La trasmissione di Corrado Augias, dall’altisonante titolo “La Torre di Babele”, si presenta come un monumento al conformismo ideologico travestito da pensiero critico, un contenitore pretenzioso in cui la sfida alla complessità del mondo si riduce a un rassicurante esercizio di omologazione culturale. Se il mito biblico della torre evoca il desiderio di ascendere al cielo sfidando gli dèi, l’edificio mediatico di Augias, al contrario, non ha alcuna ambizione di elevarsi oltre i limiti del già detto: il risultato è una costruzione di cartapesta, fragile e priva di qualsiasi spinta ribelle, destinata a dissolversi alla prima brezza di buon senso.
A completare questa scenografia del vuoto ideologico, l’ospite del 16 dicembre è stato Romano Prodi, epitome vivente della tecnocrazia europea e della sua incapacità patologica di autocritica, simbolo di un continente che continua a marciare verso il baratro senza il minimo tentativo di analizzare i propri errori. In questo teatro della retorica fossilizzata, Prodi recita il copione con la solita impeccabile aderenza alle direttive del pensiero unico euro-atlantista, mentre Augias finge di porre domande scomode per poi sorridere compiaciuto dinanzi alle risposte più ovvie e convenzionali.
Romano Prodi incarna perfettamente quell’Europa burocratica e imbalsamata, pronta a celebrare se stessa con stanche formule di circostanza mentre la realtà scivola via dalle sue mani. La sua presenza in trasmissione è un richiamo nostalgico a una visione di integrazione europea che, pur avendo accumulato fallimenti su fallimenti, continua a essere proposta come soluzione a tutti i mali del mondo. E mentre Augias e Prodi si scambiano battute di rito sul futuro dell’Unione Europea, lo spettatore assiste impotente a uno spettacolo in cui la cecità politica viene spacciata per saggezza e la mediocrità strategica per prudenza.
In questo contesto, l’inserto pubblicitario al libro di Maurizio Molinari, l’ex direttore di Repubblica, appare come il necessario sigillo ideologico per ribadire i dogmi atlantisti. Con la solennità di chi si sente investito di una missione superiore, Molinari pontifica sulla minaccia rappresentata dalle autocrazie, illustrando con dovizia di particolari come esse attentino alla nostra libertà di voto. Tuttavia, mentre predica la difesa della democrazia, con un’agilità logica degna di un contorsionista riesce a giustificare l’annullamento delle elezioni in Romania, reo di aver prodotto un risultato sgradito agli strateghi della NATO. Sospendere le elezioni per salvare la democrazia: questa è la nuova frontiera dell’ipocrisia politica e mediatica, accolta senza batter ciglio da Augias e Prodi, i quali riescono a non notare l’abisso logico e morale su cui stanno danzando.
L’Occidente, nella sua eterna e arrogante autocelebrazione, si rappresenta come il custode della democrazia e della civiltà, ma la sua storia recente è un susseguirsi di interventi militari e rivoluzioni pilotate che hanno sistematicamente generato il caos e favorito la nascita di nuovi estremismi. Le cosiddette “primavere arabe”, tanto esaltate dai media mainstream, si sono trasformate in gelidi inverni salafiti, con l’Iraq, la Libia e la Siria a testimoniare l’incapacità cronica dell’Occidente di comprendere le dinamiche locali e di accettare che la democrazia non può essere imposta con le bombe e i droni. La supposta superiorità morale dell’Occidente, che dovrebbe distinguerlo dalle autocrazie, si dissolve nell’aria rarefatta delle città devastate e dei milioni di profughi generati dalle sue guerre “umanitarie”.
L’Egitto rappresenta forse l’esempio più lampante di questa ipocrisia strutturale: dopo aver sostenuto la rivoluzione che ha portato al potere i Fratelli Musulmani, l’Occidente ha prontamente benedetto il golpe del generale Al-Sisi, lo stesso regime responsabile della morte di Giulio Regeni. La logica è sempre la stessa: ciò che conta non è la democrazia, ma la stabilità funzionale agli interessi geopolitici ed economici dell’alleanza euro-atlantica. Chiunque osi mettere in discussione questa narrativa viene immediatamente bollato come complice delle autocrazie, mentre i veri complici dei regimi più repressivi e autoritari siedono comodamente nei salotti buoni della politica e del giornalismo occidentale.
L’elenco delle “amicizie” dell’Occidente è un catalogo di cinismo geopolitico: si demonizza la Russia per la sua deriva autoritaria, ma si stringono patti di ferro con le monarchie assolute del Golfo, i cui regimi farebbero impallidire qualsiasi dittatura euroasiatica. La Turchia di Erdogan, con il suo sistematico smantellamento delle libertà individuali, resta un partner indispensabile, mentre Israele, con le sue politiche coloniali e di apartheid, è difeso a spada tratta in nome della sicurezza e della lotta al terrorismo. Questa doppia morale è il fondamento della politica estera occidentale, che alterna sanzioni e interventi militari a seconda della convenienza del momento.
In questa cornice, la figura di Molinari assume una valenza simbolica: il giornalismo, che dovrebbe vigilare sul potere, diventa esso stesso un pilastro del potere, un megafono della propaganda che giustifica guerre, rivoluzioni e sospensioni della democrazia in nome di un bene superiore mai definito con chiarezza. La libertà di stampa, tanto decantata nei consessi internazionali, si riduce a una serie di veline ben confezionate e pronte per essere ingurgitate da un pubblico addomesticato. E se qualcuno osa dissentire, scatta immediatamente l’accusa di essere un agente delle autocrazie nemiche.
Corrado Augias è il regista perfetto di questa rappresentazione dell’ipocrisia, un intellettuale che si crogiola nella propria autoreferenzialità e che scambia la ripetizione dei luoghi comuni per profondità di pensiero. La sua “Torre di Babele” non è un’ardita costruzione del sapere, ma un recinto ideologico in cui le pecore del pensiero unico possono brucare tranquillamente senza rischiare di essere disturbate da idee nuove o scomode. L’intervista a Prodi, con il suo rituale scambio di banalità e autocelebrazioni, è la quintessenza di questo immobilismo intellettuale, una celebrazione della mediocrità travestita da dialogo illuminato.
Mentre Augias, Prodi e Molinari si congratulano a vicenda per la loro fedeltà alla linea, il mondo reale scivola inesorabilmente verso nuovi conflitti e nuove crisi. La democrazia viene sacrificata sull’altare della stabilità geopolitica, le libertà individuali vengono sospese in nome della sicurezza, e il buon senso viene assassinato quotidianamente nei salotti televisivi. Ma nessuno di loro sembra accorgersene: tutto procede secondo copione, mentre il sipario dell’ipocrisia continua a calare sulla scena.