In un Paese in cui la libertà di stampa è garantita dalla Costituzione, la realtà è più contorta di un thriller di Le Carré. Le testate giornalistiche italiane – una volta baluardi dell’informazione indipendente – sono oggi ridotte a marionette nelle mani di pochi burattinai con portafogli più gonfi di un conto offshore. Se negli anni ’80 e ’90 il conflitto di interessi aveva un volto sorridente e ceronato – quello di Silvio Berlusconi – oggi il gioco è più sofisticato, con protagonisti che si muovono silenziosi tra boardroom e consigli di amministrazione. Cairo, Agnelli, Berlusconi, Caltagirone, Angelucci: nomi che contano più dei titoli in prima pagina.
I numeri sono implacabili: dal 2013 al 2020, secondo i dati Ads, la stampa italiana ha subito una decimazione degna di una ritirata napoleonica. Corriere della Sera, La Repubblica, Il Sole 24 Ore e La Stampa hanno perso tra il 44% e il 54% delle copie. Non è solo un calo fisiologico dovuto all’avvento del digitale; è il prezzo da pagare quando i giornali diventano organi di propaganda piuttosto che fonti di notizie. Un giornalismo servile che, come un cameriere troppo zelante, serve ai padroni di casa solo ciò che vogliono sentirsi dire.
Chi sono i padroni? Industriali, finanzieri e magnati che, con una mano sul telecomando e l’altra sul bilancio di qualche gruppo editoriale, decidono quali verità devono arrivare ai cittadini. Urbano Cairo, con il Corriere della Sera e La7, recita la parte del cavaliere solitario ma, in fin dei conti, risponde agli stessi interessi economici dei suoi colleghi Agnelli-Elkann, padroni di Repubblica e La Stampa. Poi ci sono i Berlusconi con Mediaset, i Caltagirone con Il Messaggero e Il Mattino, e gli Angelucci con il trittico Il Giornale, Il Tempo e Libero. Una ragnatela intricata di connessioni e conflitti d’interessi in cui il lettore è l’unica mosca intrappolata.
L’agonia dei giornali di carta non è un dramma solo italiano. Nel Regno Unito, tra il 2013 e il 2020, i principali quotidiani hanno registrato un calo del 30%. Negli Stati Uniti, il Washington Post ha perso 77 milioni di dollari nel solo 2023, dimezzando il numero dei lettori rispetto al 2020. Ma mentre all’estero si cerca almeno di salvare le apparenze con qualche inchiesta scottante o un editoriale fuori dal coro, in Italia la strategia è quella dell’autoconservazione. Piuttosto che rischiare di perdere il controllo della narrazione, si preferisce perdere lettori.
Non è un caso che oggi, chi vuole informarsi davvero, spesso si rifugi sui social media o su piattaforme indipendenti. Ma anche lì il gioco si fa duro: perché se è vero che su YouTube o TikTok è ancora possibile trovare voci fuori dal coro, è altrettanto vero che le piattaforme sono diventate terreni di scontro geopolitico. TikTok, unico social non controllato dai colossi americani, viene demonizzato con l’accusa di essere un veicolo di spionaggio cinese e fake news. Peccato che le fake news non siano una specialità esclusiva dei social: i quotidiani tradizionali ne hanno fatto un’arte, solo con più eleganza e con il timbro dell’ufficialità.
A rendere il panorama ancora più soffocante ci pensano le agenzie di stampa internazionali: Associated Press, France Presse e Reuters. Questi colossi, con la scusa di fornire notizie “imparziali” da ogni angolo del globo, dettano in realtà la linea narrativa dominante. Una linea che, guarda caso, coincide sempre con gli interessi geopolitici dei Paesi occidentali. Se domani Associated Press decidesse che un colpo di stato in Sudamerica è una “transizione democratica”, state pur certi che i nostri giornali riporterebbero la notizia con lo stesso lessico, senza porsi troppe domande.
In questo gioco di specchi deformanti, la libertà d’informazione è diventata una barzelletta raccontata a bassa voce. I pochi giornalisti che ancora osano sfidare il sistema vengono relegati ai margini, mentre i loro colleghi più “allineati” siedono nei salotti televisivi a pontificare sulla “crisi della stampa” con l’aria grave di chi sa di far parte del problema, ma non può dirlo.
Se la censura tradizionale consisteva nel bloccare le notizie scomode, quella moderna è più subdola: consiste nel sommergere il pubblico con un tale volume di informazioni insignificanti da rendere impossibile distinguere il vero dal falso, il rilevante dall’irrilevante. Un rumore di fondo continuo, in cui ogni tanto si inserisce la “notizia bomba” studiata per distrarre l’opinione pubblica da scandali ben più gravi.
E così, mentre ci indigniamo per l’ultima sparata di qualche politico o per l’ennesimo dibattito surreale in un talk show, ci sfuggono i veri centri di potere che, dietro le quinte, continuano a tirare le fila. I padroni dell’informazione sanno che il controllo della narrazione è più importante del controllo delle notizie. Perché, come diceva Orwell, chi controlla il passato controlla il futuro, e chi controlla il presente controlla il passato.
L’infiltrazione dei poteri profondi nei gangli dello stato e dei media tradizionali
Se i giornali sono nelle mani di pochi, i poteri che li muovono sono ancora meno visibili e ben più insidiosi. La trama si infittisce quando si passa dalla superficie delle proprietà editoriali alle ombre dei poteri profondi. Quei poteri che non compaiono mai nelle foto di gruppo dei grandi eventi, ma che determinano chi salirà su quel palco e quali parole pronuncerà. È l’oligarchia, il vero motore immobile dietro le decisioni politiche e mediatiche.
Non stiamo parlando di teorie del complotto, ma di una realtà tangibile che si manifesta attraverso dinamiche fin troppo evidenti. In Italia, come altrove, i poteri profondi si annidano nei gangli vitali dello Stato: magistratura, servizi segreti, apparati di sicurezza, agenzie di regolamentazione. Ma soprattutto, si insinuano nei media tradizionali, diventando i burattinai delle redazioni e delle linee editoriali.
Non è un caso che le notizie sui grandi scandali finanziari o politici vengano spesso ridimensionate, diluite o addirittura ignorate. Le inchieste scomode si fermano sempre a un passo dal coinvolgere i grandi nomi, come se un invisibile muro di gomma le respingesse. Quando qualche giornalista si spinge troppo oltre, ecco che parte la macchina del fango: delegittimazione, attacchi personali, e se necessario, l’isolamento professionale. È un gioco a cui partecipano tutti, chi per convenienza, chi per paura, chi per il semplice piacere di obbedire al padrone.
In questa dinamica, i direttori dei giornali diventano pedine di un sistema più grande di loro. Devono bilanciare l’apparente indipendenza con l’effettiva sudditanza ai poteri che li hanno messi su quella poltrona. E i giornalisti? Molti fanno buon viso a cattivo gioco, altri si adeguano in silenzio, qualcuno resiste ma sa che il prezzo da pagare è alto. Il risultato è un’informazione sempre più simile a un bollettino di regime, dove le notizie vengono dosate e filtrate per non disturbare gli equilibri stabiliti dai poteri forti.
E non è solo una questione italiana. In Europa, negli Stati Uniti, la situazione è identica. La linea editoriale si allinea con le direttive di apparati che hanno il compito di garantire che la narrativa dominante rimanga salda. Gli interessi geopolitici dei Paesi occidentali richiedono una stampa compiacente, pronta a trasformare una guerra di aggressione in una missione umanitaria, una crisi economica in una fase di transizione, un dissidente in un terrorista.
Le agenzie di intelligence giocano un ruolo cruciale in questa manipolazione. Le famose “fonti anonime vicine ai servizi” che riempiono le pagine dei giornali non sono altro che canali di propaganda. Quando il potere decide che è il momento di creare un nemico, ecco che spuntano dossier segreti, intercettazioni pilotate, rivelazioni che hanno il sapore del thriller ma la sostanza della menzogna.
Così, mentre il pubblico legge con attenzione i titoli dei giornali e guarda i talk show televisivi, la realtà viene riscritta in tempo reale. Una realtà in cui i veri responsabili delle crisi restano sempre nell’ombra, protetti da un sistema che li difende e li legittima. E il cittadino medio, intrappolato tra notizie costruite e verità omesse, finisce per perdere ogni fiducia nelle istituzioni, nella politica e soprattutto nell’informazione.
I poteri profondi hanno vinto quando hanno trasformato il giornalismo in uno strumento di controllo. Non servono più le censure esplicite; basta una telefonata, una strizzata d’occhio, una promessa di carriera per trasformare una verità scottante in una notizia di secondo piano. Il giornalismo che dovrebbe illuminare le zone d’ombra si è trasformato nella torcia che illumina solo ciò che fa comodo ai padroni.
L’uso dei social media come nuovo strumento di controllo delle coscienze
Se i giornali sono stati trasformati in megafoni per le élite, i social media hanno rappresentato inizialmente una boccata d’aria fresca. Una nuova piazza pubblica dove ognuno poteva dire la sua, dove il dissenso poteva fiorire senza passare attraverso il filtro dei direttori di testata e dei grandi gruppi editoriali. Una speranza di democratizzazione dell’informazione. Ma la speranza, si sa, è merce fragile nelle mani del potere.
Il caos (ri)creativo dei social media ha presto attirato l’attenzione degli stessi poteri che controllano la stampa tradizionale. Il risultato? Una nuova forma di controllo, più sottile e pervasiva, che si esercita attraverso algoritmi, moderazioni opache e campagne di disinformazione scientificamente orchestrate. Il mondo dei social, che sembrava anarchico e libero, si è trasformato in un gigantesco laboratorio di ingegneria sociale, dove le coscienze vengono modellate come argilla.
I giganti del web — Facebook, Twitter, Instagram, YouTube — non sono altro che nuovi monopoli della comunicazione, gestiti da altrettanti ultraricchi con interessi ben definiti. Zuckerberg, Musk, Bezos, Page: nomi diversi ma intenti simili. Dietro l’apparente neutralità tecnologica, questi colossi controllano ciò che vediamo, leggiamo e condividiamo. Gli algoritmi decidono chi avrà visibilità e chi verrà confinato nell’irrilevanza digitale. Una sorta di censura soft che punisce il pensiero critico e premia il conformismo.
I social media sono un’arena dove la libertà di espressione esiste finché non diventa troppo scomoda. Quando il dissenso si organizza, quando le voci fuori dal coro cominciano a diventare pericolose, ecco che scatta il “fact-checking” selettivo, il blocco temporaneo, la demonetizzazione dei contenuti, fino alla cancellazione definitiva degli account. E mentre si blatera di lotta alle fake news, il problema delle notizie false non riguarda solo i social, ma soprattutto i media tradizionali, che con le loro menzogne istituzionalizzate hanno preparato il terreno a questa nuova censura.
La pandemia di COVID-19 è stata l’occasione perfetta per testare su scala globale queste nuove forme di controllo. Ogni informazione che mettesse in dubbio la narrativa ufficiale veniva bollata come disinformazione. Non importava se fosse supportata da studi scientifici o da dati reali: la verità era quella stabilita dalle autorità, e chi osava contestarla veniva espulso dalla conversazione pubblica. Il controllo non si esercita più solo attraverso la proibizione, ma attraverso l’isolamento digitale. Una moderna forma di ostracismo che condanna al silenzio chi non si allinea.
E poi c’è TikTok, il guastafeste cinese che ha messo in crisi il monopolio occidentale sui social. Di proprietà di ByteDance, TikTok è diventato rapidamente un fenomeno globale, soprattutto tra i giovani. Un successo che ha scatenato il panico nei corridoi del potere. La narrativa ufficiale? TikTok è una minaccia alla sicurezza nazionale, un cavallo di Troia per la propaganda cinese. La verità? TikTok rappresenta un’alternativa sfuggente al controllo dei colossi americani. E in un mondo dove il controllo dell’informazione è la chiave del potere, un social non allineato è un pericolo da neutralizzare.
Ogni volta che un risultato elettorale non piace ai padroni del discorso, i social vengono messi sotto accusa. È successo con l’elezione di Trump nel 2016, quando si è scatenata la caccia alle streghe contro le interferenze russe. Peccato che studi successivi, come quello pubblicato su Nature nel 2023, abbiano dimostrato che l’influenza della famigerata Internet Research Agency russa fu praticamente irrilevante. Ma la narrativa della manipolazione social era troppo comoda per essere smentita.
Alla fine, il problema non sono solo le fake news sui social, ma la fabbrica di menzogne istituzionali che parte dai media tradizionali e si riversa sui social come un fiume avvelenato. Il vero controllo non si esercita solo attraverso la censura, ma attraverso la saturazione delle menti con narrazioni preconfezionate. Il dissenso, quando sopravvive, è costretto a muoversi nelle pieghe di un sistema che ha già deciso cosa dobbiamo pensare.
Le guerre per procura e le strategie dei gruppi di potere nell’alterare le opinioni pubbliche attraverso fake news e manipolazioni mediatiche
C’è un metodo infallibile per trascinare un Paese in guerra senza che i cittadini se ne accorgano: manipolare l’informazione fino a renderla un’arma. Una guerra, ormai, non si combatte solo con i carri armati e i missili, ma con titoli di giornale, servizi televisivi, e post sui social. La guerra per procura non è solo quella combattuta sul campo tra eserciti mandati avanti dai grandi burattinai geopolitici, ma anche quella combattuta nelle menti dei cittadini, armati di bugie sapientemente confezionate.
In Italia, come nel resto dei Paesi occidentali, le guerre non si dichiarano più; si giustificano. Si creano le condizioni affinché l’opinione pubblica le accetti come inevitabili o addirittura necessarie. Un dittatore da eliminare, una democrazia da salvare, un popolo da liberare: sono queste le narrazioni che preparano il terreno ai bombardamenti. Il copione è sempre lo stesso, e chi possiede i mezzi d’informazione ha il compito di recitarlo fino alla nausea.
Ogni conflitto recente è passato attraverso questa fase di costruzione narrativa. La guerra in Iraq del 2003 è forse l’esempio più clamoroso: armi di distruzione di massa mai trovate, dossier falsificati, e giornali che rilanciavano le bugie come verità assolute. Il risultato? Un Paese devastato, centinaia di migliaia di morti, e nessun responsabile tra i propagandisti di guerra. I media tradizionali hanno trasformato una guerra di aggressione in una crociata per la libertà, e chiunque osasse mettere in dubbio la narrativa veniva etichettato come anti-americano o simpatizzante dei dittatori.
Ora la stessa dinamica si ripete con la guerra in Ucraina. La complessità storica e geopolitica viene ridotta a una favoletta in bianco e nero: buoni contro cattivi, democrazia contro tirannia. I grandi giornali italiani e occidentali si sono allineati perfettamente alla narrativa atlantista, ignorando qualsiasi voce critica. Se l’Europa rischia la rovina economica per una guerra che non le appartiene, poco importa. La verità è sacrificabile sull’altare degli interessi geopolitici.
Le fake news non nascono sui social; sono il frutto di una macchina della propaganda che parte dall’alto. I social diventano solo lo strumento per amplificare queste menzogne. E quando i social non si allineano, scatta la censura. TikTok viene accusato di essere un canale di disinformazione russa o cinese, mentre nessuno si domanda perché Facebook, Twitter e YouTube diffondano senza sosta le bugie ufficiali dei governi occidentali. La guerra ibrida, in fondo, è questa: un conflitto dove la verità è il primo obiettivo da eliminare.
Eppure, quando qualcosa sfugge al controllo, quando una narrazione alternativa riesce a guadagnare terreno, il potere reagisce con isteria. Trump eletto nel 2016 grazie alle fake news russe? Una teoria smentita dagli studi, ma utile per delegittimare un voto scomodo. TikTok dietro i risultati elettorali inattesi in Romania? Una scusa perfetta per giustificare l’incapacità della politica tradizionale di comprendere un elettorato sempre più distante. La manipolazione mediatica è questa: spostare il discorso, deviare l’attenzione, trasformare la realtà in una narrativa utile ai potenti.
Le opinioni pubbliche vengono trascinate verso la guerra non perché lo vogliono, ma perché vengono indotte a credere che sia l’unica opzione possibile. Un meccanismo collaudato, ripetuto con precisione chirurgica ogni volta che gli interessi delle élite richiedono un nuovo conflitto. E così, mentre i media indipendenti vengono soffocati e i social controllati, la propaganda di guerra scorre senza ostacoli, un fiume avvelenato che porta le società occidentali verso il baratro.
L’informazione dovrebbe essere il baluardo contro le follie belliche, ma è diventata la loro cheerleader. Giornalisti travestiti da esperti militari, editorialisti che fanno il tifo per gli interventi armati, notizie che sembrano scritte direttamente dagli uffici del ministero della Difesa. E il pubblico, disorientato e stanco, finisce per accettare la guerra come una pioggia inevitabile.
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Il giornalismo libero non muore con un colpo di pistola o una censura eclatante. Scompare. Sfuma lentamente come un dipinto lasciato al sole, mentre al suo posto rimane una cornice vuota, brillante e decorata. Dentro, il nulla: notizie inerti, verità addomesticate, indignazioni di plastica.
I padroni dell’informazione non hanno bisogno di spegnere la luce: basta che distolgano lo sguardo. E noi, ipnotizzati dal chiacchiericcio mediatico e dalle indignazioni telecomandate, ci accorgiamo troppo tardi che ciò che conta davvero è già evaporato. Non restano scandali, non restano inchieste, non resta coraggio. Resta solo una superficie lucida che riflette i volti di chi ha deciso che la verità è un lusso pericoloso.
E mentre i pochi giornalisti veri finiscono ai margini, il pubblico si accomoda nel teatro delle ombre. Le notizie sono perfette, le narrazioni impeccabili, i conflitti di interesse invisibili. Tutto sembra funzionare. Fino al momento in cui ti volti e scopri che, in fondo, non c’è più niente.