Giubileo, ‘mercato’ della fede (e restauri che piegano l’arte)

I vecchi mali che non cambiano – L’assurdo del Pnrr Mentre monumenti e chiese periferiche collassano senza interventi per assenza di fondi, nei grandi centri si corre invece per spendere i milioni

di Tomaso Montanari

“Là dove Cristo tutto dì si merca”. Questa, secondo il Dante del XVII del Paradiso, era la Curia romana di papa Bonifacio VIII, l’inventore del Giubileo (che il poeta mette coerentemente all’Inferno): il luogo in cui incessantemente si commette il peccato di simonia, cioè si lucra sulle cose sacre. Dovremmo seriamente chiederci (qua scrivo da cattolico) se, 725 anni dopo, il Giubileo non sia ancora un gigantesco mercato, un sabba in onore di Mammona, il dio denaro. Non certo nelle intenzioni di papa Francesco e della parte di Chiesa che con lui predica il perdono di Dio, la pace e la liberazione degli schiavi (anche gli schiavi di questa “economia che uccide”: precari, sottopagati, sfruttati, vittime degli incidenti sul lavoro…).

Ma forse la bolla papale di indizione del Giubileo dovrebbe essere accompagnata da una bolla di scomunica per chiunque ne fa mercato: attraverso inutili lavori pubblici, “Grandi opere”, speculazioni edilizie e immobiliari. Un Giubileo solo spirituale: un sogno molto ingenuo, purtroppo. Perché sotto il manto giubilare accade di tutto, perfino che si approvi la costruzione di un grande porto privato a Fiumicino, una vera minaccia per l’ambiente e per la coesione sociale dell’intero Lazio. Nell’Urbe, più modestamente, si torna forsennatamente a restaurare le già iper-restaurate fontane storiche (quelle di Piazza Navona, di Piazza Farnese, di Piazza Santa Maria in Trastevere…), e monumenti come il berniniano Ponte Sant’Angelo. È uno degli effetti perversi del modo demenziale con cui abbiamo gestito i soldi del PNRR: mentre monumenti e chiese periferiche collassano senza restauri per assenza di fondi, nei grandi centri si corre a rotta di collo per spendere i milioni Pnrr dove non sarebbe necessario alcun intervento. Vincono spesso imprese formalmente in regola, ma senza qualificazione tecnica: che dopo, quando va bene, subappaltano a veri restauratori. Ma se il miglior restauro è quello che non si fa (cioè evitando questo passaggio, comunque traumatico, attraverso la manutenzione preventiva inutilmente predicata da Giovanni Urbani), come qualificare il restauro che si fa pur non dovendolo fare?

Più sono neri gli affari del Giubileo, più è nero il colore politico del governo, più le antiche pietre di Roma devono essere accecantemente bianche: come i denti dei divi con le veneers. Non è, del resto, un problema solo italiano: per fare risplendere Notre Dame come una sala da ballo, più che un restauro si è condotta una ricostruzione, con spregio delle varie Carte del restauro pur sottoscritte dalla Francia, e delle buone pratiche. A Roma, le vittime designate sono le fontane: non importa se i restauri sono recentissimi, non importa che sia inutile (e inevitabilmente incidente sul marmo) togliere il calcare che inizierà subito a riformarsi. Il bianco deve trionfare. Sarà forse uno dei provvedimenti del governo contro la sostituzione etnica, ma anche il Moro di Gian Lorenzo Bernini, che in Piazza Navona danza sulla sua conchiglia lottando con un grande pesce, è stato sbiancato come fosse lavato ‘con lo spic e span’: un nero di meno a delinquere nelle nostre piazze, perbacco!

C’è qualcosa di terribile in questo gettare denaro pubblico dalla finestra, facendo danni e non facendo invece quello che si dovrebbe e potrebbe. Ma c’è anche qualcosa di più profondo. Tutto il pensiero occidentale sul patrimonio culturale è un pensiero sull’invecchiamento e sulla decadenza: e, al tempo stesso, sulla cura necessaria. Non alludo alla tradizione di meditazioni sulle rovine, o addirittura sulle macerie: parlo invece della meditazione su ciò che è ancora in piedi, ma è comunque imperfetto, compromesso, segnato. Il patrimonio è un insieme di lacune, una presenza continuamente crivellata di assenze: è̀, in qualche modo, il luogo in cui celebriamo la fragilità̀, e il senso del limite. La perdita, e cioè la lacunosità, l’incompletezza sono la condizione normale delle antiche città che ci accolgono oggi: accettare tutto questo, significa mettersi alla scuola dell’imperfezione, del compromesso, dell’accettazione del limite.

Tutto il contrario della menzognera e commerciale retorica della perfezione della grande arte, e dei mirabolanti restauri che ci restituirebbero, immancabilmente, “‘l’opera come è uscita dalla mani dell’artista”: un’arte che ci viene presentata, e venduta, come se non avesse una storia, un vissuto, una materia. Invece di accettare la patina del tempo, di prendere atto delle nostre rughe e dei nostri limiti in ogni campo, vogliamo essere perfetti in un mondo perfetto: non importa se tutto è finto. E anche il Giubileo non è occasione di autentico rinnovamento spirituale, ma la sagra della finzione e della menzogna. In una Roma tutta bianca, in una Roma che sembra fatta di polistirolo, come non pensare al dimenticato “principale” di tutta la baracca titolare del Giubileo? “Guai a voi, che assomigliate a sepolcri imbiancati!” (Matteo, 23).

Il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2024

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