Che cos’è il linguaggio?

Il linguaggio è la capacità umana di comunicare attraverso un sistema strutturato, unico per discretezza, ricorsività e dipendenza dalla struttura.

La linguistica è lo studio scientifico del linguaggio umano. In questo capitolo si spiega cosa si intende con «studio scientifico» e si presentano alcune caratteristiche proprie del linguaggio umano: la discretezza, la ricorsività e la dipendenza dalla struttura. Gli altri sistemi di comunicazione comunemente chiamati «linguaggi» mostrano di non possedere queste tre proprietà, o almeno di non possederle tutte. Il linguaggio umano è quindi una caratteristica propria della specie.

1. LA LINGUISTICA, IL «LINGUAGGIO» E I «LINGUAGGI»

Probabilmente la maggior parte di noi non ha un’idea molto chiara di che cosa sia la «linguistica», e questa parola suona abbastanza strana, confinata all’uso di pochi specialisti. Se a un uomo di cultura media viene chiesto che cosa ritiene sia l’oggetto di questa disciplina, risponderà nella maggior parte dei casi che essa «insegna le regole dello scrivere e del parlare correttamente»: per esempio, che in italiano non si deve dire a me mi (anche se quasi tutti lo diciamo). Lo studioso di linguistica, di fronte a una simile definizione, reagisce sdegnosamente, dicendo che essa esprime una concezione normativa della linguistica, mentre la linguistica è in realtà una disciplina descrittiva, o più esattamente «lo studio scientifico del linguaggio». Ma che significa «studio scientifico»? E in che cosa consiste la differenza tra una concezione «normativa» e una «descrittiva» della linguistica? E, in primo luogo, che cos’è il linguaggio?

A differenza di «linguistica», la parola «linguaggio» suona, per la maggior parte di noi, familiare: tutti sappiamo di possedere e usare un «linguaggio», che chiameremo linguaggio naturale. Tuttavia, si parla anche abitualmente di «linguaggio degli animali», di «linguaggio dei computer», abbastanza frequentemente di «linguaggio dei gesti», «linguaggio dell’arte», «linguaggio dei media», ecc., e, a volte, di «linguaggio delle immagini», «linguaggio dei fiori», e così via. Tuttavia, un attimo di riflessione ci fa immediatamente domandare: tutti questi «linguaggi» (il linguaggio naturale, che usiamo quotidianamente per comunicare, quello dei computer, o quello dell’arte, e così via) sono la stessa cosa, oppure sono diversi? E, se sono diversi, perché li chiamiamo tutti «linguaggi»?

Cominciamo da quest’ultimo punto. Tutti i linguaggi di cui abbiamo appena parlato e molti altri assieme a loro hanno certamente un elemento in comune: sono tutti sistemi di comunicazione, servono cioè a trasmettere informazioni da un individuo, che possiamo chiamare emittente, ad un altro, che possiamo chiamare ricevente (o destinatario). Se, per esempio, voglio comunicare a qualcuno di non passare per un determinato luogo, posso dirgli Fermati! (e in questo caso ho fatto uso di un’espressione del linguaggio naturale), oppure alzare il palmo della mano aperta e mostrarglielo (e in questo caso ho fatto uso del linguaggio gestuale). Un programmatore che vuole «dialogare» con un computer per realizzare un determinato programma userà un determinato tipo di «linguaggio» (per esempio, il basic). Per quanto riguarda i sistemi di comunicazione animali, si sa ad esempio che le api, con i loro vari tipi di «danza», comunicano alle loro compagne la distanza di una determinata fonte di cibo e la direzione esatta da seguire per raggiungerla; oppure che varie specie di uccelli fanno uso di determinati canti o richiami per comunicare, ad esempio, la presenza di predatori, o il desiderio di accoppiarsi.

Tuttavia, una volta chiarito che tutti i vari tipi di «linguaggio» realizzano una qualche forma di comunicazione, questo non è sufficiente per considerarli manifestazioni di un unico sistema: infatti bisogna determinare se questi diversi sistemi di comunicazione sono costruiti in base agli stessi principi, oppure no. In altre parole, anche se avessimo dimostrato (cosa che in realtà non abbiamo fatto, perché ci siamo fondati semplicemente sull’intuizione e il buon senso) che tutti i vari «linguaggi» sono identici nella loro funzione (ossia quella di permettere la comunicazione), non abbiamo detto nulla che dimostri che essi sono identici anche nella loro struttura. Ebbene, la riflessione sul linguaggio naturale (o umano; d’ora in poi useremo indifferentemente l’uno o l’altro di questi termini) condotta nell’ultimo mezzo secolo propende largamente per considerare la sua struttura come largamente specifica, e quindi molto diversa sia dai «linguaggi» animali, sia dai «linguaggi» dei computer, e così via. Inoltre, si sostiene che solo la specie umana ha la capacità di acquisire il linguaggio umano, e che neppure le specie animali più vicine all’uomo in termini evolutivi, come le scimmie antropoidi (per es. il gorilla, o lo scimpanzé), sono in grado di acquisire tale linguaggio, se non in forma estremamente impoverita. Questo non significa, ovviamente, che queste scimmie non abbiano un loro «linguaggio» (anzi ce l’hanno sicuramente), ma che esso manifesta delle caratteristiche strutturali essenzialmente diverse da quelle del linguaggio umano. Possiamo quindi introdurre già una modifica parziale della definizione di «linguistica» che abbiamo dato sopra, e dire che la linguistica è lo studio scientifico del linguaggio umano.

Cosa si intende con «studio scientifico»? Il tipo di metodologia e di analisi dei problemi che caratterizza qualunque scienza. Sinteticamente, potremmo definire le caratteristiche proprie di questa metodologia e di questa analisi come: 1) la formulazione di ipotesi generali che rendano ragione di una molteplicità di fatti particolari; 2) la formulazione di tali ipotesi in modo chiaro e controllabile. In generale, il punto 1) si riferisce al fatto che qualunque scienza (la fisica, la chimica, la biologia, ecc.) si trova di fronte a una grande quantità di fenomeni diversi: corpi che si muovono nello spazio, sostanze che si combinano, specie che mutano, ecc. Una scienza formula ipotesi che intendono ricondurre a leggi generali questa molteplicità di fenomeni particolari: per esempio, la legge della gravitazione universale, che dice che i corpi si attraggono in proporzione diretta alla loro massa e in proporzione inversa al quadrato della loro distanza, spiega il movimento di tutti i corpi celesti e il fenomeno della gravità. Il punto 2) definisce la caratteristica propria che il discorso scientifico deve avere: essere formulato in termini definiti in modo esplicito e fondarsi su esperimenti ripetibili; solo il rispetto di questi criteri permette il «controllo pubblico» della validità dei risultati raggiunti da un determinato scienziato. Se questa chiarezza di metodo e questa ripetibilità degli esperimenti mancassero, sarebbe impossibile dire se i risultati che uno scienziato asserisce di aver raggiunto sono autentici oppure frutto di imbroglio o di millanteria.

Quanto appena detto per la scienza in generale si applica anche alla linguistica. Anche questa disciplina si trova di fronte a una molteplicità pressoché infinita di fatti: per fare solo un esempio, possiamo pensare al numero in pratica infinito di frasi e discorsi pronunciati (e a volte anche scritti) ogni giorno da tutti i parlanti di tutte le lingue. Ricondurre questa molteplicità di fatti ad alcune leggi generali che governano l’organizzazione e la struttura del linguaggio umano, cioè formulare ipotesi generali sulla struttura del linguaggio, è quindi il compito della linguistica come studio scientifico del linguaggio. E, come accade per ogni altra scienza, la formulazione di queste ipotesi deve essere fatta ricorrendo a una terminologia tecnica definita in modo preciso, le osservazioni svolte su determinati fenomeni devono poter essere ripetibili, in condizioni analoghe, anche da altri ricercatori, e così via.

Questo modo di procedere ci chiarisce anche perché la linguistica non sia una disciplina normativa, ma descrittiva: il suo scopo non è infatti quello di indicare «ciò che si deve dire o non si deve dire» (come fanno le grammatiche dette appunto normative), ma spiegare (nel senso di ricondurre a leggi generali) ciò che effettivamente si dice. A scanso di equivoci, precisiamo che non vogliamo affatto far credere che «qualunque modo di parlare può andar bene in qualunque circostanza»: ogni lingua, infatti, presenta delle varietà d’uso (cfr. II.9 e cap. IX), ognuna delle quali ha caratteristiche proprie che vanno conosciute bene, per poter utilizzare tale varietà nei contesti e nei modi appropriati. Per esempio, nell’italiano scritto è bene evitare di usare frasi come La ragazza che gli ho parlato ieri, anche se questa è una forma molto comune nel parlato, ed usare invece La ragazza alla quale (oppure a cui) ho parlato ieri. L’indicazione delle forme «buone», «meno buone» o «decisamente da evitare» è il compito della grammatica normativa: ed è un compito importante, perché indica quali convenzioni dobbiamo seguire se vogliamo adottare un certo tipo di comportamento accettato in un determinato gruppo sociale (nel caso esemplificato, quello degli italiani colti). Questo importante compito, tuttavia, è un compito pratico: esso ci indica una determinata gerarchia di valori (sul cui fondamento si può discutere, ma che comunque esistono e sono accettati). La linguistica come disciplina scientifica, invece, ha come tutte le altre scienze un fine conoscitivo: vuole cioè, come si è detto, spiegare in base a leggi quanto più possibile generali ciò che effettivamente si dice o, in altre parole, il comportamento linguistico degli esseri umani, e investigare i meccanismi che stanno alla base di tale comportamento.

2. CARATTERISTICHE PROPRIE DEL LINGUAGGIO UMANO

Una volta chiarito cosa si intende con «studio scientifico», dobbiamo ora specificare cosa intendiamo con «linguaggio umano». Abbiamo detto nel paragrafo precedente che la riflessione sul linguaggio umano durante gli ultimi decenni è giunta alla conclusione che esso abbia delle caratteristiche molto specifiche, essenzialmente diverse da quelle dei linguaggi animali o dei linguaggi di programmazione tipici dell’informatica. Su che basi si fonda una tale conclusione? Questo argomento, per poter essere svolto in modo adeguato, necessiterebbe di una trattazione piuttosto lunga; qui cercheremo di fornire soltanto alcuni cenni.

Cominciamo da una caratteristica che distingue tipicamente il linguaggio umano dal linguaggio di molte specie animali, a cominciare da quello delle api: il primo tipo di linguaggio è discreto, gli altri tipi sono continui. Cosa vuol dire che il linguaggio umano è «discreto»? Vuol dire che i suoi elementi si distinguono gli uni dagli altri per l’esistenza di limiti ben definiti. Ad esempio, in italiano i suoni [p] e [b], oppure [t] e [d], per quanto molto simili sotto vari punti di vista (i primi due sono articolati con le labbra, gli altri due tramite il contatto della lingua con i denti superiori; v. più avanti, IV.2.1.), hanno però, per il parlante e per l’ascoltatore, un effetto di contrasto netto: patto vuol dire una cosa ben diversa da batto, e tardo una cosa ben diversa da dardo. Non esistono cioè, nella mente del parlante e dell’ascoltatore, entità «intermedie» tra p e b, oppure tra t e d: a un certo momento, bruscamente, l’ascoltatore percepirà batto invece di patto, o dardo invece di tardo. Nei sistemi continui è sempre possibile, invece, «specializzare» sempre più il segnale: la danza delle api ha queste caratteristiche. L’ape esploratrice, per indicare alle sue compagne in modo sempre più preciso la distanza e la ricchezza della fonte di cibo, nonché la direzione da prendere per raggiungerla, introduce modifiche sempre più sottili nel ritmo, nell’orientamento e nella durata della sua danza.

Un’altra differenza tra il linguaggio umano e i «linguaggi» animali è data dall’inventario dei segni a disposizione in questi differenti sistemi (sul concetto di segno cfr. II.7.): in generale i sistemi di comunicazione animale sono caratterizzati da un numero finito di segni; le parole di ogni lingua umana, invece, non costituiscono un insieme finito, perché si creano continuamente parole nuove; e nel nostro parlare quotidiano facciamo uso, nella stragrande maggioranza dei casi, di frasi nuove, create sul momento. A questa possibilità di creazione continua di nuove frasi contribuisce in modo decisivo il meccanismo della ricorsività: esso permette di costruire frasi sempre nuove inserendo, in una frase data, un’altra frase, poi in quest’ultima un’altra frase, e ancora, e così via. Per vedere come funziona in concreto il meccanismo della ricorsività, partiamo da una frase semplice come:

(1) Maria mi ha colpito

Utilizzando un verbo come dire, possiamo trasformare (1) in una frase complessa, cioè formata da una frase principale (I ragazzi dicono) e da una frase dipendente (che Maria mi ha colpito). (Sui concetti di frase semplice e frase complessa, frase principale e frase dipendente cfr. VII.3.2.)

(2) I ragazzi dicono che Maria mi ha colpito

Possiamo poi trasformare l’intera frase (2) in una frase dipendente da un verbo come credere:

(3) I vicini credono che i ragazzi dicano che Maria mi ha colpito

Se facciamo dipendere la frase (3) da un verbo come sostenere, la frase che risulta, (4), è ancora più complessa delle precedenti:

(4) I Rossi sostengono che i vicini credono che i ragazzi dicano che Maria mi ha colpito

Come si può facilmente vedere, utilizzando un verbo opportuno (oltre a dire, sostenere, credere, si potrebbero usare affermare, ritenere, pensare, ecc., nonché ripetere uno qualunque di questi verbi, quante volte si vuole), il processo potrebbe continuare all’infinito: non c’è dunque limite, in linea di principio, alla lunghezza delle frasi di una qualunque lingua naturale. Un altro modo per formare frasi complesse di lunghezza indefinita è ricorrere all’uso della congiunzione e:

(5)
a. Giorgio corre
b. Giorgio corre e grida
c. Giorgio corre e grida e suda
d. Giorgio corre e grida e suda e inciampa…

Il numero delle frasi possibili di qualunque lingua naturale è infinito. Così come la serie dei numeri naturali è illimitata in quanto si può sempre aggiungere a qualsiasi numero, così è illimitato il numero delle frasi possibili in ogni lingua, perché, data una certa frase, si può sempre costruire una frase nuova, aggiungendo un’altra frase semplice alla frase data.

Si noti che abbiamo detto che il limite alla lunghezza delle frasi non esiste in linea di principio: infatti, le nostre limitazioni di spazio, di tempo e di memoria non ci permettono di costruire effettivamente una frase di lunghezza infinita; per poter raggiungere questo risultato, sarebbe necessario poter disporre di un tempo infinito (di cui nessun essere umano dispone) o di un foglio di carta di lunghezza infinita (che è impossibile da produrre, anche da parte della migliore cartiera). C’è quindi un contrasto tra la capacità potenziale di produrre frasi di lunghezza infinita e la realizzabilità effettiva di tali frasi: questo è un esempio del contrasto tra due aspetti dell’attività linguistica, chiamati uno competenza e l’altro esecuzione, su cui torneremo nel capitolo II. Quello che ci interessa, però, è che questa capacità di produrre frasi di lunghezza potenzialmente infinita, ossia la ricorsività, è presente solo nel linguaggio umano, mentre è assente (a quanto sembra) nei sistemi di comunicazione delle altre specie animali. Anzi, si può dire anche di più: sembra che soltanto gli esseri umani abbiano la capacità di acquisire un sistema di comunicazione caratterizzato dal fenomeno della ricorsività, mentre anche le specie animali più vicine all’uomo (gli scimpanzé, i gorilla e altre scimmie antropoidi) non possiedono tale capacità.

I risultati dei tentativi condotti da vari studiosi per insegnare ad alcuni gorilla o alcuni scimpanzé una lingua umana sostanzialmente confermano questa affermazione. Gli esperimenti in questione, condotti all’incirca a partire dagli anni Sessanta del Novecento, hanno alimentato una vasta letteratura, e hanno suscitato un interesse altrettanto vasto. Qui ne riferiremo molto in breve, limitandoci a ricordarne gli aspetti essenziali e a valutarne la portata generale. Anzitutto, bisogna dire che si tratta, nella maggior parte dei casi, di esperimenti ben costruiti, che hanno cercato di eliminare quegli ostacoli all’apprendimento del linguaggio umano da parte delle scimmie che paiono insormontabili ma che non sono affatto essenziali. Il più importante di questi è rappresentato dalla differenza tra la nostra anatomia e quella delle scimmie: il nostro apparato fonatorio, quell’insieme di organi che ci permette cioè di produrre i suoni del nostro linguaggio (cfr. IV.1.1.), è costituito tra l’altro dalla bocca, dal naso e dalle labbra, che sono molto diversi da quelli delle scimmie. L’aver trascurato questa importante differenza era la ragione del fallimento del primo esperimento in assoluto (a quanto risulta) di insegnare alle scimmie a parlare un linguaggio umano, che risale ai primi anni Cinquanta: le scimmie non parlavano perché la loro anatomia non rendeva loro possibile produrre i suoni del nostro linguaggio; questo, in sé, non dimostrava però la loro incapacità mentale di acquisirlo. Perciò, per tentare di insegnare alle scimmie il linguaggio umano, dagli anni Sessanta in poi si studiarono altre forme di comunicazione che ne realizzassero le parole e le frasi senza usarne i suoni: la maggior parte dei ricercatori ricorse al linguaggio gestuale proprio dei sordomuti americani (American Sign Language, ASL), mentre alcuni altri fecero uso di un insieme di oggetti di plastica, ognuno indicativo di un dato concetto e da disporre in un ordine determinato.

I primi risultati di questi esperimenti suscitarono grandi entusiasmi, e ottennero successo anche al di fuori della ristretta cerchia degli specialisti, ossia nella grande stampa di comunicazione e anche in televisione: i ricercatori coinvolti asserivano di essere in grado di «parlare» con le loro scimmie come con degli esseri umani; e non si può sostenere che fossero in mala fede. Tuttavia, un’analisi più attenta dei resoconti dei vari esperimenti mostrò che le cose stavano un po’ diversamente: per esempio, le scimmie istruite a parlare un linguaggio umano non rivelavano mai la capacità di produrre frasi complesse, mostravano cioè di non possedere la ricorsività. Inoltre, non si può negare che, mentre i bambini sviluppano spontaneamente il loro linguaggio, semplicemente perché vivono in una famiglia o in una comunità dove si parla, e non perché le mamme decidono un determinato giorno di insegnare loro a parlare, le scimmie esaminate cominciavano a «parlare» solo dopo che erano esplicitamente stimolate a farlo.
Quello che si può concludere, dunque, è che il linguaggio umano è un sistema altamente specializzato, dotato di proprietà specifiche, nel doppio senso di «specifiche del sistema», cioè possedute da esso solo, e «specifiche della specie», cioè possedute dalla sola specie umana. Come poteva accadere, dunque, che i ricercatori di cui abbiamo parlato ritenessero comunque di «parlare» con le loro scimmie? Probabilmente, perché tra loro e le scimmie si era sviluppato un sistema di comunicazione che permetteva ad individui di due diverse specie animali di intendersi abbastanza bene. Del resto, ognuno di noi che abbia familiarità con animali domestici sa che, in una certa misura, si riesce a «intendersi» con loro, a comunicarsi reciprocamente stati d’animo e anche, in vari casi, a indicarsi oggetti o persone. Non è affatto stupefacente, quindi, che una tale comunicazione si sviluppi molto di più con esseri, come le scimmie antropoidi, che ci sono molto più vicini, quanto a storia evolutiva e a corredo genetico, dei gatti o dei cani, e che quindi, con buona probabilità, condividono almeno una parte del nostro sistema concettuale. Ma il sistema di comunicazione che si era sviluppato tra i ricercatori di cui abbiamo parlato e le loro scimmie non è il linguaggio umano, ma un altro tipo di sistema di comunicazione, che, se vogliamo, possiamo continuare a chiamare «linguaggio», purché si tenga presente che un tale linguaggio ha caratteristiche diverse da quello umano. Come abbiamo detto all’inizio, il fatto che più sistemi siano analoghi dal punto di vista della funzione (ossia, permettere la comunicazione tra individui diversi, in questo caso individui appartenenti a due specie diverse, la scimmia e l’uomo) non significa che essi siano analoghi (e tantomeno identici) dal punto di vista della struttura.

Abbiamo dunque indicato, come alcune delle caratteristiche proprie del linguaggio umano in opposizione a quelle dell’una o dell’altra specie animale, 1) la discretezza e 2) la ricorsività. Esistono, però, altri sistemi che chiamiamo «linguaggi» e che sono caratterizzati da entrambe queste proprietà, e che, tuttavia, sono diversi dal linguaggio sotto altri punti di vista: i linguaggi dell’informatica. In che cosa consiste la differenza tra questi linguaggi e il linguaggio umano? In ciò che viene abitualmente chiamata la «dipendenza dalla struttura». Per capire cosa si intende con questo concetto, consideriamo una frase come (6):

(6) La donna che i ragazzi dicono che mi ha colpito è Maria

Il verbo della frase dipendente più «incassata», ha colpito, è alla terza persona singolare: si accorda cioè con il nome singolare donna, che non è immediatamente vicino ad esso, ma ne è separato da una lunga sequenza di parole (che i ragazzi dicono che mi). Il nome ragazzi è molto più vicino al verbo ha colpito che non il nome donna, eppure, se trasformassimo ha colpito in hanno colpito, per accordarlo al plurale con ragazzi, otterremmo una frase, (7), che suona «non ben formata» o «agrammaticale» (i due termini sono equivalenti, e in questo libro useremo indifferentemente ora l’uno ora l’altro):

(7) *La donna che i ragazzi dicono che mi hanno colpito è Maria

Il simbolo *, ossia l’asterisco, indica le parole o le combinazioni di parole che sono agrammaticali per il parlante nativo di una determinata lingua. Questo simbolo ricorrerà spesso in questo libro, sempre per indicare parole o frasi non ben formate, tranne che nel capitolo X, dedicato alla linguistica storica, dove vedremo che l’asterisco ha un altro valore.

Le nozioni di grammaticalità e agrammaticalità sono particolarmente importanti, e possono, d’altra parte, essere fraintese. Dobbiamo quindi soffermarci un po’ su di esse. Occorre tenere sempre presente che la linguistica non è una disciplina normativa, bensì descrittiva: quindi «agrammaticale» non significa «scorretto», bensì «mal formato per il parlante nativo di una determinata lingua». Per esempio, qualunque parlante nativo dell’italiano, anche privo di istruzione, riconoscerà che soltanto (8) è una frase ben formata, mentre (9) non è che una pura «lista» (o «insalata») di parole italiane:

(8) La ragazza di Pietro suona bene il pianoforte
(9) *Il Pietro pianoforte bene di ragazza suona la

Il contrasto tra (6) e (7) è indubbiamente più sottile, soprattutto perché si tratta di due frasi più complesse di (8) e (9). Ciononostante, un parlante nativo dell’italiano al quale sia dato tempo sufficiente per esaminarle con un po’ di attenzione noterà che in (7) c’è qualcosa di peggio rispetto a (6), qualcosa «che non suona bene»: questo qualcosa è proprio la mancanza di accordo tra il nome donna (singolare) e il verbo hanno colpito (plurale; sulla nozione di accordo cfr. VII.5.). Questo senso intuitivo di buona o cattiva formazione, ossia di grammaticalità o di agrammaticalità, delle espressioni di una determinata lingua non è dunque un effetto della grammatica normativa: del resto, i parlanti nativi di dialetti, che sono varietà linguistiche non fissate normativamente (v. II.9.), distinguono senza difficoltà le frasi ben formate in tali dialetti da quelle mal formate. Il senso intuitivo di grammaticalità rappresenta dunque una caratteristica essenziale della competenza (cfr. II.2.3.) del parlante nativo di una determinata lingua. Si tratta, in altre parole, di un fatto che la linguistica deve descrivere in modo adeguato.

Torniamo ora al contrasto tra (6) e (7). Esso mostra che, nelle lingue naturali, le frasi non sono organizzate come una semplice successione di parole, in cui la forma di una parola è determinata dalla forma di quella immediatamente precedente, o comunque più vicina: al contrario, in molti casi la forma delle parole è determinata da quella di altre parole molto «distanti». Se poi ricordiamo che questa distanza può in linea di principio aumentare indefinitamente, grazie al meccanismo della ricorsività (che è quello in base al quale abbiamo costruito (2), (3) e (4), partendo da (1)), ci accorgiamo che queste relazioni siano complesse: esse non sono cioè determinate dalla semplice successione delle parole, ma sono, come si è detto, dipendenti dalla struttura. Questa caratteristica, propria delle lingue naturali, è come si vede assai complessa. Se volessimo costruire un linguaggio artificiale, potremmo desiderare che esso abbia delle caratteristiche più semplici. E infatti, non a caso, i linguaggi dell’informatica sono in genere «indipendenti dalla struttura», cioè in essi il valore di ogni elemento è normalmente determinato solo da quelli degli elementi adiacenti.

Possiamo quindi riassumere questo paragrafo dicendo che il linguaggio umano è una struttura altamente specifica, nel duplice senso che contiene delle caratteristiche proprie, diverse da quelle di altri sistemi di comunicazione, e che è una proprietà unica della specie umana.

3. IL LINGUAGGIO E LE LINGUE

Finora abbiamo usato prevalentemente il termine «linguaggio», mentre abbiamo fatto poco uso del termine «lingua». L’esame di qualche lingua diversa dall’italiano ci potrebbe indurre a pensare che in realtà tra «linguaggio» e «lingua» non ci sia differenza: per esempio, in inglese abbiamo solo tanto la parola language, che equivale tanto a «linguaggio» quanto a «lingua», e lo stesso accade in tedesco (Sprache). In francese, invece, la situazione è identica all’italiano: oltre a langage, esiste anche langue. Di fatto, però, è molto importante mantenere distinta la nozione di «linguaggio» da quella di «lingua»; quindi, in inglese e in tedesco, la stessa parola indica due entità diverse, anche se ovviamente collegate. Con linguaggio intendiamo dunque la capacità comune a tutti gli esseri umani di sviluppare un sistema di comunicazione dotato di quelle caratteristiche proprie che abbiamo descritto nel paragrafo precedente, e che lo distinguono da altri sistemi di comunicazione. Con lingua intendiamo la forma specifica che questo sistema di comunicazione assume nelle varie comunità. Pertanto, se ci riferiamo al linguaggio umano, generalmente parliamo di linguaggio al singolare, perché questa capacità è propria della specie umana, e comune a tutti gli esseri umani in quanto tali. Parliamo, invece, di lingua tanto al singolare che al plurale, perché tante sono le lingue nel mondo. Esiste poi un senso più specifico e più tecnico di lingua al singolare, su cui torneremo nel prossimo capitolo (II.2.1.).

Qual è il rapporto tra il linguaggio da un lato e le lingue dall’altro? E quale il rapporto delle varie lingue tra di loro? Questo problema è stato affrontato molte volte nella storia della linguistica, e le soluzioni avanzate sono state spesso diverse, se non opposte. Un filosofo medievale, Ruggero Bacone (1214-1292), scrisse che «la grammatica è unica ed identica nella sostanza, anche se varia accidentalmente»: quindi (potremmo dire usando la nostra terminologia), le lingue sono differenti, ma entro limiti ben definiti, ossia quelli del linguaggio come capacità umana specifica. Di conseguenza, le lingue non possono differire oltre certi limiti, ed hanno molti elementi in comune, dato che sono realizzazioni diverse dell’unico linguaggio. Una posizione come quella di Ruggero Bacone cominciò ad entrare lentamente in crisi verso l’inizio dell’età moderna, e fu abbandonata completamente nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento: in quest’epoca, la maggior parte (o forse la totalità) dei linguisti riteneva che non ci fosse nulla in comune a tutte le lingue del mondo, che esse cioè potessero, in linea di principio, differire l’una dall’altra senza limiti. Nella seconda metà del secolo scorso, quest’ultima posizione (che rimane comunque ancora quella di diversi linguisti) ha cominciato ad essere abbandonata, e si è tornati di nuovo ad una concezione del rapporto tra unicità del linguaggio e diversità delle lingue simile a quella di Ruggero Bacone, anche se, ovviamente, formulata in modo diverso.

Ci si può a questo punto domandare: quali sono gli elementi comuni a tutte le lingue (ossia, gli universali linguistici) e quali invece gli elementi diversi da lingua a lingua, o almeno non comuni a tutte? Tra gli universali linguistici, possiamo citare alcune delle caratteristiche proprie del linguaggio umano che abbiamo già imparato a conoscere: la ricorsività e la dipendenza dalla struttura. Finora, non sono stati trovati casi di lingue in cui sia impossibile applicare il meccanismo della ricorsività, o che presentino casi di regole indipendenti da la struttura. Una caratteristica, invece, che distingue le varie lingue (o meglio, vari tipi di lingue) è l’ordine delle parole o, come sarebbe meglio dire, l’ordine degli elementi principali della frase. In italiano, l’ordine più comune in una frase dichiarativa è quello Soggetto-Verbo-Oggetto (SVO):

(10) Gianni scrisse una lettera

Quest’ordine è tipico anche di molte altre lingue, come l’inglese o il francese, ma non dobbiamo pensare che sia universale: altri ordini sono possibili. Per esempio, in arabo e nelle altre lingue semitiche (v. sotto, III.1.) l’ordine è più frequentemente VSO (Verbo-Soggetto-Oggetto); in lingue come il turco o il giapponese, l’ordine è SOV (cioè con il verbo alla fine della frase). Quindi, l’equivalente giapponese di (10) è (11):

(11) Gianni ga tegami o kaita
“Gianni la lettera scrisse”

(Ga e o sono due particelle che segnalano rispettivamente quale nome è il soggetto e quale il complemento oggetto.)

L’ipotesi oggi più diffusa, dunque, è che le lingue siano diverse l’una dall’altra (questo fatto, d’altronde, sarebbe difficile da negare), ma che questa variazione non sia illimitata, bensì sia confinata in un ambito limitato di scelte possibili. Esistono quindi degli universali linguistici, da un lato, e delle proprietà che caratterizzano soltanto alcune lingue oppure, meglio, soltanto alcuni gruppi di lingue. Lo studio di queste ultime è l’oggetto della tipologia linguistica, di cui parleremo in III.4. Ma ora è il momento, dopo aver trattato del concetto di linguaggio, di occuparci più da vicino del concetto di lingua.


NOTA STORICO-BIBLIOGRAFICA

La riflessione sul linguaggio caratterizza quasi tutte le culture, da quella cinese a quella indiana a quelle ebraica ed araba. Nella tradizione occidentale, i primi ad occuparsi del linguaggio furono i filosofi greci, principalmente Platone (429-347 a.C. circa), Aristotele (384-322 a.C.) e gli stoici (IV-III sec. a.C.). La linguistica si costituisce come disciplina scientifica autonoma (nel senso, ad esempio, di essere dotata di cattedre universitarie proprie) soltanto a partire dall’inizio dell’Ottocento; in quest’epoca, viene a chiarirsi definitivamente il suo statuto di disciplina descrittiva e non normativa. Una storia delle teorie sul linguaggio è Formigari [2001]; una storia dettagliata della linguistica, contenente anche capitoli sugli studi linguistici in culture non occidentali, è Lepschy [1990-1994].

La concezione del linguaggio come capacità specifica, sia nel senso di struttura dotata di caratteristiche proprie che in quello di proprietà esclusiva della specie umana, è alla base della teoria linguistica elaborata dallo studioso americano Noam Chomsky (n. 1928), nota come grammatica generativa (termine con il quale si intende il carattere formale ed esplicito della teoria stessa). Questa teoria ha trovato sia convinti sostenitori che decisi oppositori, ma in ogni caso rimane il modello linguistico che ha avuto maggiore risonanza nella seconda metà del Novecento.

Tra i numerosissimi testi di Chomsky, segnaliamo alcuni di quelli più significativi: Chomsky [1975, specialmente il cap. I]; Chomsky [1980]; Chomsky [1986, specialmente i capp. I e II]. Chomsky [1988] è particolarmente indicato per i non specialisti. Un’eccellente presentazione della concezione chomskiana del linguaggio, anch’essa molto adatta ai principianti ed inoltre di piacevole lettura, è Pinker [1994]. Sui sistemi di comunicazione animali, v. Sebeok [1968]. Per gli universali e la tipologia linguistica, v. le indicazioni nella nota al cap. III.


DOMANDE

  1. Come si può definire la linguistica?
  2. Cosa si intende dicendo che la linguistica non è una disciplina normativa, ma descrittiva?
  3. Cosa indica l’asterisco posto davanti a una parola o a una frase?
  4. Quali sono le caratteristiche proprie del linguaggio umano, che lo distinguono da altri tipi di «linguaggi»?
  5. Che cosa vuol dire che il linguaggio umano è «discreto»?
  6. Che cos’è la «ricorsività»?
  7. Per quali motivi i tentativi di insegnare alle scimmie a «parlare» il linguaggio umano sono sostanzialmente falliti?
  8. Cosa si intende dicendo che il linguaggio umano è «dipendente dalla struttura»?
  9. Cosa si intende, rispettivamente, con «linguaggio (umano)» e con «lingua»?
  10. Cosa sono gli «universali linguistici»?

RISPOSTE

1. Come si può definire la linguistica?
La linguistica è una disciplina scientifica che studia il linguaggio umano nella sua complessità. È uno studio sistematico che si propone di descrivere e spiegare il funzionamento del linguaggio, analizzandone le proprietà universali e le particolarità delle singole lingue. La linguistica non si limita a un’osservazione superficiale, ma indaga il linguaggio come sistema complesso, definendo le sue regole, strutture e caratteristiche distintive rispetto ad altri sistemi di comunicazione.

Cosa si intende dicendo che la linguistica non è una disciplina normativa, ma descrittiva?
La linguistica non stabilisce regole su ciò che “si deve dire” o “non si deve dire” (come fanno le grammatiche normative), ma si occupa di descrivere ciò che i parlanti effettivamente dicono e come lo fanno. In questo senso, il suo obiettivo è spiegare le regolarità e le variazioni del linguaggio, basandosi sui dati concreti dell’uso linguistico, senza giudicarli o considerarli corretti o scorretti.

Cosa indica l’asterisco posto davanti a una parola o a una frase?
L’asterisco (*) è un simbolo utilizzato in linguistica per indicare che una parola o una frase è agrammaticale, cioè non conforme alle regole sintattiche di una lingua. Non implica che sia “sbagliata” in senso normativo, ma che non risulta ben formata per un parlante nativo. Ad esempio, in italiano, “*La ragazza che gli ho parlato” è agrammaticale, poiché manca l’accordo grammaticale corretto.

Quali sono le caratteristiche proprie del linguaggio umano, che lo distinguono da altri tipi di «linguaggi»?
Il linguaggio umano è unico rispetto ad altri sistemi di comunicazione grazie a tre caratteristiche principali:
• Discretezza: gli elementi del linguaggio (come suoni e parole) sono distinti e separati, senza entità intermedie.
• Ricorsività: la capacità di inserire frasi all’interno di altre frasi, creando strutture potenzialmente infinite.
• Dipendenza dalla struttura: le relazioni grammaticali non dipendono solo dall’ordine delle parole, ma da una gerarchia strutturale interna complessa.

Che cosa vuol dire che il linguaggio umano è «discreto»?
La discretezza implica che gli elementi del linguaggio (come i fonemi o le parole) sono separati e distinti gli uni dagli altri. Ad esempio, in italiano, i suoni /p/ e /b/ sono percepiti come fonemi diversi, nonostante siano articolati in modo simile. Questo consente ai parlanti di creare combinazioni uniche di suoni che danno origine a significati diversi.

Che cos’è la «ricorsività»?
La ricorsività è la capacità del linguaggio umano di creare strutture gerarchiche complesse. Grazie a essa, è possibile costruire frasi di lunghezza infinita, inserendo una frase dentro un’altra. Per esempio: “I ragazzi dicono che Maria ha detto che Gianni pensa che…”. Questo rende il linguaggio estremamente flessibile e adatto a rappresentare concetti complessi.

Per quali motivi i tentativi di insegnare alle scimmie a «parlare» il linguaggio umano sono sostanzialmente falliti?
I tentativi di insegnare alle scimmie il linguaggio umano sono falliti per diverse ragioni:
• Anatomiche: l’apparato fonatorio delle scimmie non è adatto alla produzione dei suoni umani.
• Cognitive: le scimmie non sembrano possedere le capacità mentali necessarie per acquisire concetti come la ricorsività e la dipendenza dalla struttura, fondamentali nel linguaggio umano.
Anche quando usavano sistemi come il linguaggio dei segni, le scimmie non mostravano una comprensione delle strutture grammaticali complesse.

Cosa si intende dicendo che il linguaggio umano è «dipendente dalla struttura»?
Nel linguaggio umano, le relazioni grammaticali tra le parole non dipendono solo dalla loro vicinanza o ordine lineare, ma da una struttura gerarchica sottostante. Ad esempio, in una frase come “La donna che i ragazzi dicono che mi ha colpito è Maria”, il verbo “ha colpito” si accorda con “donna” (che è distante), e non con “ragazzi” (che è più vicino). Questa dipendenza strutturale è unica nel linguaggio umano.

Cosa si intende, rispettivamente, con «linguaggio (umano)» e con «lingua»?
Il linguaggio umano è la capacità universale e innata degli esseri umani di comunicare tramite un sistema simbolico complesso, dotato di discretezza, ricorsività e dipendenza dalla struttura. Una lingua, invece, è la manifestazione specifica di questa capacità in una determinata comunità (ad esempio, italiano, inglese, giapponese).

Cosa sono gli «universali linguistici»?
Gli universali linguistici sono caratteristiche comuni a tutte le lingue umane, indipendentemente dalla loro varietà o complessità. Ad esempio, la ricorsività e la dipendenza dalla struttura sono universali, così come la presenza di regole per organizzare gli elementi della frase (soggetto, verbo, oggetto). Questi universali distinguono il linguaggio umano da altri sistemi di comunicazione.

FONTE: Giorgio Graffi e Sergio Scalise, Le lingue e il linguaggio. Introduzione alla linguistica, il Mulino, 2002, Capitolo 1

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