si è tradotta in guerre dirette o indirette, alimentando conflitti che hanno devastato l’intera regione.
Mentre molti accusano chi critica gli Stati Uniti di essere indulgente con regimi autoritari come quelli di Cina e Russia, la realtà è più complessa. L’approccio americano, spesso mascherato da moralismo, non è privo di conseguenze disastrose. Nel caso della Cina, ad esempio, la retorica bellicosa si basa più su rivalità economiche che su reali minacce militari. Negli ultimi 40 anni, la Cina non ha intrapreso guerre significative, contrariamente agli Stati Uniti, che continuano a usare la forza militare come principale strumento di politica estera.
Il conflitto in Ucraina è un esempio lampante della pericolosa direzione intrapresa dagli Stati Uniti. A partire dal 2014, con il sostegno al rovesciamento del governo ucraino, Washington ha giocato un ruolo chiave nel deterioramento delle relazioni con la Russia. Nonostante le proteste di figure autorevoli come George Kennan e Bill Perry, che avevano avvertito del rischio di espandere la NATO verso i confini russi, gli Stati Uniti hanno proseguito con una strategia che ha intensificato le tensioni e portato alla guerra attuale. L’idea di utilizzare l’Ucraina come pedina geopolitica, sacrificando migliaia di vite, dimostra quanto poco il benessere delle nazioni interessi rispetto agli obiettivi strategici.
Parallelamente, la retorica contro la Cina è un altro esempio di come gli Stati Uniti creino nemici per consolidare la propria posizione di supremazia. Le accuse di genocidio contro la popolazione uigura nello Xinjiang, sebbene gravissime, vengono utilizzate come strumento narrativo, mentre atrocità documentate in altre aree del mondo, come Gaza, ricevono una risposta ben più timida. Questa selettività nel condannare i crimini umanitari mette in luce un doppio standard che mina la credibilità morale dell’Occidente.
La questione di Israele, in particolare, evidenzia un rapporto di dipendenza reciproca tra Washington e Tel Aviv. Piuttosto che essere un’estensione della politica americana, Israele guida molte delle decisioni strategiche degli Stati Uniti in Medio Oriente. Netanyahu, con il suo libro Fighting Terrorism, aveva delineato fin dagli anni ’90 un piano per destabilizzare i paesi considerati nemici di Israele. Tale strategia, incorporata nelle politiche statunitensi, ha alimentato conflitti in Iraq, Siria, Libia e Yemen, con devastanti conseguenze umanitarie ed economiche. L’influenza israeliana sulla politica americana è stata così profonda che si può dire che Netanyahu abbia esercitato un ruolo da protagonista nella direzione della politica estera degli Stati Uniti per oltre vent’anni.
La narrativa secondo cui gli Stati Uniti agiscono per la democrazia viene messa in discussione anche dalla loro storica inclinazione a sostenere cambi di regime attraverso operazioni segrete. Le 64 operazioni di regime change documentate tra il 1947 e il 1989 dalla CIA non solo hanno destabilizzato paesi sovrani, ma hanno creato un precedente per interventi sempre più aggressivi. Da Haiti all’Iran, queste azioni non sono mai state veramente “segrete”; piuttosto, si tratta di operazioni palesi negate ufficialmente per evitare responsabilità politiche.
Tutto ciò riflette una politica estera americana che non solo è miope ma anche pericolosamente calcolata. L’arroganza con cui vengono ignorati i consigli di diplomatici esperti e leader internazionali indica un sistema incapace di autocorreggersi. L’obiettivo di mantenere la supremazia globale a ogni costo ha portato non solo all’instabilità in diverse regioni del mondo, ma anche a un rischio crescente di conflitti nucleari.
Il problema non è solo politico, ma anche culturale. L’idea che gli Stati Uniti siano i custodi della libertà e della giustizia mondiale alimenta un nazionalismo che giustifica ogni azione, per quanto devastante. Questo atteggiamento viene spesso travestito da “eccezionalismo americano”, un concetto che giustifica guerre preventive, sanzioni economiche e altre forme di ingerenza in nome di un presunto bene comune.
Nonostante questa critica serrata, non si tratta di difendere regimi autoritari o di minimizzare le loro responsabilità. Piuttosto, è un invito a riconoscere che la posizione dominante degli Stati Uniti li rende responsabili di una quantità sproporzionata di conflitti globali. Senza un cambiamento radicale nell’approccio, il rischio di ulteriori catastrofi continuerà a crescere. La necessità di un equilibrio internazionale, basato sul rispetto reciproco e non sull’imposizione, è più urgente che mai.