La fantasia di Dumas ha creato il Conte di Montecristo su questo fatto autentico di cronaca nera, più romanzesco ancora del romanzo stesso.
di Jacques Pouchet
Nel 1807, viveva a Parigi Francesco Picaud, di professione ciabattino: egli era povero, ma giovane, bello e innamorato e doveva sposare Teresa, una ragazza graziosa, fresca, onesta, che gli piaceva molto.
Ora con questo progetto in testa e vestito dei suoi abiti migliori, Francesco Picaud si reca un giorno in un caffè gestito da un suo compagno e coetaneo, più ricco però del modesto operaio e per di più terribilmente invidioso: Mattia Loupian che, nato a Nîmes, come Picaud, aveva a Parigi un caffè già ben avviato nelle vicinanze della piazza Sainte-Opportune; con lui, in quel giorno, si trovavano altri tre vicini, habitués dell’ambiente, tutti conoscenti di Picaud.
«Mio caro Loupian, ti annuncio che mi sposo», dice Picaud. «Anzi vi invito tutti alla Messa che si celebrerà a Saint-Leu, e alla festa che, dopo il pranzo di nozze, si terrà al Ballo Campestre, in Via agli Orsi, da Latignac, il maestro di danza».
I quattro amici si limitano a qualche insignificante parola di augurio: sono quasi storditi dalla straripante felicità del loro compagno.
Appena uscito lo sposo, «Scommetto» dice Loupian, «che riuscirò a rimandare queste nozze». «Come farai?». «Uno scherzo ben combinato… Fra poco verrà il commissario… Io gli dirò che sospetto in Picaud una spia al servizio degli inglesi; capite ora, con una denuncia simile sarà convocato, interrogato, e almeno per otto giorni le nozze saranno ritardate».
«Loupian», esclamò Allut, uno dei tre amici «si tratta di uno scherzò di cattivo genere; tu non conosci Picaud… Se scopre il tiro, è capace di vendicarsi duramente».
«Bah, bah», conclusero gli altri, «bisogna pur divertirsi di carnevale».
«Fate ciò che vi aggrada; ma vi avverto che io non ci sto; ognuno ha i suoi gusti».
Gli altri tre non vogliono lasciare cadere una idea così brillante e Loupian, l’ideatore dello scherzo, promette ai suoi due amici di farli ridere a crepapelle.
Lo stesso giorno, due ore dopo, il commissario di polizia in presenza del quale Loupian si era lasciato andare a qualche supposizione, faceva il suo dovere di scrupoloso poliziotto: ispirandosi alle chiacchiere udite al caffè, stendeva un rapporto dettagliato e si affrettava a spedirlo ai suoi superiori.
La denuncia fatale arriva fino al duca di Rovigo; per caso essa coincide con delle scoperte che sono state fatte a proposito dei moti della Vandea. Senza dubbio Picaud serve da legame tra il Sud e l’Ovest. Egli è certamente un personaggio importante e il suo umile mestiere nasconde un gentiluomo della Linguadoca.
Per farla breve, nella notte della domenica, il disgraziato Picaud è arrestato nella sua camera in modo così discreto e misterioso che nessuno lo vede partire; da quel giorno egli è irreperibile; parenti e amici non possono ottenere nessuna notizia e infine cessano di interessarsi a lui.
Il tempo passa; siamo nel 1814; cade l’Impero e dal castello di Fénestrelles, verso il 15 aprile, vediamo avanzare un uomo curvo e invecchiato più dal dolore che dal tempo.
In sette anni ha vissuto quasi mezzo secolo. Nessuno lo riconoscerà, poiché lui stesso non si è riconosciuto quando si è potuto guardare in uno specchio. Quest’uomo, che si faceva chiamare Giuseppe Lucher, aveva conosciuto in prigione un ricco prelato milanese, che si era affezionato a lui come ad un figlio.
Costui, sdegnato per l’abbandono dei suoi parenti, i quali approfittavano della sua prigionia per godere la rendita dei suoi beni, non ha loro lasciato il proprio capitale, depositato alla Banca di Amburgo e alla Banca d’Inghilterra, ma poco prima di morire in prigione ha nominato unico erede di circa sette milioni il povero Lucher, ed in più gli ha svelato il segreto nascondiglio di un tesoro, composto di diamanti e da circa 3 milioni in monete d’oro.
Giuseppe Lucher, libero infine, si diresse rapidamente verso Torino e raggiunse Milano; agendo con prudenza in capo a qualche giorno poteva impossessarsi del tesoro che era venuto a cercare, arricchito da una notevole quantità di antiche pietre preziose, da cammei meravigliosi, tutti di enorme valore.
Lucher seppe vendere bene le sue monete e pur conservando i diamanti e un milione in liquidi, si procurò una rendita di seicentomila franchi.
Ciò fatto, si mise in viaggio per Parigi dove arrivò il 15 febbraio 1815, esattamente otto anni dopo la scomparsa del povero Picaud, e si recò ad indagare nel quartiere di Sainte-Opportune.
Ecco ciò che apprese. Nel 1807, nel mese di febbraio, ci si era preoccupati molto per la scomparsa di un giovane ciabattino, uomo onesto che stava per contrarre un felice matrimonio.
Uno scherzo di tre amici distrusse la sua felicità: il povero diavolo dovette fuggire oppure fu arrestato. Di lui non si seppe più nulla.
La sua fidanzata lo rimpianse per due anni; poi, stancatasi senza dubbio del suo dolore, sposò il proprietario di un caffè, Loupian, che, con questo matrimonio, aveva fatto progredire i suoi interessi ed oggi possedeva sul Corso un grande caffè, il meglio avviato di tutta Parigi.
Giuseppe Lucher ascoltò questa storia con apparente indifferenza e si informò dei nomi di coloro che con il loro crudele scherzo avevano causato la presunta rovina di Picaud.
I nomi di questi individui erano stati, però, dimenticati.
«Mi ricordo», aggiunse uno degli uomini interrogati dal nuovo arrivato, «che un certo Allut di Nîmes si è vantato in mia presenza di conoscere le persone di cui parlate».
L’indomani una diligenza si dirigeva a grande velocità verso Nîmes. Arrivato in quella città, un abate italiano ne discese e si recò al rinomato Hotel del Lussemburgo. Senza apparente curiosità si informò di un certo Antonio Allut. Passarono parecchi giorni prima che fosse rintracciato l’uomo cercato dall’abate Baldini; in più, ci volle ancora qualche giorno prima che l’abate potesse mettersi in relazione confidenziale con Antonio Allut. Infine l’abate poté raccontare ad Antonio che, durante la sua prigionia al Castel dell’Uovo di Napoli, per un reato contro lo Stato, egli aveva conosciuto un buon compagno del quale ancora rimpiangeva la morte, avvenuta nel 1811.
«In quell’epoca», aggiunse, «era un giovane di circa trent’anni; spirò rimpiangendo il paese natale, ma perdonando coloro che gli avevano fatto del male. Era un cittadino di Nîmes e si chiamava Francesco Picaud». Allut proruppe in un grido. L’abate, stupito, lo guardò. «Voi conoscevate dunque questo Picaud?» chiese ad Allut. «Era un mio buon amico… È andato a morire ben lontano quel povero infelice… ma avete poi saputo la causa del suo arresto?»
«Non la sapeva nemmeno lui ed egli mi fece a questo proposito dei giuramenti così convincenti che sono persuaso che veramente il povero ragazzo ignorasse la ragione della sua prigionia. Anzi questa idea fissa gli aveva certamente ispirato la strana clausola testamentaria che ha fatto; anzitutto però devo spiegarvi che, durante la sua prigionia, Picaud aveva reso grandi servigi a un Inglese, come lui prigioniero, che, morendo, lasciò a Picaud un brillante del valore di almeno 50.000 franchi». «Fu ben fortunato», esclamò Allut; «50.000 costituiscono un patrimonio».
«Quando Picaud si sentì morire, mi chiamò e mi disse: ”La mia ultima ora sarà più serena se voi mi promettete di esaudire i miei desideri: non ho mai potuto sapere il nome di coloro che mi hanno cacciato in questo inferno; ma la voce di Dio mi ha suggerito che un mio concittadino, Antonio Allut, conosce i miei delatori. Andate da lui quando sarete libero e dategli, a nome mio, il brillante che vi consegno e che ho avuto da Sir Erberto Newton; metto però una condizione: in cambio del brillante, egli vi rivelerà i nomi di coloro che considero i miei assassini. Quando voi li saprete, ritornerete a Napoli e li farete scolpire su una placca di piombo che celerete nella mia tomba”. Preso da pietà, giurai di eseguire le sue ultime volontà: egli mi diede la somma per il viaggio, il brillante e morì in pace. Così eccomi ed ecco il brillante».
L’abate Baldini a queste parole mostrò un solitario che brillava al suo dito medio: non vi eran dubbi sul suo grande valore.
Antonio Allut lo contemplava con occhi avidi di falco; un sudore freddo gli imperlava le tempie, e la bocca era contratta; un fremito agitava il suo corpo e si poteva ben assistere alla lotta che si scatenava nel suo animo tra l’avarizia e la prudenza.
In quel momento entrò la moglie. L’abate ricominciò il racconto che già aveva fatto e mostrò di nuovo l’anello.
Certamente, ci sarebbe voluto un carattere diverso da quello debole di Antonio Allut per difendersi contro la terribile tentazione.
Sua moglie, subito, si recò da un gioielliere vicino; costui venne e dopo avere esaminato il solitario, dichiarò che l’avrebbe barattato con una bella fattoria del valore di 55.000 franchi.
Era meraviglioso! I coniugi Allut sembravano pazzi di gioia.
Seduta stante, Allut confessò i nomi che egli conosceva: Gervaso Chaubart, Guglielmo Solari, Mattia Loupian.
L’anello fu dato ad Allut. Secondo il contratto, esso divenne proprietà del gioielliere, che tenne fede ai suoi impegni e quattro mesi più tardi lo rivendette a un negoziante turco per 102.000 franchi.
… Una signora anziana un giorno si presentò al caffè Loupian e chiese del padrone: gli raccontò che la sua famiglia aveva motivi di gratitudine verso un pover’uomo rovinato dagli avvenimenti del 1814, costui, però, non voleva nessuna elemosina, desiderava solo trovare un posto di cameriere in un caffè dove lo avessero trattato come uno della famiglia; se Loupian l’avesse assunto, essa gli avrebbe passato 100 franchi al mese alla insaputa del suo protetto.
Un servo fedele
L’uomo si presenta: è brutto e di aspetto miserabile. La padrona, la signora Loupian, lo guarda attentamente e crede di riconoscere qualcuno; ma confusa dai suoi diversi ricordi, non riesce a stabilire chi esattamente le rammenti quell’uomo.
I due cittadini di Nîmes, Chaubart e Solari, in quell’epoca frequentavano ancora questo caffè. Un giorno, uno dei due non viene: si scherza sulla sua assenza. Passa anche il giorno dopo senza che egli si faccia vivo. Che gli è accaduto? Solari promette di informarsi sul motivo dell’assenza e verso le nove di sera ritorna al caffè, costernato e pieno di spavento, raccontando che, sul Ponte delle Arti, il giorno prima era stato trovato alle 5 del mattino il corpo del povero Chaubart, trafitto da un colpo di pugnale. L’arma era ancora nella ferita e sul manico si potevano leggere queste parole scritte in stampatello: Numero uno.
Non mancarono i commenti. La polizia mise sottosopra e cielo e terra, ma il colpevole sfuggì alle ricerche e alla punizione.
Un po’ di tempo dopo, un superbo cane da caccia che apparteneva al padrone del caffè fu avvelenato misteriosamente e dopo due settimane anche il pappagallo favorito di M.me Loupian subì la stessa sorte. Si ricominciarono ancora le ricerche, che però non diedero risultati positivi.
Loupian aveva una figlia di sedici anni, bella come un angelo. Un ricco signore la vide, si innamorò follemente di lei e corrompendo i servitori del caffè e l’istitutrice della ragazza riuscì ad avvicinarla; dichiaratosi marchese e milionario, dopo alcuni appuntamenti la sedusse.
La ragazza dovette confessare la sua colpa ai genitori; d’altra parte il responsabile acconsentì subito al matrimonio ed esibì i suoi documenti, i titoli dei suoi domini, dando così prova della sua ricchezza.
I Loupian, tranquillizzati, si prepararono a celebrare le nozze che lo sposo volle splendide: per la sera fu ordinato un pasto di 150 coperti al «Cadran bleu», celebre ristorante.
All’ora comunicata, gli invitati cominciano ad arrivare: ma lo sposo non c’è; arriva però una lettera in cui si annuncia che il marchese, chiamato dal re, ha dovuto recarsi a Versailles; si scusa per il ritardo, prega che si inizii il pranzo senza di lui e dice che egli sarebbe ritornato dalla moglie verso le dieci di sera.
Si cena dunque, ma senza il caro genero. La sposa è triste: tutti però la complimentano sulla posizione importante del marito.
Le portate si susseguono. Al dolce, un cameriere posa sul piatto di ogni invitato una lettera in cui si comunica a tutti che il marito è un avanzo di galera e che è dovuto scappare perché braccato dalla polizia.
La costernazione dei Loupian è grandissima: ma le loro disgrazie sono appena incominciate.
Quattro giorni dopo, di domenica, mentre la famiglia è in gita in campagna, il fuoco scoppia in nove punti diversi dell’appartamento che si trova sopra il caffè. Accorrono dei miserabili con il pretesto di aiutare, e saccheggiano, rubano, rompono, devastano; le fiamme distruggono tutta la casa. Il proprietario cita Loupian, che è completamente rovinato ; al pover’uomo non resta che l’affetto della moglie. Tutti i suoi valori in contanti, i suoi titoli e la sua mobilia sono stati distrutti o rubati nel disastro del quale è rimasto vittima.
I Loupian sono abbandonati dai loro amici; uno solo resta fedele, il vecchio servitore, Prospero. Costui non vuole abbandonarli; li seguirà senza alcun guadagno, accontentandosi di dividere il pane dei suoi padroni: con il suo aiuto si riapre un nuovo piccolo e modesto caffè nella via S. Antonio.
Là, una sera, si reca ancora Solari, che rientrando a casa viene preso da atroci dolori. Si chiama un medico: costui dichiara Solari avvelenato, e, malgrado tutte le cure, l’infelice muore tra terribili convulsioni.
Dodici ore dopo, quando, secondo gli usi, la bara fu deposta alla porta di entrata della casa in cui viveva Solari, si trovò sul lenzuolo nero che copriva il cofano, un pezzo di carta sul quale, in stampatello, erano scritte le seguenti sinistre parole: Numero Due.
Oltre alla figlia, il cui destino era stato così avverso, Loupian aveva un figlio. Questo ragazzo, istigato da cattivi soggetti, attirato da donne di dubbia fama, si lasciò andare a una esistenza di stravizi. Una notte i suoi compagni propongono uno scherzo: bisogna penetrare in un magazzino di liquori, prelevare dodici bottiglie, berle e pagarle all’indomani. Eugenio Loupian, già quasi ubriaco, salta di gioia a quel bel progetto.
Quando però la porta è sfondata e le bottiglie, già scelte, sono nelle tasche dei ladruncoli, la polizia, avvertita da una spia, arriva.
I sei ragazzi, colpevoli o imprudenti, sono arrestati: accusato di rapina notturna con aggravante di scasso, il figlio di Loupian dovrà subire 20 anni di prigione.
Questa catastrofe completò la rovina della famiglia; la bella Teresa morì di crepacuore e l’infelice Loupian e sua figlia rimasero senza alcuna risorsa.
Allora l’onesto servitore che aveva qualche risparmio lo offrì alla giovane donna; egli però mise un prezzo a questa generosità e fece odiose proposte alla figlia di Loupian.
Nella speranza di salvare il padre e a causa dell’estrema miseria in cui si dibattevano, essa accettò l’estrema vergogna di un concubinato col proprio servo.
Loupian, più che vivere, vegetava: tutte quelle disgrazie avevano scosso la sua mente.
Una sera, mentre passeggiava in un viale oscuro delle Tuileries, un uomo mascherato gli si presentò dinanzi:
«Loupian», esclamò, «ti ricordi del 1807?». «Perché?». « Sai quale delitto hai commesso in quell’epoca?». «Un delitto?!». «Un delitto infame! Per gelosia, hai fatto imprigionare il tuo amico Picaud, te ne ricordi?».
«Ahimè! Iddio mi punisce già abbastanza».
«No, non è Dio che ti punisce, ma lo stesso Picaud che per estinguere la sua sete di vendetta, ha pugnalato Chaubart sul Ponte delle Arti, ha avvelenato Solari, ha dato tua figlia a un forzato, ed ha organizzato la trappola in cui è caduto tuo figlio. Ancora lo stesso uomo ha incendiato la tua casa abbandonandola poi ai ladri, ha lasciato morire di dolore tua moglie, ed ha fatto di tua figlia una concubina. Sì, nel tuo servo Prospero, tu riconoscerai Picaud, ma proprio nel momento in cui egli avrà posto su di te il suo numero tre».
Così dicendo, l’esaltato con un colpo di pugnale colpisce al cuore la sua vittima, che cade con un debole grido.
Compiuto l’atto della sua ultima vendetta, Picaud si appresta ad uscire dalle Tuileries, quando una mano di ferro, prendendolo al collo, lo atterra presso il cadavere: l’assalitore, approfittando della sorpresa dell’assassino, gli lega mani e piedi, lo imbavaglia, poi, avvoltolo nel suo mantello, lo trasporta lontano.
Dopo circa mezz’ora, Picaud fu deposto su una branda in quella che sembrava la cantina di una casa abbandonata: sommariamente ammobiliata, conteneva una stufa, una lampada da cucina; in piedi davanti a Picaud, con aria truce e a braccia conserte si teneva l’uomo che lo aveva trasportato in quel luogo.
L’assassino di Loupian non riconobbe l’individuo – che gli sembrava quasi un fantasma, e lo esaminava in silenzio, attendendo un segno, una parola per indovinare la sua sorte futura:
«Ebbene Picaud», disse finalmente l’uomo, «quale nome userai d’ora innanzi? Quello che tu hai avuto da tuo padre o quello che hai assunto uscendo da Fénestrelles? Oppure ti farai chiamare abate Baldini, o Prospero? La tua fantasia non te ne offre un altro? Per te la vendetta è un piacere, tu avresti orrore di te stesso se tu non avessi venduto l’anima a Satana. Tu hai commesso orrendi delitti, ti sei condannato e mi hai trascinato con te nella via della perdizione».
« Ma chi sei tu?».
«Sono il tuo complice, un disgraziato che ha venduto la vita dei suoi amici per un poco di danaro: ma il tuo oro mi ha portato disgrazia.
«La cupidigia che tu hai risvegliato in me, non si è mai spenta. La sete di ricchezze mi ha reso pazzo e colpevole ed io ho ucciso il gioielliere che mi aveva ingannato.
«Dovetti fuggire con mia moglie: essa è morta durante l’esilio, ed io sono stato preso, giudicato e condannato ai lavori forzati.
«Alla fine sono riuscito a scappare e così ho voluto a mia volta cercare quell’abate Baldini che colpisce e punisce così bene gli altri. Fui a Napoli, ma qui nessuno l’aveva mai conosciuto. Seppi che Picaud non era morto; e quando l’ho ritrovato già due omicidi erano stati commessi; i figli di Loupian rovinati, la sua casa bruciata, la sua fortuna distrutta.
«Questa sera stessa io stavo per parlare con quell’infelice per rivelargli tutto, ma ancora questa volta tu mi hai prevenuto; il diavolo ti guidava e Loupian è stato da te ucciso prima che te lo strappassi dalle mani.
«Ma ora tu sei alla mia mercè; a mia volta ti renderò tutto il male che hai fatto; e ti proverò che la gente del nostro paese ha la mano svelta come la memoria: io sono Antonio Allut».
Picaud non rispondeva. Strani pensieri lo turbavano. Sostenuto fino allora dalla febbre della vendetta, aveva quasi dimenticato la sua immensa ricchezza e tutti i piaceri che essa avrebbe potuto procurargli. Ora che la sua vendetta era compiuta e che poteva così pensare a godere le ricchezze, proprio ora stava per cadere in potere di un uomo implacabile come lui.
«Però», rifletteva Picaud, «ricco come sono, non potrò, con belle promesse e magari con il sacrificio di una somma, sbarazzarmi del mio nemico? In fondo sono bastati 50.000 franchi per sapere il nome delle mie vittime, non potrò forse con il doppio, liberarmi da questa prigionia?».
Ma Dio permise che la cieca coltre dell’avarizia oscurasse la lucidità di quella mente. Il prigioniero, in possesso com’era di una ricchezza sconfinata, si spaventò all’idea di dover consegnare una somma di denaro a quell’uomo. L’amore della ricchezza soffocò le esigenze del suo corpo, che voleva la libertà: perciò, egli cercò di resistere a qualsiasi richiesta da parte del suo nemico. «Oh, egli pensava, mi farò credere al verde, così uscirò in fretta di qui. Nessuno sa quanto io posseggo; fingerò di essere ormai agli sgoccioli, così egli mi libererà per il prezzo di qualche scudo e quando sarò libero, l’avrò in mio potere».
Ecco ciò che Picaud immaginava; ecco l’assurda speranza da lui coltivata, mentre Allut stava decidendosi a rendergli la libertà di parlare.
«Dove sono?» chiese Picaud.
«Che cosa ti importa, dal momento che tu sei in un luogo dove non dovrai attenderti né pietà, né aiuto? Sei nelle mie mani e sarai lo schiavo del mio volere e del mio capriccio».
Picaud sorrise sdegnosamente, e il suo antico amico assicurò meglio il prigioniero al lettuccio circondandogli la vita con una catena di ferro, fissata al muro per mezzo di grossi anelli.
Fatto ciò Allut cominciò a cenare; quando Picaud vide che l’altro non gli offriva niente, esclamò: «Ho fame!». «Quanto vuoi pagare per il pane è per l’acqua che ti darò?». «Non ho soldi». «Hai più di 16 milioni», rispose Allut. «Tu sogni!». «E allora tu sogna di mangiare».
Allut poi uscì e restò assente tutta la notte; ritornò verso le sette del mattino per la colazione; la vista dei cibi raddoppiò per Picaud le torture della fame.
«Dammi da mangiare», disse. «Quanto vuoi pagare per il pane e l’acqua che ti darò?». «Nulla». «Ebbene, vedremo chi di noi due si stancherà per primo».
Ed egli se ne andò ancora.
Alle tre del pomeriggio era di ritorno; Picaud supplicò il suo guardiano, e gli offrì venti soldi per una libbra di pane.
«Ascolta», disse Allut, «ecco le mie condizioni: io ti darò da mangiare due volte al giorno e tu pagherai per ogni pasto 25.000 franchi».
Picaud si mise ad urlare, si ribellò, ma l’altro rimase impassibile.
«È la mia ultima condizione; scegli, pensaci. Tu non hai avuto pietà per i nostri amici ed io sarò senza misericordia per te».
Il miserabile prigioniero passò il giorno e la notte seguente tormentato dai morsi della fame e della disperazione; la sua mente ne rimase sconvolta.
Allut, senza pietà, si accorse però che il suo vecchio amico non poteva ormai più ragionare: era una macchina inerte, sensibile ancora al dolore fisico, ma incapace di combatterlo o di vincerlo. Allora fu preso dalla paura che Picaud, morendo, gli impedisse di impossessarsi delle sue ricchezze immense.
Dalla rabbia si precipitò come una bestia feroce su di lui, morsicandolo, cavandogli gli occhi con un coltello acuminato ed infine squartandolo: poi fuggì, si allontanò da Parigi e passò in Inghilterra.
Là nel 1828 si ammalò, si confessò a un prete cattolico francese; pentito delle sue colpe, egli stesso dettò al religioso tutti i particolari di questa terribile storia: ne firmò ogni pagina; poi morì, riconciliato con Dio, e fu sepolto con pietà cristiana.
★ ★ ★
Dopo la sua morte, l’abate P… mandò alla Polizia di Parigi quei preziosi documenti nei quali erano stati descritti i fatti da noi fedelmente riportati in queste pagine.
Fonte: Historia, Numero 3, Luglio 1958