Telmo Pievani, durante il convegno “In un mondo senza Dio” a Genova nel 2011, ha esplorato le basi morali possibili in assenza di presupposti religiosi, evidenziando come l’etica possa radicarsi nella razionalità e nell’esperienza umana. L’incontro, moderato da Raffaele Carcano, si è svolto nell’ambito di un evento internazionale dedicato alle concezioni etiche non confessionali, coorganizzato dall’UAAR e dalla Federazione Umanista Europea.
La presenza umana, frutto di eventi casuali e non di un piano prestabilito, mette in crisi visioni finalistiche che sottraggono all’uomo la responsabilità di creare significato attraverso libertà e ragione. Lungi dall’essere guidata da un disegno divino, l’evoluzione dimostra che la nostra esistenza è parte di un intreccio di contingenze, e accettare questa prospettiva rafforza il valore della nostra unicità. La moralità, dunque, non è un riflesso della natura né un dono trascendente, ma un prodotto culturale che evolve attraverso la riflessione e l’esperienza storica. Distinguere tra i dati naturali e la costruzione di valori morali permette di superare sia il dogmatismo religioso sia il rischio di fondare la morale su presunte regole naturali. In questo quadro, un’etica laica, radicata nella nostra contingenza e nella capacità di immaginare un futuro migliore, diventa non solo possibile ma necessaria per affrontare le complessità del presente con responsabilità e autonomia.
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TELMO PIEVANI: Noi avremo pensato, se siete d’accordo, di organizzare l’incontro così: due brevi interventi mio e del professor Giorello, e poi ripassiamo la parola al nostro moderatore e a voi, per lasciare il più ampio spazio possibile all’interazione e al dibattito insieme.
In questo mio primo intervento, in realtà, non discuterò direttamente di morale. Vorrei sottoporvi una piccola provocazione che riguarda, in qualche modo, anche le mie ricerche più recenti. Parte da un’idea che, in qualche modo, abbiamo potuto tutti sperimentare proprio in queste ore, in questi giorni. In questi giorni di “Santi Subito” e in questi giorni di beatificazioni, ed è quello che io definirei un complesso di inferiorità implicito che c’è in molti laici, o in molti sedicenti laici o non credenti: quelli che sostengono la tesi che io ho sentito, letto sui giornali, in televisione più volte in questi giorni, anche da illustri filosofi nostri colleghi. Per cui: “Sì, noi siamo laici, però guarda com’è messa la sinistra, guarda com’è messa la cultura laica in questo paese. In fondo l’unica grande autorità morale che ci resta, che ci piaccia o no, che ci crediamo o no, è la Chiesa Cattolica.” Lo ha detto Massimo Cacciari l’altro ieri.
Allora, io vorrei contestare questa tesi, e vorrei contestarla innanzitutto per il tipo di atteggiamento che denota: quello di un complesso di inferiorità implicito, di un’autocommiserazione costante del laico, che sembra quasi aver sempre bisogno della delega ad altre autorità, temporali o meno temporali. E lo faccio cercando di raccontarvi brevemente quello che, secondo me, è il vero grande problema legato sia al discorso sulla morale, ma anche più in generale ai rapporti, per esempio, tra la conoscenza scientifica del mondo — che è strettamente legata all’idea di laicità e di democrazia — e altre forme di sapere. E lo farò raccontandovi di un concetto in particolare, su cui ho lavorato di recente, che è quello di contingenza evolutiva o di contingenza storica.
Detto in soldoni, che cosa significa davvero rendersi conto che la presenza umana qui oggi, in questo momento — per me che mi occupo di evoluzione, in particolare, ma non soltanto sui tempi così lunghi, anche sui tempi più recenti — è una presenza contingente, cioè: le cose potevano andare diversamente. Non c’era nessuna necessità che noi fossimo qui in questo momento. Siamo figli di una sequenza di eventi che avrebbero potuto condurre da tutt’altra parte.
Detto in un altro modo: che cosa significa una filosofia della storia alla quale sottraiamo qualsiasi necessità? Cioè: dentro la storia non c’è una filigrana che doveva portare necessariamente qui. La storia poteva andare diversamente. Perché uso questo esempio? Perché, innanzitutto, vorrei sfatare due miti e lanciare poi la palla a Giulio Giorello per una sua riflessione su, in positivo, come può un ateo, un laico, un non credente, un agnostico interpretare la morale e fondare la morale.
Il primo luogo comune che vorrei smontare è quello secondo cui in Italia non esisterebbe il creazionismo. È un altro luogo comune di cui, immagino, avrete sentito dire e parlare su tutti i grandi giornali, quanti grandi quotidiani di questo paese: il ritornello per cui “Non siamo negli Stati Uniti, non ci sono i protestanti battisti radicali, intransigenti, non c’è l’integralismo religioso in questo paese, non c’è la lettura riga per riga, l’interpretazione letterale del testo sacro come contrapposizione rispetto alla scienza e alle conoscenze scientifiche.”
Allora vi faccio leggere soltanto tre righe che sono passate ampiamente sotto traccia. La prima è questa: “La teoria neodarwiniana e l’ipotesi dei molti universi in cosmologia sono state appositamente inventate per evitare la schiacciante evidenza di una finalità e di un disegno riscontrata nella scienza moderna. In tutta risposta, la Chiesa Cattolica difenderà ancora l’umana ragione proclamando che l’immanente disegno evidente nella natura è reale.”
Una frase come questa ha degli aggettivi interessanti, no? Il disegno presente nella natura è immanente, evidente ed è reale. E voglio subito farvi notare questa cosa: se io sto studiando qualcosa che è immanente, evidente, reale e naturale, sto facendo il mestiere di chi? Non del teologo, ma dello scienziato. Chi è che è preposto a studiare ciò che è immanente, naturale, reale, evidente? È la scienza. Non stiamo discutendo di valori, o non stiamo discutendo di significati ultimi, no. Stiamo dicendo che in natura davvero esiste un grande disegno divino provvidenziale.
Questo è l’arcivescovo di Vienna, Christoph Schönborn, il quale sostiene che la teoria dell’evoluzione oggi è morta, è sepolta, e questo è dovuto a gravi obiezioni, le quali sono i missing links, che sono le numerose forme intermedie mancanti che non sono mai state scoperte, e il fatto, udite udite, che finora non è mai stata realmente dimostrata neppure un’unica forma di evoluzione da una specie all’altra.
Anche qui vi faccio notare questa frase. È una frase negativa che dice: “Finora non è mai stata dimostrata neppure un’unica forma di evoluzione da una specie all’altra.” È una classica espressione di negazionismo. Sto negando quello che migliaia di ricercatori in giro per il mondo fanno da 150 anni a questa parte, cioè trovare forme intermedie di evoluzione tra una specie e l’altra. E questo è, di nuovo, il cardinale di Vienna.
Però, se volete, invece, un’altra fonte che non dobbiamo mai dimenticare — perché quando uno scrive una cosa nero su bianco in un libro e poi non la smentisce, secondo me è un’affermazione ex cathedra — è la seguente:
“La teoria dell’evoluzione non è ancora una teoria completa e scientificamente verificata. Inoltre, la teoria dell’evoluzione in gran parte non è affatto dimostrabile per via sperimentale, semplicemente perché noi non possiamo riprodurre in laboratorio 10.000 generazioni. Il che significa che ci sono rilevanti lacune nella verificabilità e nella falsificabilità sperimentale di questa supposta teoria scientifica”.
Le generazioni che si riproducono oggi in laboratorio, lo dico per i non esperti, sono ormai più di 50.000. Ma al di là di questo dato, chi ha fatto questa affermazione di puro negazionismo scientifico — io lo definisco, perché uso proprio questa espressione facendo riferimento ad altre forme ancora più gravi di negazionismo — è l’attuale pontefice, quello attualmente in carica [Papa Benedetto XVI].
Allora, usando i criteri con i quali negli Stati Uniti si definisce il creazionismo, affermare che non esiste l’evoluzione, che non ci sono anelli mancanti, che il neodarwinismo non è una teoria scientifica, tutte queste cose che avete appena detto sono i classici marcatori di una posizione creazionista. Quindi, forse non è così corretto sostenere che in realtà in Italia esiste un tipo di dibattito che non accentua questi temi. Il creazionismo esiste anche in questo paese ed è sostenuto dalle maggiori autorità della principale religione di questo paese.
Naturalmente queste posizioni non sono casuali, ma un filosofo sa che discendono da una certa posizione. Vi ricorderete tutti quando, nel settembre del 2006, ci fu la famosa conferenza di Ratisbona di Papa Ratzinger. Quella conferenza passò alla storia per essere stata una fonte di polemiche con il mondo musulmano, vi ricordate? Sono passati 5 anni, ma insomma… in realtà, se andate a leggere il testo del discorso di Ratisbona, tratta molto marginalmente del problema interreligioso. Il vero tema è il rapporto scienza-fede, e l’evoluzione è uno dei temi portanti di quel discorso di Ratisbona.
E questo riguarda anche la morale, poi ci torneremo su. L’impianto dottrinario di quel discorso è molto chiaro. Dobbiamo ricordarcelo tutti, perché è bene che un filosofo torni sul significato analitico anche dei termini che si usano, cosa che in questo paese non si fa. L’impianto fondamentale di quel discorso — e non ne faccio una caricatura, potete andarlo a leggere — è che esistono due forme di razionalità, cioè esistono due modi per affrontare, diciamo in modo razionale, il mondo che ci circonda da tutti i punti di vista: morale, filosofico, eccetera eccetera.
C’è una morale ristretta, si dice in quel discorso, ed è la morale di coloro che si limitano al mondo naturale. È la razionalità delle scienze naturali. Quindi esiste la ragione ristretta delle scienze, che si dice deve essere autonoma, deve andare per la sua strada, non bisogna interferire. Però è una ragione ristretta, perché poi esiste una ragione più ampia, si dice, che è quella della filosofia e della teologia. Con però un punto fondamentale: solo la ragione più ampia può trattare questioni che riguardano la specie umana e cogliere davvero il senso della natura umana. Non solo, ma c’è una seconda clausola molto importante: nei casi in cui la ragione ristretta contraddice qualcosa che è previsto dalla ragione più ampia, naturalmente prevale la ragione più ampia, e quindi è la ragione ristretta che si deve correggere.
Allora, questo impianto dottrinario non è di poco conto. È un impianto dottrinario che ci fa andare indietro di quattro secoli. Ma questo è materia per gli storici della filosofia. Ma è un impianto in cui, in sostanza, si immagina — e questo è tipico del nostro tempo ed è tipico di molte posizioni esistenti oggi — una scienza che io la definirei sub-specie-teologia. Cioè, la scienza deve essere autonoma, d’accordo, però quanto è buona o cattiva, quanto è accettabile o non accettabile una teoria scientifica, è quella ragione più ampia a deciderlo.
E se volete un esempio molto evidente di questo atteggiamento, che non riguarda l’attuale pontefice ma uno dei suoi principali avversari — perché il secondo luogo comune che voglio sfatare è l’esistenza di una teologia, diciamo così, progressista — io non ci ho mai creduto tanto. Perché più leggo i teologi progressisti, più leggo delle cose altrettanto assurde che loro affermano sul mondo naturale. Leggetevi un libro di un teologo importantissimo, molto autorevole, che è Hans Küng, avversario storico dell’attuale pontefice. Sapete, no? Gli è stata tolta la cattedra di Tubinga. Una storia… poi si sono riconciliati, adesso non ci interessa questo.
Ma se voi leggete uno degli ultimi libri di Küng, che si intitola L’inizio di tutte le cose, è esattamente un esercizio di questo tipo: si prendono diversi campi della scienza, in particolare l’evoluzione e la cosmologia, e si decide quali sono le teorie o le interpretazioni scientifiche corrette dal punto di vista del teologo e quelle che invece sono non accettabili dal punto di vista del teologo.
E questo è interessante, no? Perché è un modo molto ambiguo e molto discutibile di trattare questi temi, che poi, vedrete, riguarda anche direttamente, molto direttamente, anche i temi etici.
Un altro esempio di un collega con il quale mi piace molto dibattere — domani sera Giulio Giorello deve discutere con lui — un teologo noto per le sue posizioni non certo ortodosse, come Vito Mancuso, per esempio, che ha avuto un grande successo editoriale con i suoi testi. Ma se voi leggete il suo impianto filosofico, si basa in gran parte su una interpretazione dell’evoluzione naturale di tipo finalistico, no? Questa idea che la natura è un grande percorso, una sorta di biologia dello spirito, no? Una fisica dello spirito, per cui, nel processo di trasformazione del vivente, si procede verso un Omega, un punto Omega alla Teilhard de Chardin, che è appunto l’elevazione finale.
Quindi, un vedere tutta la storia naturale come un crescere dell’armonia — lui dice dell’equilibrio, della relazione — che ci indica una direzione, un fine. Ecco, questo è interessante. Su questo chiudo in pochi minuti, perché ho notato un fatto interessante: sia nelle posizioni, diciamo, più intransigenti del creazionismo americano, sia nel finto non creazionismo italiano che vi ho raccontato prima, sia in queste posizioni teologiche cosiddette eterodosse, che poi in realtà secondo me non lo sono tanto, c’è un filo comune in tutte quante. C’è, pur nei loro dissensi, un elemento che hanno tutti in comune: il richiamarsi a una visione finalistica del mondo, il richiamarsi al fatto che la storia che ci ha portato fin qui non ci ha portato fin qui per motivi contingenti, ma c’era una ragione fin dall’inizio perché si arrivasse fin qui.
Mancuso, Küng, l’attuale pontefice… quante volte, addirittura — l’avete notato nel discorso del primo giorno di inizio di questo pontificato — abbiamo sentito dire che “noi non possiamo essere figli del caso.” È una sorta di ossessione teorica: “Noi non possiamo essere figli solo dell’evoluzione, solo di una storia contingente, perché se pensiamo questo non possiamo fondare un’etica, non possiamo fondare la morale.” Addirittura, un’affermazione che io trovo molto grave: “Non possiamo nemmeno considerare davvero il senso della dignità umana.”
Quindi, se noi crediamo nell’evoluzione come un processo non direzionato, non possiamo fondare la dignità umana. E poi ci si lamenta — apro la parentesi e la chiudo — e si alzano le penne tutte le volte che qualcuno fa un’affermazione minimamente offensiva nei confronti di una religione, ma non si tiene mai conto del fatto che una frase di questo tipo significa che tu stai dicendo che uno che crede semplicemente nel fatto che siamo figli di una storia contingente… tu gli stai dicendo che, sul piano filosofico, lui non è capace di fondare ciò che è basilare per qualsiasi convivenza umana, cioè il senso della dignità umana. Gli stai dicendo questo.
Questo non è un argomento filosofico, è una squalifica morale a priori. Tu stai dicendo che il tuo interlocutore non ha gli strumenti per capire cos’è la dignità umana. Non è un’affermazione da poco, naturalmente. Però, guarda caso, passa su tutti i telegiornali senza alcun tipo di contraddittorio, senza alcun tipo di dibattito. È il rumore di fondo che entra nelle nostre case: “Non possiamo essere figli di una storia evolutiva che ci ha portato qui per motivi contingenti ed esclusivamente naturali.”
Perché mi soffermo su questa questione del finalismo? Perché, secondo me — prima si citava gentilmente Nati per credere — in tutte queste posizioni c’è un nocciolo duro che è sempre lo stesso: il finalismo, il ricorrere all’idea che la storia avesse fin dall’inizio dentro una filigrana di necessità, una logica che doveva portare fin qui, a noi, a Homo sapiens, a una specie intelligente, a una specie capace di produrre senso morale e giudizio morale sui propri comportamenti.
Secondo me, l’ipotesi su cui abbiamo lavorato per qualche anno e sulla quale stiamo ancora lavorando un po’ con altri scienziati, come Giorgio Vallortigara, Vittorio Girotto, e non è assolutamente una giustificazione — poi ci tornerò su. Oggi ci sono dati che provengono da discipline molto diverse fra di loro, e questo è significativo: dalla psicologia del pensiero, dalla psicologia dello sviluppo, dall’antropologia cognitiva, dalle neuroscienze, dall’evoluzionismo, e così via. Tutti quanti convergono nel dirci che la nostra mente, la nostra mente umana, ha delle peculiarità.
E una di queste peculiarità, oltre a quella di essere molto brava nel leggere nella mente altrui — capacità di lettura intersoggettiva, e così via — ma ce n’è una in particolare che è molto forte, che è quella che viene chiamata la teleologia promisqua, che è una parola difficile per dire che cosa? Che noi siamo degli straordinari identificatori di motivazioni, di finalità, nell’altro da noi. Quindi, del nostro compagno o potenziale nemico in un contesto sociale, ma anche nella realtà.
Moltissimi studi, ormai in tantissimi campi diversi, ci dicono che la nostra è una mente alla quale piace tanto pensare attraverso storie necessarie. E posti di fronte a due alternative esplicative — una spiegazione scientifica basata su meccanismi, contingenza, caso, e un’altra invece basata su finalità, presupposti, intenzioni, disegni — noi decisamente preferiamo, intuitivamente e addirittura emotivamente, la seconda.
Non soltanto, quindi, come abbiamo sempre pensato, perché è più consolatoria, perché dà più senso alla nostra presenza, ma proprio perché è una sorta di vincolo cognitivo molto profondo che noi ci portiamo dietro. Quindi siamo, in qualche modo, propensi a pensare più facilmente certe cose che non altre. Il che non implica affatto che allora siamo obbligati a pensare in un certo modo. No, significa soltanto che abbiamo una certa propensione, figlia della storia evolutiva, che ci porta a sviluppare certi sistemi di credenze anziché altri, sapendo che tutti abbiamo sistemi di credenze, tutti quanti. Soltanto che alcuni hanno molto più successo di altri, perché, potremmo dire alla Dennett, si adattano molto meglio ai nostri cervelli.
Allora, se le cose stanno così — e finisco e passo la parola a Giulio — allora vuol dire che, in qualche modo, la rivoluzione darwiniana, quello che Darwin un secolo e mezzo fa ci ha comunicato, ci ha spiegato e ha scoperto, sfida qualcosa che è molto di più che non la reazione clericale o la reazione in qualche modo puramente religiosa. Sfida probabilmente dei modi di pensare che sono profondamente radicati nella nostra storia evolutiva, nel nostro modo di pensare.
E questo spiega perché gran parte della scienza, non soltanto in ambito evoluzionistico ma anche in ambito fisico, è controintuitiva, cioè sfida il nostro senso comune. Non soltanto per il linguaggio che usa, quindi come abbiamo sempre pensato, ma forse anche perché sfida delle idee che non ci piacciono da pensare, che ci propone delle idee che ci piacciono di meno da pensare e mette in discussione delle idee che ci sono sempre piaciute un sacco da pensare. Fra queste c’è la contingenza evolutiva.
Vi ricordate? Darwin fu sempre molto netto da questo punto di vista. Quando lui finisce la sua vita, diciamo, negli ultimi 15 anni — è un vegliardo noto in tutto il mondo, è uscito con L’origine dell’uomo — molti gli scrivono delle lettere per stanarlo. Per chiedergli: “Ma insomma, ma tu come la pensi sul mondo, su Dio? Esiste, non esiste? Cosa sei tu, che posizione hai? Alla luce di tutte le tue scoperte, tutto quello che hai fatto, dicci, dacci una parola ultimativa, no, sul senso della nostra presenza qua.”
Lui si tirava sempre molto indietro, era sempre molto reticente su questi temi, si definiva un agnostico di principio. Poi però, in una lettera molto bella, dice: “Ma in fondo mi considero agnostico anche rispetto al mio stesso agnosticismo, quindi non lo so. Chiedimelo ancora un’altra volta, non lo so.” Giocava molto su questo schermirsi. Tranne che su un tema, sul quale era nettissimo. Quando gli chiedevano, in tutte le lettere private che voi potete leggere: “Ma secondo lei c’è ancora qualche speranza di poter trovare nell’evoluzione che lei ci ha insegnato a leggere un fine, una direzione? Come la pensa?” E lì lui era sempre nettissimo e diceva: “No, rimanete pure con le vostre credenze, i miei libri non parlano di teologia, ma su una cosa io sono sicuro, e dovete tenerlo presente, anche se sarà una lunga battaglia,” dice, “e ci vorranno secoli per rendersene conto, ma su una cosa sono sicuro: quello che noi vediamo della natura è che la presenza umana è quella di un piccolo ramoscello marginale, periferico, che non ha affatto determinato il processo evolutivo stesso. Noi siamo figli di una storia non casuale, ma contingente, cioè imprevedibile, che avrebbe potuto prendere altre direzioni. Ha preso questa, ma non c’era nessuna necessità che andasse così la storia.”
E lui capisce benissimo che questo è il punto fondamentale della questione, sia nel riguardo al modo con cui noi possiamo fondare il senso morale. Perché è chiaro che, se noi accettiamo finalmente questo, si sposta molto il discorso. E torno su — e uso apposta questo termine — non ci dobbiamo inventare niente di nuovo: dobbiamo semplicemente rivalutare una gloriosissima tradizione filosofica che porta i nomi di Epicuro, che porta i nomi di Lucrezio, che porta i nomi di Spinoza, ma se volete anche di Leopardi o di David Hume. È una meravigliosa parte della storia del pensiero moderno, ovvero provare a fondare un senso morale, addirittura un’idea di libertà, senza delegarla a un principio trascendente, senza delegarla a un’autorità esterna, giocando sui due grandi temi della libertà e della responsabilità.
Allora, perché tutto questo c’entra con la scienza e con Nati per credere? Perché allora forse oggi, che siamo nel 2011, e sappiamo molte più cose di quelle che sapeva Darwin, non è che la storia è andata in un altro senso, no: gli ha dato ampiamente ragione. Noi abbiamo corretto Darwin da tanti punti di vista, dove si era sbagliato, ma su un punto abbiamo rafforzato moltissimo questa sua idea: noi oggi sappiamo che il processo evolutivo è stato profondamente influenzato da fenomeni casuali e contingenti a tutti i livelli in cui noi lo analizziamo.
E quindi questo, mi rendo conto, è un problema. È un problema per qualcuno, è meno un problema per altri. Quello che io rivendico è però che io credo in un buon dibattito pubblico. Io non penso che la filosofia, la teologia debbano essere annullate e assimilate al pensiero scientifico. Questa è una posizione scientista che non mi appartiene. Io penso che la filosofia, per esempio, debba godere di una sua autonomia metodologica, di una sua indipendenza, perché la riflessione sullo spazio delle ragioni, sui giudizi morali, non può essere semplicemente assorbita dalla scienza. Però credo debba valere un principio fondamentale, che è quello del naturalismo filosofico, ovvero: non può esistere una buona filosofia che neghi i risultati dell’impresa scientifica. Non può esistere nessuna buona posizione filosofica che ostentatamente rinneghi, neghi o ignori ciò che la scienza ci dice.
Poi, la filosofia è autonoma, ma la conoscenza sul mondo naturale, su come va la realtà là fuori, è un vincolo fondamentale per una buona posizione filosofica, che poi può essere delle più diverse.
E allora, questo principio è ampiamente disatteso in questo paese, e continuiamo a sentire filosofi credenti, cattolici, non credenti, laici, con questo perenne complesso di inferiorità, che non sono capaci di provare a lavorare in modo del tutto autonomo, senza nessun complesso di inferiorità nei confronti di posizioni filosofiche forti, che pretendono di poggiarsi su una roccia che in realtà nasconde, secondo me, sotto di sé l’argilla.
E invece sono convinti di delegare a queste autorità il loro pensiero, anziché fondarlo autonomamente. Allora, in questo libro che citava gentilmente Raffaele Carcano prima, io provo a ragionare su questo: che tipo di filosofia è una filosofia che onestamente accetta quello che ci dice la scienza oggi sull’evoluzione? Davvero perdiamo il senso della storia?
Ecco, io voglio sostenere esattamente il contrario: è solo, addirittura, attraverso la contingenza che noi apprezziamo la nostra presenza qua. Perché, se noi siamo qui in virtù di un disegno che fin dall’inizio ci prevedeva, noi non abbiamo nessun ruolo in questa storia: siamo la pedina di altre logiche.
Se invece siamo qui proprio perché è andata così e non altrimenti, e proprio perché in molte occasioni avrebbe potuto andare diversamente — provate a pensarci su — beh, la nostra presenza qui diventa molto preziosa, diventa un evento che, nella sua improbabilità, è un evento di straordinario valore che dovremmo cercare di giocarci nel modo più intelligente possibile.
Come vedete, si può iniziare un discorso filosofico accettando la contingenza e, addirittura, secondo me, fondando sistemi morali basati su libertà, responsabilità e solidarietà che sono ben più solidi di sistemi morali che si basano su un postulato iniziale — che è un “si dice”, “qualcuno ha detto che”, “si fa così.” Io penso che sia anche per insegnare alle future generazioni un modo più consono alla nostra particolarità di specie sapiens il primo atteggiamento, e non il secondo.
[…]
Questa affermazione che tu citavi di de Waal racconta una storia, sul piano scientifico, molto interessante. Che cosa sta succedendo? Che un vecchio paradigma evoluzionistico, che era tutto centrato su una parziale interpretazione dell’idea darwiniana di competizione, di selezione, in sostanza vedeva come motore fondamentale dell’evoluzione il gioco egoistico dei singoli individui all’interno dei contesti in cui nascono e vivono e si fanno portatori di varianti genetiche.
Oggi questa visione, così gladiatoria — mettiamola così — dell’evoluzione è ampiamente superata, perché ci siamo accorti, come già Darwin stesso peraltro suggerì in alcuni passaggi — lui era, come al solito, molto più pluralista e flessibile di alcuni suoi epigoni. Ma questo nella storia succede sempre. Lui, per esempio, era in controtendenza, perché era convinto che la specie umana fosse più imparentata con gli scimpanzé che non con i gorilla. Qualcuno di voi forse conosce questo dibattito. Si è sempre pensato che i nostri cugini primi fossero i gorilla. Invece lui diceva: “No, sono gli scimpanzé.” E il motivo per cui diceva questo non erano delle prove scientifiche, che non c’erano allora, ma il fatto che gli scimpanzé sono molto più cooperativi, solidali e hanno maggiore capacità di empatia. E lui diceva: “È chiaro che noi esseri umani siamo più imparentati con loro che non con il gorilla.”
A parte che poi lo stereotipo del gorilla aggressivo e bestiale è totalmente infondato, naturalmente. Quello che de Waal ci ha insegnato è che, per dirla molto semplicemente, anche i fattori cooperativi di empatia, di intersoggettività, di coesione sociale nell’evoluzione sono stati fondamentali.
C’è però un rischio in molti di questi dibattiti, che poi vengono ereditati dai filosofi e portati nel dibattito pubblico. Cioè, noi possiamo interpretare questi due corni del dilemma in un modo, come dire, etico, che secondo me sarebbe molto sbagliato. Pensate a tutte le volte in cui, appunto, filosofi di una certa tendenza ci dicono: “Ah, vabbè, ma il darwinismo ci consegna a una logica e a un’etica della sopraffazione, no? Del più forte sul più debole.”
Leggete l’Origine delle specie in inglese, oppure andate su Internet: c’è tutto il testo. Fate una ricerca con la stringa “sopravvivenza del più forte” e non compare mai. Mai. Nell’opera di Darwin non esiste questa idea che l’evoluzione sia la sopravvivenza del più forte. È un’interpretazione del darwinismo sociale, che è venuta dopo.
Da cosa deriva questo errore? Deriva dall’interpretare in modo parziale una visione scientifica e partire dalla natura per fondare, in modo negativo, una visione morale alternativa. Quindi: “La natura è brutta e cattiva, noi invece siamo quelli che, in virtù di una credenza in entità sovrannaturali, abbiamo capito che dobbiamo andare contro la natura.”
Attenzione però, perché si può fare anche l’errore esattamente speculare, cioè dire: “Siccome in natura c’è molta cooperazione, molta solidarietà, allora noi fondiamo i valori di solidarietà sulla base di una storia naturale.” Anche questo è rischioso, perché ci porta a sottovalutare il fatto che la natura è piena — ed è vero — di sofferenza, di ingiustizia, di crudeltà, e soprattutto di ineguaglianza e di ingiustizia reale. Non succedono le cose giuste in natura.
Allora, secondo me, il modo corretto per uscirne — e so che può sembrare strano, ma è l’unica strada, come dire, laicamente che io vedo — è quella di, come Hume ci ha insegnato, smetterla di cercare nella natura un fondamento biologico deterministico naturalistico dei giudizi morali che noi vogliamo formare.
La natura noi dobbiamo osservarla, capire che cosa è successo, capire come è stato possibile che sul piano biologico e naturale noi siamo diventati una specie capace di giudizi morali. Ma poi il singolo giudizio morale è frutto di un’evoluzione culturale, di una nostra capacità di elaborazione autonoma.
Questo che cosa vuol dire? Allora vuol dire che si apre, come dicono alcuni, una nuova dimensione non naturale? Questo è il grande fraintendimento: non c’è niente di innaturale in tutto ciò. Darwin lo ha detto una volta, nell’Origine delle specie e nell’Origine dell’uomo. Se voi leggete l’ultima frase, lui dice, e lascia questo in eredità: “Noi, che abbiamo così umili origini animali, abbiamo avuto la capacità di grande innovazione intellettuale.” Non c’è niente di… non c’è nessun salto ontologico in questa storia, perché lui dice: “L’evoluzione produce novità e noi, come tutti gli altri, siamo una specie portatrice delle nostre caratteristiche peculiari, fra le quali quelle di essere capaci di riflettere in un modo ricorsivo sui propri comportamenti e formulare dei giudizi morali.”
Quindi questa è una buona chiave di lettura, no? Perché ti tira fuori sia da certi determinismi facili facili, che vediamo spesso, sia invece da posizioni sovrannaturalistiche. È una forma di naturalismo che ti permette di apprezzare la nostra origine naturale ma anche la nostra novità, la nostra particolarità, che non ha niente di trascendente ma è un elemento storico, una contingenza evolutiva che, attraverso una serie di passaggi di eventi, ci ha fatto essere quelli che siamo.
Quindi, come vedi, è un naturalismo non ingenuo, ma è un naturalismo pluralista, si dice, dove si analizzano gli aspetti naturali e culturali della nostra specie.
[…]
DOMANDA #1: Come intende fondare giudizi morali?
TELMO PIEVANI: Io li fonderei come abbiamo fondato la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Li fonderei come abbiamo scritto, a un certo punto, la Costituzione italiana. Non abbiamo fatto riferimento a beni assoluti, né a beni naturali. Persone dotate di ragionevolezza, di ragione e dotate di un’esperienza storica antifascista hanno scritto una bellissima Costituzione. Quindi non c’è bisogno né di un fondamento assoluto né di un fondamento naturale per mettersi insieme e decidere delle regole di convivenza che sono un risultato altissimo della nostra evoluzione culturale.
DOMANDA #2: You mentioned the Universal Declaration, but then we are speaking about legal laws, about juridical laws, juridical rights, legal rights. So my question would be, what do you think, do also moral rights exist, and if so, how can you ground them, how can you found them? So I’m not speaking about the Universal Declaration, not about international conventions, but there was a time that those documents did not exist. Nevertheless, it was spoken about moral rights. For instance, John Locke spoke about moral rights. So my question is, do you think they exist, and what is the foundation, without God, of those rights?
[tr.: Lei ha menzionato la Dichiarazione Universale, ma poi stiamo parlando di leggi legali, di leggi giuridiche, di diritti giuridici, diritti legali. Quindi la mia domanda sarebbe: pensa che esistano anche diritti morali? E, se sì, come possono essere fondati, su quale base possono essere costruiti? Non sto parlando della Dichiarazione Universale, né delle convenzioni internazionali, ma c’è stato un tempo in cui quei documenti non esistevano. Eppure si parlava di diritti morali. Ad esempio, John Locke parlava di diritti morali. Dunque, la mia domanda è: lei pensa che esistano? E quale sarebbe il loro fondamento, senza ricorrere a Dio?]
TELMO PIEVANI: Capisco benissimo il punto di fondare dei diritti morali su una base legale più forte. Lei citava John Locke, naturalmente. Io mi rendo perfettamente conto che questo è un compito più difficile di quell’altro. Io mi rifarei qui a, come dire, aggiungerei uno strumento in più, che è quello di una razionalità fallibile. Mi rendo conto che è molto meno soddisfacente che non fondare una volta per tutte un diritto morale valido per tutti, perché naturalmente è anche molto rischioso imporre quello che noi, per esempio occidentali, consideriamo un diritto morale rispetto ad altre culture.
Però io non credo affatto che questo debba portarci in una sorta di relativismo culturale. Io penso che sia possibile, lavorando insieme, usando la ragionevolezza e usando anche il senso della fallibilità dei nostri tentativi, quindi imparando dalla storia, anche stabilire dei diritti morali validi per tutti. Con moltissime però cautele in più rispetto a quelli che abbiamo sempre definito dei diritti naturali, che infatti non vengono più definiti così proprio perché avevano l’aggettivo “naturali”, e li chiamiamo diritti umani.
Faccio soltanto un piccolo esempio di un caso in cui potremmo metterci d’accordo: se la scienza ci fa vedere, per esempio, che il concetto stesso di razza umana non esiste — cioè che quelle che abbiamo sempre chiamato, nella scienza stessa, razze umane, ci siamo sbagliati: non esistono, non hanno nessun fondamento biologico né genetico, non c’è nessun discriminante che tecnicamente, sul piano scientifico, ci permette di separarle — beh, lì, per esempio, potremmo metterci d’accordo che è infondato fare qualsiasi tipo di affermazione che si basi su argomenti fondati su presunte distinzioni tra razze umane.
E guardate che non è una cosa da poco, perché le razze umane noi decidiamo che non esistono perché scopriamo che non esistono in natura, ma sono profondamente radicate nella nostra mente. La nostra mente è una mente tipologica, che ha bisogno di dividere: me/noi/altro da noi/noi/diverso da noi. Guardate il dibattito politico che c’è in molti paesi, compreso il nostro. Quindi quello, per esempio, è un caso in cui potremmo lavorare insieme a partire da un dato scientifico e prendere una decisione universalista — che è una parola che non si usa più perché è considerata quasi una bestemmia. E secondo me, invece, se la reintroducessimo, non sarebbe poi così male.
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DOMANDA #3: Più che una domanda chiedo una considerazione del professor Pievani su una mia convinzione con una premessa: sono saldamente e felicemente ateo. Perché la domanda potrebbe creare qualche… potrebbe essere equivocata. La convinzione è che, nel percorso dell’umanità, una sorta — forse uso impropriamente la parola “finalismo” — ma una sorta di finalismo io lo vedo nella regola che va avanti ciò che funziona meglio. Se fosse così, e ci trovassimo d’accordo su questa convinzione, dovremmo anche convenire che il pensiero religioso ha funzionato meglio, e forse sta funzionando meglio ancora. Questo lo metto anche in relazione alla popolosità dell’umanità, soprattutto la popolosità in pochissimo tempo: è pronta tutta questa gente a un pensiero ateo?
TELMO PIEVANI: Capisco il punto, però non sono d’accordo sul presupposto, cioè l’idea che nella storia abbia avuto successo quello che ha funzionato. Sì, però dipende sempre dal contesto in cui lei lo analizza. Darwin, per esempio, diceva: attenzione, sopravvivenza del più adatto non vuol dire affatto che sopravvive il migliore, nemmeno quello più efficiente e nemmeno quello più funzionale. “Più adatto” in un contesto significa che qualcuno ha trovato una soluzione che, in un certo contesto mutevole, gli ha permesso di riprodursi leggermente di più di altri.
Quindi si immagini lei che visione, come dire, priva di qualsiasi indicazione di progresso c’è alla radice del pensiero evoluzionistico. Quindi state bene attenti a pensare che l’evoluzione sia un susseguirsi di miglioramenti dove vince sempre quello che ha funzionato meglio. Basta che guardiate la biodiversità attuale. Noi siamo antropocentrici inevitabilmente, quindi pensiamo alla complessità nostra, ma un extraterrestre che fosse privo dei nostri preconcetti vedesse la Terra e gli dicessero: “Ma l’evoluzione in quale direzione è andata?” Come disse una volta il grande biologo inglese di origini scozzesi, J.B.S. Haldane, disse una volta: un teologo gli chiese: “Ma lei, lo so che non ci crede, lei è ateo. Però, se dovesse descrivermi come lei si immagina Dio, quali caratteristiche ha Dio?”
E Haldane gli rispose: “Guardi, l’unica cosa che posso dire è che ha una smodata predilezione per i coleotteri.”
Perché rispose in questo modo? Perché aveva lo sguardo di uno che, osservando quello che è successo… qual è il grande successo sulla Terra? Sono gli insetti. Oppure, se arrivasse oggi, Haldane non lo poteva sapere, ma oggi risponderebbe: “Ha una smodata predilezione per batteri e archeobatteri,” che sono i veri dominatori di questo pianeta.
Quindi attenzione ad osservare l’evoluzione come una storia di progresso o di miglioramento: è una storia dove ha prevalso, in un contesto, quello che se l’è cavata un pochino meglio di altri. E ricordiamoci sempre che, se dovete associare proprio una metafora all’evoluzione, non è un ingegnere che ottimizza pezzo per pezzo una macchina perfetta, senza gioco, senza ridondanza. L’evoluzione è un bricoler un po’ pasticcione che mette insieme le cose e fa una cosa intelligente, però riusa sempre quello che ha a disposizione.
Se la guardate così, chiaramente il messaggio diventa ancora più radicale rispetto a quello che vi dicevo prima: noi siamo figli di un bricolage che ha avuto successo, per ora.
E ricordiamoci un’altra cosa che diceva sempre uno dei miei maestri americani, che è Stephen Jay Gould. Lui diceva sempre: “Il progresso si misura sempre a posteriori,” cioè quanto ha avuto successo una specie lo giudica sempre un’altra specie quando la prima si è estinta. Quindi lasciamo che il nostro progresso lo giudichi una specie quando noi ci saremo estinti, cioè quando il nostro progresso sarà stato smentito dai fatti.
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DOMANDA #4: Una domanda molto semplice. Io sono venuta qua per ascoltare delle tesi sull’ateismo, delle tesi atee. Mi sono accorta però che sono stati costanti i riferimenti a delle dottrine religiose e a delle teologie. Leggo nel programma: “Un mondo senza Dio” e “La nostra morale non viene da Dio”, però poi ho sentito che voi Dio lo nominate più di quanto lo possa sentire magari in una riunione parrocchiale.
E quindi vorrei… cioè sembra quasi che voi abbiate bisogno di una controparte per potervi affermare, cioè che questa controparte sia necessaria, perché ne fate un riferimento costante. Ecco. Non è critica la mia domanda, davvero, è sincera.
E un’altra cosa volevo dire… mi permetto di dissentire con un’affermazione che è stata fatta. Quanto aiutano concretamente le persone che credono, no? Qualcuno ha detto… beh, a me viene in mente il volontariato. Ecco, il volontariato, che fa tanto di concreto. E io penso che di persone credenti là ce ne siano.
RAFFAELE CARCANO: Posso fare una premessa dicendo comunque che proprio di volontariato non confessionale parleremo domenica mattina, cioè di etica della responsabilità. Facendo comunque presente che, in Italia, le associazioni di volontariato laico sono più numerose delle associazioni di volontariato non confessionale. Questo, su statistiche del ministero. Poi so che comunque la vulgata è diversa, ma comunque il volontariato laico… anzi, si può dire — qui parla un po’ chi ha fatto qualche studio di storia — che il volontariato cattolico nasce, paradossalmente in Italia, quello organizzato, dopo il volontariato laico. Cioè sono state prima le società di mutuo soccorso laiche a ispirare poi, successivamente, le associazioni di volontariato cattoliche.
Sull’osservazione che si parla molto di… a parte, non mi sembra che si sia parlato poi tanto di Dio, eh, o di dottrine… Giulio puoi… se no non si sente nulla, non si sente… ma io lascio la parola a Giulio subito. Sì, come riferimento… io sono… come riferimento e come controparte dialettica, diciamo così.
TELMO PIEVANI: Guardi, la mia… personalmente io sono molto d’accordo con lei, nel senso che riguardo al volontariato, io, indipendentemente da quante siano più quelle laiche o quelle religiose, il mio punto di vista è molto liberale. Nel senso che chiunque fa volontariato, indipendentemente dalle motivazioni per cui lo fa, è un mio amico, e va benissimo, e sono pronto a collaborare in ogni modo. Questo è il mio atteggiamento, e mi capita realmente di farlo, anche da punti di vista religiosi.
Per quanto riguarda l’aspetto del citare continuamente la controparte, lei ha ragione. Infatti, nell’esercizio che noi abbiamo fatto con Nati per credere è interessante questo aspetto, perché ci abbiamo lavorato molto.
Dire che noi, per esempio, siamo nati per credere e scoprire che noi abbiamo evoluto certi tipi di propensioni è del tutto indipendente dall’oggetto della credenza. È del tutto indipendente poi da qual è l’oggetto specifico, l’obiettivo della mia credenza. Io posso credere in Dio, posso avere dei sistemi di credenze. Tant’è vero che abbiamo fatto un esempio per far vedere che il sistema di credenze non è una cosa o buona o cattiva: ce li abbiamo tutti. Poi è buono o cattivo l’uso che noi ne facciamo.
Ma, per esempio, ci sono stati nella storia dei momenti gloriosi di, come dire, conquista di civiltà dovuti al fatto che delle persone hanno creduto, spesso in modo del tutto irrazionale, al fatto che avrebbero raggiunto un certo obiettivo. Uno che se ne sta in galera per 30 anni e crede, per 30 anni, che lui abbatterà un regime razzista… se non è credenza quella! Ci ha creduto, caspita se ci ha creduto! Quello è un classico sistema di credenze, perché non hai la certezza dell’obiettivo, non hai prove scientifiche che ce la farai, non hai per le mani niente che ti dica che tu hai la possibilità davvero di raggiungere quell’obiettivo. Ma ci credi.
Quello è un classico sistema di credenze, ed è una cosa meravigliosa, una delle cose più gloriose che io riesco a pensare. Ed è frutto di un sistema di credenze.
Le do ragione, nel senso che il nostro punto di vista, anche sulla credenza, non è ossessionato poi dall’oggetto — Dio o non Dio — ma ci siamo concentrati scientificamente sul perché noi crediamo e come funzionano i sistemi di credenza.