di Pino Arlacchi
La grandezza di una civiltà si misura dalla sua capacità egemonica, dall’attrazione che esercita in primo luogo sulle entità politiche più vicine.
Queste finiscono con l’entrare nella sua orbita fino al punto di esserne, in certi casi, assorbite. La perdita di egemonia, al contrario, innesca prese di distanza che possono sfociare in avversione, ostilità e guerre.
Questo è quanto accaduto negli ultimi anni nei rapporti tra la Turchia e l’Occidente. A una fase di ravvicinamento e di intesa così ampi da arrivare fino alla soglia dell’inclusione del maggiore paese del Medioriente nell’Unione europea, è seguito un rapido distacco che ha portato Ankara, nell’ultimo decennio, a diventare una vera e propria alterità rispetto a Bruxelles e a Washington. I due principali legami rimasti sembrano ancora consistenti, ma il cuore della Turchia batte ormai verso l’altra parte del continente eurasiatico.
I rapporti commerciali con l’Europa e l’appartenenza alla Nato contano ancora molto per Ankara, ma la sua politica estera si dirige sempre più verso i lidi non occidentali: Brics, Cina e Russia per intenderci.
Ma se questo è vero, dov’è finito allora il celebre doppiogiochismo di Erdogan? Cioè la sua inclinazione a stare da entrambi i lati della guerra in Ucraina e di altri scontri regionali? La risposta è che il suo doppio gioco non è una frode machiavellica, né un obbligo creato dalla posizione di ponte est-ovest della Turchia, ma una postura che serve a celare una netta presa di posizione sottostante.
Erdogan e la Turchia hanno in effetti compiuto una scelta di campo, determinata in gran parte da ciò che il paese guida dell’Occidente ha fatto di recente contro entrambi. Il doppio gioco di Erdogan nasconde in realtà una vendetta coperta contro gli Stati Uniti. E contro l’Europa che è rimasta a guardare in due circostanze cruciali della storia recente della Turchia: nel momento in cui gli Usa hanno tentato di sbarazzarsi del presidente turco sostenendo il tentato golpe marca Gülen nel 2016, e quando, due anni dopo, Wall Street ha sferrato un intemerato attacco alla valuta turca.
Fethullah Gülen, predicatore islamico e leader carismatico, da poco deceduto, era accusato da Ankara di avere infiltrato le istituzioni turche con circa 50 mila seguaci tramite un impero educativo e finanziario costruito con il supporto americano. Il suo movimento, Hizmet (“Il Servizio”), si era presentato per decenni come un esempio di Islam moderato, perfettamente allineato con gli interessi occidentali. Dalla sua residenza in Pennsylvania, dove viveva dal 1999, Gülen aveva tessuto una rete globale che si estendeva in 160 paesi. Le sue scuole, frequentate da figli delle élite locali, avevano formato una generazione di funzionari e professionisti in posizioni chiave, mentre le sue holding finanziarie avevano accumulato un patrimonio stimato in 50 miliardi di dollari.
Gli Stati Uniti avevano visto in Gülen un potenziale contrappeso all’Islam politico di Erdogan. La Cia, secondo documenti resi pubblici, aveva facilitato il rilascio del suo visto americano nel 1999, nonostante le obiezioni dell’Fbi. Graham Fuller, ex vicepresidente del National Intelligence Council, aveva personalmente garantito per lui. Le sue scuole hanno ricevuto consistenti finanziamenti americani, circa 750 milioni di dollari tra il 2010 e il 2015.
Il tentativo di colpo di stato del 15 luglio 2016 – 251 morti e 2200 feriti – ha rivelato la vera portata della rete di Gülen. Secondo fonti dell’intelligence turca, sono stati i servizi segreti russi a informare Erdogan dell’imminente golpe poche ore prima del suo inizio. Un’informazione cruciale che ha permesso al presidente turco di mettersi in salvo e, soprattutto, di attivare un piano di contro-golpe predisposto da tempo. Le liste di 89.000 persone da arrestare immediatamente erano già pronte, suggerendo che il governo turco stesse solo aspettando il momento giusto per colpire i gulenisti.
La rapidità della repressione – iniziata nelle prime ore del golpe con arresti mirati di alti ufficiali e funzionari chiave – conferma questa tesi. In sole 48 ore sono stati arrestati 6.000 militari, inclusi 150 generali e ammiragli. Le liste includevano anche giudici, professori universitari, giornalisti e uomini d’affari sospettati di appartenere al movimento. Dal fallito golpe, più di 130.000 dipendenti pubblici sono stati licenziati e oltre 30.000 membri delle forze armate sono stati arrestati o congedati. Il rifiuto americano di estradare Gülen, nonostante le 84 casse di documentazione fornite dalla Turchia, ha esacerbato le tensioni.
L’attacco alla lira turca rappresenta un caso da manuale di guerra finanziaria. Tutto inizia nell’agosto 2018, quando un’ondata coordinata di vendite allo scoperto da parte di grandi fondi di investimento americani innesca il panico sui mercati. JP Morgan, Goldman Sachs e altri colossi di Wall Street pubblicano simultaneamente report estremamente negativi sulla lira, consigliando ai clienti di liquidare le loro posizioni sulla valuta turca. La lira perde il 17% in un solo giorno, il 10 agosto 2018. Il pretesto è la scoperta improvvisa che la Turchia non ha sufficienti riserve di valuta estera. I buoni fondamentali dell’economia vengono semplicemente ignorati.
Nei mesi successivi, hedge fund come Bridgewater Associates e BlackRock aumentano le loro posizioni ribassiste sulla lira per un valore complessivo di 5,5 miliardi di dollari. Il crollo si autoalimenta: la lira perde oltre il 70% del suo valore rispetto al dollaro tra il 2018 e il 2022. Nel solo 2021, la svalutazione raggiunge il 44%, provocando un’inflazione che tocca l’85% nell’ottobre 2022. La spirale negativa porta il debito estero turco da 454 miliardi di dollari nel 2017 a 568 miliardi nel 2023, con un costo del servizio del debito triplicato.
L’impatto sociale è devastante: 3,2 milioni di turchi scivolano sotto la soglia di povertà, mentre il Pil pro capite crolla da 12.600 dollari nel 2013 a circa 8.000 dollari nel 2022. Il salario minimo, che nel 2018 equivaleva a 380 dollari, scende a 220 dollari nel 2023 nonostante ripetuti aumenti in lire. La classe media turca vede i propri risparmi polverizzati: chi aveva 10.000 dollari in lire nel 2018 si ritrova con l’equivalente di 3.000 dollari nel 2022.
La Banca Centrale turca brucia oltre 128 miliardi di dollari di riserve nel tentativo di stabilizzare il cambio, mentre il governo accusa apertamente gli Stati Uniti di condurre una “guerra economica” contro la Turchia. Nel marzo 2021, il licenziamento del governatore della Banca Centrale Naci Agbal, considerato vicino agli ambienti finanziari euroamericani, segna la definitiva rottura con l’ortodossia economica occidentale.
La risposta di Erdogan è stata l’inizio di un asse con la Russia e l’Iran e un drastico riorientamento degli scambi commerciali: il volume delle transazioni con la Russia è aumentato del 198% nel 2022, raggiungendo i 68 miliardi di dollari. Gli investimenti cinesi in Turchia sono cresciuti del 307% dal 2016, superando i 4 miliardi di dollari nel 2023. La Turchia ha inoltre aderito alla Banca Asiatica d’Investimento in Infrastrutture (Aiib) con una quota di 2,6 miliardi di dollari, ed ha chiesto di entrare nei Brics.
Questi numeri raccontano più di mille parole la storia di una potenza regionale che, sentendosi tradita dall’Occidente, ha scelto di diversificare radicalmente le proprie alleanze. Non è più questione di equilibrismo diplomatico, ma di una precisa strategia di lungo termine che sta ridisegnando gli assetti geopolitici dell’Eurasia. L’Occidente ha perso la Turchia non per una deriva autoritaria di Erdogan, ma per una serie di errori di valutazione tipici di una civiltà che tramonta.
Il Fatto Quotidiano, 21 dicembre 2024