Quando il grande carrozzone mediatico si mette in moto, è difficile fermarlo. Le bufale si cristallizzano in verità ufficiali, i sospetti diventano certezze, e l’“opinione pubblica” finisce per ingoiare bocconi avvelenati senza neanche accorgersene. È successo con il cosiddetto Russiagate, l’ossessione americana per l’ingerenza russa nelle elezioni presidenziali del 2016. Secondo la narrazione ufficiale, la Russia avrebbe manipolato milioni di elettori americani attraverso una vasta campagna di disinformazione su Twitter, riuscendo a far eleggere Donald Trump. Una storia perfetta, piena di cattivi, complotti e ingenui cittadini manipolabili. Peccato che, come spesso accade, la realtà sia molto meno spettacolare e molto più banale.
Un recente studio pubblicato su Nature Communications da un team di ricercatori composto da Gregory Eady, Tom Paskhalis, Jan Zilinsky, Richard Bonneau, Jonathan Nagler e Joshua A. Tucker ha smontato pezzo per pezzo questo castello di carte. E lo ha fatto con una precisione chirurgica, usando dati e prove empiriche che lasciano poco spazio alle interpretazioni fantasiose. Ma partiamo dall’inizio.
L’origine del mito
Nel 2016, mentre Hillary Clinton e Donald Trump si sfidavano in una delle campagne elettorali più polarizzate della storia recente, un’ombra iniziò ad aleggiare sul processo democratico statunitense. Quest’ombra aveva un nome: Internet Research Agency (IRA), un’organizzazione russa accusata di condurre campagne di disinformazione sui social media per influenzare le elezioni straniere. La tesi ufficiale era che l’IRA avesse utilizzato account falsi su Twitter per diffondere propaganda pro-Trump, seminare discordia e manipolare l’opinione pubblica americana.
I media americani, sempre pronti a scovare un nemico esterno per giustificare i propri fallimenti interni, cavalcarono la notizia con entusiasmo. I titoloni si sprecarono: “La Russia ha manipolato le elezioni americane!”, “Twitter infestato dai troll russi!”, “Democrazia americana sotto attacco!”. E via con reportage, inchieste e dichiarazioni allarmate di politici e funzionari governativi. Ma c’era un problema: nessuno si era preso la briga di verificare se questa presunta manipolazione avesse davvero avuto un impatto concreto sugli elettori.
Dati contro narrazioni
Lo studio di Eady e colleghi ha finalmente portato un po’ di rigore scientifico in questa cacofonia di accuse e supposizioni. Utilizzando dati longitudinali di sondaggi legati ai feed Twitter di cittadini americani, i ricercatori hanno esaminato la relazione tra l’esposizione ai contenuti dei troll russi e i cambiamenti nelle opinioni politiche e nei comportamenti di voto durante le elezioni del 2016.
I risultati sono sconcertanti per chiunque abbia creduto alla favola dell’influenza russa. Innanzitutto, l’esposizione ai contenuti dell’IRA era tutt’altro che diffusa: solo l’1% degli utenti rappresentava il 70% delle esposizioni ai tweet dei troll russi. Una concentrazione impressionante, che dimostra quanto fosse limitata la portata effettiva della campagna di disinformazione. Non solo: questa esposizione era fortemente concentrata tra gli utenti che si identificavano già come Repubblicani. In altre parole, coloro che erano più esposti alla propaganda russa erano già schierati con Trump.
L’insignificanza dell’influenza russa
Ma c’è di più. Anche se l’IRA fosse riuscita a raggiungere milioni di utenti, il volume dei loro contenuti era insignificante rispetto alla mole di informazioni provenienti dai media tradizionali e dai politici americani. Durante l’ultimo mese della campagna elettorale, gli utenti erano esposti in media a 4 post al giorno provenienti dai troll russi, mentre ricevevano 106 post dai media nazionali e 35 dai candidati politici americani. Una differenza abissale. Pensare che 4 miseri tweet al giorno potessero avere un impatto maggiore di centinaia di contenuti provenienti da fonti ben più autorevoli è, semplicemente, ridicolo.
E non finisce qui. Lo studio non ha trovato alcuna relazione significativa tra l’esposizione ai contenuti dell’IRA e i cambiamenti nelle opinioni politiche, nella polarizzazione o nei comportamenti di voto. Chi era esposto alla propaganda russa non ha cambiato idea su Trump o Clinton, non è diventato più polarizzato e non ha modificato il proprio voto. I risultati suggeriscono che l’influenza russa, per quanto strombazzata dai media, era sostanzialmente una bolla di sapone.
La fabbrica della paura
Perché allora questa storia ha avuto tanto successo? Perché la narrativa dell’influenza russa ha attecchito così profondamente nell’immaginario collettivo? La risposta è semplice: fa comodo. Fa comodo ai media, che hanno bisogno di storie sensazionali per attirare lettori e spettatori. Fa comodo ai politici, che possono scaricare le proprie responsabilità su un nemico esterno. E fa comodo a chiunque abbia interesse a delegittimare risultati elettorali scomodi.
La fabbrica della paura funziona così: si prende un fatto reale – in questo caso, l’esistenza di una campagna di disinformazione russa – e lo si ingigantisce fino a farlo diventare una minaccia esistenziale. Si seminano dubbi sulla legittimità delle elezioni, si alimenta la paranoia collettiva e si costruisce un nemico contro cui combattere. Poco importa se le prove concrete scarseggiano: ciò che conta è mantenere alta l’attenzione e bassa la capacità critica degli elettori.
Il vero pericolo
Ma il vero pericolo non sono i troll russi. Il vero pericolo è la capacità dei media e dei politici di manipolare l’opinione pubblica attraverso la costruzione di narrazioni false o esagerate. È la disponibilità degli elettori a credere a qualsiasi cosa venga loro raccontata, senza porsi domande. È l’incapacità di distinguere tra una reale minaccia alla democrazia e una semplice campagna di propaganda mal riuscita.
Lo studio di Eady e colleghi è una boccata d’aria fresca in questo clima di isteria collettiva. Ci ricorda che la realtà è spesso molto più complessa di quanto i titoloni dei giornali vogliano farci credere. E ci invita a non abbassare la guardia, non contro i troll russi, ma contro la manipolazione interna che, travestita da patriottismo e difesa della democrazia, finisce per minare proprio quei valori che dice di voler proteggere.
La polarizzazione come pretesto
Una delle accuse più frequenti contro la campagna di disinformazione russa è che essa avrebbe contribuito a polarizzare ulteriormente la società americana, seminando discordia e alimentando le divisioni interne. Ma anche su questo punto, lo studio pubblicato su Nature Communications svela una realtà ben diversa. I ricercatori hanno analizzato se l’esposizione ai contenuti dei troll russi fosse associata a un aumento della polarizzazione percepita tra Trump e Clinton. La risposta? Un sonoro no.
I dati mostrano che l’esposizione ai tweet dei troll non ha avuto alcun effetto significativo sulle percezioni di polarizzazione degli elettori. Chi vedeva quei contenuti non si è convinto che Trump e Clinton fossero più distanti di quanto già pensasse. E anche in questo caso, l’esposizione era prevalentemente concentrata tra gli elettori repubblicani più convinti, coloro che già vedevano il mondo in bianco e nero e che di certo non avevano bisogno di troll russi per convincersi della malvagità di Hillary Clinton.
La polarizzazione negli Stati Uniti è un problema serio e reale, ma attribuirne la responsabilità a una manciata di troll russi è non solo riduttivo, ma anche fuorviante. È un modo per evitare di guardare in faccia le vere cause di questa divisione: l’erosione del discorso pubblico, l’incapacità dei media di fornire informazioni equilibrate, il cinismo della politica americana e la crescente sfiducia nelle istituzioni.
Il ruolo dei media americani
Se qualcuno ha avuto un ruolo cruciale nella polarizzazione dell’elettorato, sono proprio i media americani. Invece di analizzare con freddezza e oggettività le dinamiche politiche interne, hanno preferito cavalcare l’onda della paura e del sensazionalismo. Ogni dichiarazione controversa di Trump, ogni scandalo di Clinton, ogni sospetto di ingerenza straniera è stato amplificato fino a diventare un urlo assordante. In questo frastuono, la possibilità di un dialogo razionale si è dissolta.
I media hanno bisogno di storie semplici e di cattivi da combattere. La Russia è stata il cattivo perfetto: un nemico storico, con un passato di spionaggio e manipolazione, guidato da un leader autoritario come Vladimir Putin. Chi meglio di loro poteva incarnare la minaccia alla democrazia americana? Ma così facendo, i media hanno trasformato un problema reale – la disinformazione sui social media – in una caricatura, spostando l’attenzione dai veri problemi interni agli Stati Uniti.
L’alibi perfetto per i Democratici
Anche il Partito Democratico ha trovato nella narrativa dell’ingerenza russa un alibi perfetto per giustificare una sconfitta inaspettata e dolorosa. Invece di fare autocritica e chiedersi perché milioni di elettori avessero scelto un personaggio controverso come Trump, i Democratici hanno preferito puntare il dito contro un nemico esterno. La colpa non era della loro incapacità di intercettare le esigenze degli americani, né della debolezza della candidatura di Hillary Clinton. No, la colpa era dei troll russi e delle loro campagne di disinformazione.
Questa strategia ha permesso ai Democratici di evitare un confronto onesto con le proprie debolezze e di ritardare una necessaria riforma interna. Ma ha anche contribuito ad alimentare una sfiducia diffusa nella legittimità delle elezioni americane. Se le elezioni possono essere manipolate da troll stranieri, allora nessun risultato è davvero sicuro. E così, paradossalmente, la difesa della democrazia si è trasformata in un attacco alla sua stessa credibilità.
L’ossessione per il Russiagate
Il Russiagate è diventato una vera e propria ossessione per la politica e i media americani. Per anni, indagini, commissioni parlamentari e reportage giornalistici hanno cercato di dimostrare che la Russia aveva interferito in modo decisivo nelle elezioni del 2016. Ma alla fine, le prove concrete di un’effettiva manipolazione degli elettori sono rimaste elusive.
Lo stesso rapporto Mueller, che avrebbe dovuto svelare la grande cospirazione, si è concluso con un nulla di fatto. Certo, sono stati identificati casi di interferenza russa e violazioni delle norme sui social media, ma nulla che potesse giustificare l’idea di un’elezione rubata o manipolata su larga scala. Eppure, l’ossessione per il Russiagate ha continuato a dominare il dibattito pubblico, alimentando teorie complottiste e polarizzando ulteriormente l’elettorato.
L’ironia della manipolazione
C’è un’ironia amara in tutta questa vicenda. Mentre i media e i politici americani accusavano la Russia di manipolare l’opinione pubblica, erano loro stessi a manipolare i cittadini attraverso una narrativa distorta e fuorviante. La paura della manipolazione è diventata essa stessa uno strumento di manipolazione. La difesa della democrazia è diventata una scusa per evitare il confronto con la realtà.
Lo studio di Nature Communications ci ricorda che, per quanto sofisticata possa essere una campagna di disinformazione, la capacità di influenzare gli elettori è limitata. Le persone non sono così facilmente manipolabili come alcuni vorrebbero farci credere. La vera minaccia alla democrazia non viene dai troll russi, ma dalla nostra incapacità di analizzare i fatti con razionalità e spirito critico.