Propaganda meloniana: il trionfalismo di Atreju smascherato dall’Italia reale

Giorgia Meloni ad Atreju celebra un'Italia immaginaria: salari bloccati, sanità in crisi e povertà crescente smentiscono la retorica governativa.

di Alberto Piroddi

Da lontano, il Circo Massimo potrebbe sembrare uno scenario di epoche lontane, il luogo delle glorie imperiali e delle grandi disfatte romane. Da vicino, con le luci di Atreju che illuminano la notte romana, sembra più un palco dove si celebra un rito arcaico: quello della propaganda sfacciata. Qui, dal podio trionfale, Giorgia Meloni ha pronunciato l’ennesimo sermone del “tutto va bene”. Un’Italia che, a sentire lei, marcia come una locomotiva, un “esempio per l’Europa” pronta a scattare dal Medioevo al Rinascimento. La folla applaude convinta, senza neppure chiedersi se stia ascoltando la voce di un premier o il monologo comico di un cabarettista fuori tempo massimo.

Giorgia Meloni, perfetta nella sua retorica da leader populista, ha promesso agli italiani che la sinistra pensa solo ai propri interessi mentre lei pensa ai lavoratori. Il problema? I lavoratori non se ne sono accorti. Non se n’è accorto chi guadagna 1.200 euro al mese, schiacciato dall’inflazione galoppante. Non se n’è accorto chi vive di contratti a termine, chi è costretto ad aprire partite IVA per portare a casa un salario da fame, chi ha visto aumentare solo le bollette e i problemi.

E non se ne sono accorti neppure i 7 milioni di poveri certificati dall’Istat, ignorati dalla festa di Atreju e da un governo che ha tagliato l’Assegno di Inclusione e lasciato naufragare ogni politica di contrasto alla povertà. Ma si sa, il trionfalismo è più facile della verità: dipingere l’Italia come una locomotiva significa ignorare che sta deragliando.

Mentre Giorgia Meloni parlava di “difesa dei lavoratori” con la solita enfasi teatrale, il suo governo firmava un emendamento che aumentava lo stipendio di ministri e sottosegretari non eletti di oltre 7.200 euro mensili. Una “manina” fantasma, la chiamano, anche se il trucco è vecchio quanto la politica italiana: quando bisogna sforbiciare risorse ai poveri, tutto fila liscio. Quando bisogna aumentare la diaria dei propri ministri, nessuno sa mai chi l’ha voluta. E così, mentre i ministri non eletti come Crosetto, Valditara e Calderone si ritrovano stipendi parificati a quelli dei parlamentari, l’Italia reale annaspa tra pensioni congelate e contratti collettivi che attendono rinnovi da anni.

A rendere la vicenda ancora più indecente è il contesto economico in cui si muove questo governo: l’occupazione cresce, sì, ma cresce quella precaria, quella a tempo parziale, quella che non basta a vivere. Dal palco di Atreju, Giorgia Meloni ha ignorato i dati che mostrano come le ore lavorate siano diminuite, mentre cresce la platea di working poor – lavoratori che, pur lavorando, restano sotto la soglia di povertà.

E mentre i cittadini si barcamenano tra contratti a 600 euro al mese e stipendi che non coprono neppure l’affitto, Giorgia Meloni ha avuto la sfrontatezza di respingere il salario minimo. Perché, come ripete con toni da catechismo, “il salario si alza con la produttività”. Ma cosa significa questa frase, quando l’Italia non investe un euro in innovazione e la produttività resta ferma ai livelli del 2001?

Ecco allora che mentre i lavoratori arrancano, i ministri incassano aumenti scandalosi e il governo si permette pure di recitare la parte del Robin Hood al contrario: toglie ai poveri per dare ai ricchi.

L’altra grande menzogna della propaganda meloniana è quella economica. Dal palco di Atreju si dipinge un’Italia in crescita, un Paese forte e competitivo. Ma se scendiamo dal treno della retorica e guardiamo i numeri, il panorama è desolante.

  • La produzione industriale è in calo da 21 mesi consecutivi.
  • L’occupazione che cresce è precarizzata e a basso valore: il numero di contratti part-time involontari ha superato ogni record, mentre diminuiscono le ore lavorate.
  • Giovani e donne restano fuori dal mercato del lavoro, con un tasso di inattività che cresce invece di diminuire.

In un’Italia che Meloni definisce locomotiva d’Europa, i treni delle fabbriche del Nord si fermano per la crisi energetica e la mancanza di investimenti. Le imprese chiudono, mentre la produzione scivola dietro a quella di Germania e Francia.

La propaganda non sa cosa farsene di un dato come questo: nei settori chiave, l’Italia sta perdendo competitività. L’aumento dei lavoratori poveri è direttamente proporzionale alla miopia del governo: nessuna politica industriale, nessun incentivo reale alla produttività, nessuna visione di futuro economico. Solo slogan e tagli.

Nella sua visione idilliaca, Giorgia Meloni ha dimenticato di menzionare la sanità pubblica, il più grande malato d’Italia. Gli ospedali chiudono reparti, i pronto soccorso sembrano trincee di guerra e le liste d’attesa per una visita specialistica si allungano fino a due anni, se va bene. Una mammografia? Sei mesi di attesa. Una TAC? Dodici mesi. Oppure puoi pagare e saltare la fila. Ecco, in questa Italia reale, il diritto alla salute è diventato un lusso per pochi.

La verità è che la sanità pubblica è definanziata da anni, ma con il governo Meloni si è raggiunta l’apoteosi: nel bilancio 2024, la spesa sanitaria è ridotta in termini reali per effetto dell’inflazione. Meno risorse per medici, infermieri e strutture significa che il servizio sanitario nazionale si sta sgretolando sotto il peso di una domanda crescente e di un sistema che non regge più.

I dati non lasciano spazio all’interpretazione:

  • Mancano 15 mila medici e 40 mila infermieri in tutto il Paese.
  • Il 20% degli italiani rinuncia alle cure perché non può permettersi la sanità privata.
  • Le disuguaglianze territoriali crescono: se ti ammali in Lombardia hai più chance di guarire che in Calabria o Sicilia, dove gli ospedali sono allo sfascio.

Intanto, mentre il sistema collassa, il governo si guarda bene dall’investire. Nulla su nuove assunzioni, nulla per fermare la fuga dei medici all’estero. Solo tagli e, come sempre, un monumento alla retorica: “Non possiamo sprecare risorse”. Ma la verità è che chi amministra spreca il bene più prezioso: la vita dei cittadini.

Nel Rinascimento meloniano non c’è spazio per la scuola pubblica, relegata a un ruolo marginale come i libri che nessuno legge più. È una scuola fatta di classi pollaio, insegnanti precari e sottopagati, laboratori che sembrano scarti della rivoluzione industriale.

Mentre la Meloni parla ai giovani della “grandezza della storia italiana”, dimentica che la dispersione scolastica ha toccato cifre da record: un giovane su dieci abbandona la scuola prima del tempo, soprattutto al Sud, dove la povertà economica e culturale soffoca ogni possibilità di riscatto.

Gli insegnanti, in questa grande “rinascita”, sono trattati come impiegati di terza categoria:

  • Retribuzioni ferme agli ultimi posti in Europa.
  • Contratti precari che costringono i docenti a fare chilometri per una cattedra provvisoria.
  • Un sistema di reclutamento che sembra uscito da un girone dantesco.

E per i giovani? Nessuna prospettiva. I laureati emigrano a frotte, il brain drain ci sta svuotando delle menti migliori, mentre chi resta finisce in un mercato del lavoro fatto di stage non retribuiti e sfruttamento. “Merito e sacrificio”, predica la Meloni. Ma per molti il sacrificio è restare in un Paese che li tradisce ogni giorno.

C’è un dato che strappa la maschera al trionfalismo di Giorgia Meloni: l’Italia è un Paese di vecchi. L’Istat ci dice che per ogni bambino sotto i 5 anni ci sono 6 anziani. La natalità è ai minimi storici, ma non per scelta: è una conseguenza di salari da fame, affitti impossibili e zero politiche di sostegno alle famiglie.

Nel 2023:

  • La popolazione è calata di oltre 25 mila unità.
  • Il Mezzogiorno si sta spopolando, con una fuga costante di giovani verso il Nord e l’estero.
  • Senza gli immigrati, saremmo già un deserto demografico.

Ma per il governo Meloni, che ha fatto della retorica anti-migranti la sua bandiera, tutto questo è secondario. La realtà è che senza lavoratori stranieri il Paese crollerebbe: sono loro che mandano avanti la logistica, l’agricoltura, l’edilizia e persino le badanti, l’unico welfare che funziona davvero.

Nel suo discorso, Giorgia Meloni ha citato con orgoglio la storia italiana, ma si è guardata bene dal parlare di fascismo, un argomento “del secolo scorso” per i suoi giovani sostenitori. Tuttavia, mentre lei tace, Ignazio La Russa alza la voce: la fiamma tricolore nel simbolo di Fratelli d’Italia “non si tocca”. Un feticcio nostalgico che racconta più del governo di mille parole.

La destra meloniana si dipinge moderna, ma resta ancorata a un passato ingombrante. Sotto la superficie, i legami con il vecchio MSI sono ancora vivi. La modernità di Atreju è solo un’illusione: dietro gli slogan c’è una destra che, pur governando, non riesce a liberarsi del passato.

Mentre Giorgia Meloni parla di rinascita, l’Italia è un Paese che arranca. Aumentano i poveri, crollano i servizi essenziali, i salari restano inchiodati. La propaganda, però, è più facile della realtà. E così, dalla festa di Atreju, il messaggio resta lo stesso: “Tutto va bene”. Ma se chiedete agli italiani, la risposta sarà diversa: “Non è mai andata peggio”.

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