Clint Eastwood è generalmente riconosciuto come uno dei cineasti politici più distintivi e originali. Ciò che sorprende del suo nuovo film, Giurato Numero 2, è che la politica che porta in scena è essenzialmente e potentemente anti-politica. È un thriller avvincente e veloce, incentrato sull’aula di tribunale (ma non confinato ad essa), a cui Eastwood, a novantaquattro anni, applica con un tocco leggerissimo tutta la sua intensità narrativa. (Il film dura quasi due ore, ma arriva alla conclusione con una rapidità sorprendente.) Eastwood ritocca appena la superficie convenzionale della storia, ma la infonde di una serie di idee e ideali che la rendono amaramente ironica e ferocemente critica.
L’azione si svolge a Savannah, in Georgia, dove un giovane giornalista di costume, Justin Kemp (Nicholas Hoult), è convocato per far parte di una giuria in un momento poco opportuno: sua moglie, Allison Crewson (Zoey Deutch), insegnante, è nell’ultimo trimestre di una gravidanza a rischio. Ma il giudice Thelma Stewart (Amy Aquino) lo obbliga a rispondere alla chiamata, e presto Justin viene selezionato come giurato per un processo di omicidio molto seguito. La vittima è una giovane donna di nome Kendall Carter (Francesca Eastwood), mentre l’accusato è un giovane di nome James Sythe (Gabriel Basso), incriminato per averla uccisa dopo una violenta discussione in un bar. Nel frattempo, la procuratrice Faith Killebrew (Toni Collette) è in corsa per diventare procuratore distrettuale (il suo slogan è “Faith per il popolo”), e non è la sola a credere che una condanna possa aumentare notevolmente le sue probabilità di elezione.
Per gli abituali frequentatori dei film di Eastwood, quest’ultimo dettaglio è un campanello d’allarme: un segnale che Eastwood sta per colpire. Uno dei temi principali della carriera da regista di Eastwood, a partire dal suo primo lungometraggio, Brivido nella notte del 1971, è l’orrore per la demagogia, per l’uso del potere o della posizione per costruire un’immagine pubblica a proprio vantaggio. Per Eastwood, la stessa natura di un’identità pubblica — come in Bronco Billy, Bird, J. Edgar o Jersey Boys — rappresenta una trappola cupamente distruttiva. Che si tratti del dj che seduce un’ascoltatrice in Brivido nella notte, dei marines che si prestano a una foto pubblicitaria in Flags of Our Fathers, dell’abuso del potere della polizia per rafforzare una reputazione in Changeling, dell’eroico capitano alle prese con la fama improvvisa in Sully, o della guardia tormentata dai riflettori pubblici in Richard Jewell, Eastwood considera la celebrità uno strumento diabolico e vede il divario tra pubblicità e realtà come una botola verso l’inferno.
In Giurato Numero 2 (scritto da Jonathan Abrams), come nel classico dramma processuale La parola ai giurati, il protagonista è uno scettico solitario. Justin, ascoltando le prove, dubita della colpevolezza dell’accusato, mentre i suoi compagni di giuria ritengono che il caso sia semplice e chiuso (e questo rivela incidentalmente quanto sia sconsiderata tale convinzione). Tuttavia, a differenza del film precedente, il dubbio di Justin non si basa solo su un esame razionale delle prove, ma su una conoscenza personale. Evitando quanti più spoiler possibile, man mano che il caso si sviluppa, Justin scopre di avere un legame con l’incidente centrale. Deve quindi decidere dove risiede l’equilibrio tra principio e interesse: nello sforzo di scagionare un uomo innocente o nel proteggere se stesso. Justin è un alcolista in fase di recupero, salvato dal fondo grazie alla fiducia di Allison, e ciò che pensa di rivelare rischia di compromettere quella fiducia proprio mentre stanno per diventare genitori. Nel frattempo, le sue domande penetranti nella sala della giuria portano altri giurati a dubitare — e persino a compiere azioni legalmente discutibili che si rivelano più illuminanti delle formalità legali del processo stesso.
Gli intrecci delle trame si stringono progressivamente: lo sforzo di Justin di scagionare James, proteggendo al contempo la sua reputazione e il suo matrimonio; l’ambizione personale di Faith di ottenere una condanna per favorire la sua carriera politica; l’orgoglio della polizia nel chiudere rapidamente il caso; e i conflitti interiori degli altri giurati, che iniziano a interrogarsi sui propri motivi e pregiudizi. In questo processo, Eastwood approfondisce le implicazioni della storia per i sistemi coinvolti — e per le istituzioni più grandi che li sostengono e i principi fondamentali che rappresentano. Fa esplicito riferimento al sistema della giuria popolare e ai difetti intrinseci ad esso, utilizzando un coro greco virtuale di discorsi legali: le conversazioni tra Faith e il suo avversario, un difensore pubblico di nome Eric Resnick (Chris Messina), che è anche un suo vecchio compagno di studi in legge. È etico per loro incontrarsi in un bar dopo le udienze per discutere del caso? Lo fanno comunque, apertamente, sfidando le conseguenze. Con audacia ancora maggiore, un altro giurato infrange la legge per fedeltà a un principio superiore e lascia che le carte cadano dove possono. E se Faith dovesse vincere le elezioni grazie a una condanna poi rivelatasi errata, cosa direbbe questo sulla sua legittimità e sul sistema elettorale stesso?
C’è un momento ironico e significativo in cui Faith, ormai dubbiosa del suo caso, consulta un testo di legge e trova un passaggio di Aristotele che afferma: “La legge è ragione priva di passione.” Giurato Numero 2 — ancora più di La rivincita delle bionde, che aveva messo in evidenza la stessa citazione — propone una visione della legge che si basa molto sulla passione, ma sulla giusta passione: una passione disinteressata nella ricerca della verità. (Nei loro ricordi dei giorni universitari, Faith ed Eric si ritrovano a riflettere ancora una volta sulla massima di un professore secondo cui la legge è “la verità in azione.”)
La storia di Eastwood poggia su una solida base di certezze, convinta che esista una verità oggettiva da scoprire in un evento come l’omicidio di Kendall e che solo la malevolenza o l’incompetenza possano impedirne la scoperta. Nel raccontarla, Eastwood adotta una forma silenziosamente sicura e pungentemente originale. Spesso le argomentazioni contrapposte dell’accusa e della difesa si alternano invece di essere mostrate in sequenza, e i loro riferimenti agli eventi danno vita a flashback che, lungi dall’offrire visioni contrastanti, rappresentano la situazione così com’è accaduta — ma in frammenti che riflettono punti di vista differenti, distillati dalle varie narrazioni e privi di informazioni salienti. (Anche i flashback dei ricordi dei personaggi sono fedeli, seppur frammentari; la visione della coscienza di Eastwood è severa.) La verità esiste, ma la sua occultazione deriva da ciò che rende la testimonianza imprecisa e le prove incomplete: vale a dire, l’incapacità di considerare le personalità e l’interesse personale dei testimoni, quella soggettività che si frappone ai fatti oggettivi.
La ricchezza visiva non è mai stata il punto forte di Eastwood; i suoi film sono sempre stati scarni ed essenziali, con uno stile che può essere definito quasi come un’astinenza dallo stile stesso. (Uno dei piaceri particolari di alcuni suoi film storici, come Bird, Changeling e Jersey Boys, è la sensazione che, attraverso il potere della memoria o l’amore per la musica, Eastwood si sia lasciato andare indulgendo in qualche sfumatura decorativa.) Ma negli ultimi anni il tono delle sue composizioni visive è cambiato: al posto di sguardi semplici e diretti, propone immagini realizzate con occhi spalancati, intrise di stupore e meraviglia, indignazione e sorpresa. Nei suoi film dell’ultimo decennio circa, ha compiuto un passo fuori dal mondo, passando dall’osservazione al giudizio, con un piede ancora saldo nel mondo dell’azione, che osserva da una distanza severa e chiarificatrice. In questa stagione di film firmati da registi veterani, Giurato Numero 2 condivide questa occasionalità utopistica con Megalopolis: il dramma realistico di Eastwood è tanto una fantasia quanto la visione futuristica di Coppola. Nel suo sogno di una legge libera dalla politica, in cui le chiassate elettorali non contaminano l’amministrazione della giustizia, Giurato Numero 2 suggerisce un conflitto americano non tra visioni politiche, ma tra chi politicizza e chi no. È una visione modesta quanto onnicomprensiva — e ingenua — come il sogno grandioso di Coppola di un grande dibattito, di un rinnovamento civico attraverso il discutere all’infinito di politica.
C’è un giusto fermento che si sta creando attorno a Giurato Numero 2 — non uno politico, ma uno legato all’industria cinematografica. Eastwood ha realizzato il film per la Warner Bros. (ora parte di Warner Bros. Discovery), lo studio con cui ha lavorato per mezzo secolo. Dopo il flop al botteghino del precedente film di Eastwood, Cry Macho, l’amministratore delegato dell’azienda, David Zaslav, avrebbe criticato gli esecutivi della compagnia per aver approvato il progetto, nonostante i dubbi commerciali, sulla base di quella lunga relazione professionale. Sebbene con Giurato Numero 2 lo studio abbia nuovamente supportato Eastwood, il piano di distribuzione del film mostra scarsa fiducia nelle sue potenzialità: sembra infatti che il film uscirà solo in poche sale, meno di cinquanta, senza progetti di ampliamento a livello nazionale — e si sta addirittura valutando di non pubblicare i risultati al botteghino, come invece è prassi abituale.
Sebbene l’insulto della compagnia a Eastwood sia, ai miei occhi, inequivocabile (e infatti non si è presentato alla première del film, domenica), lo vedo anche come una rivelazione involontaria di un’altra verità, più alta e incontestabile. Molti dei suoi film migliori — come Bird, Cacciatore bianco, cuore nero e Un mondo perfetto — sono stati dei flop al botteghino statunitense. Ora che Giurato Numero 2 riceve una distribuzione limitata come un film d’autore, la distanza permette di vedere con chiarezza che, invece di essere un regista popolare riconosciuto dai critici come un artista nonostante se stesso, Eastwood è stato un artista sin dall’inizio. La sua popolarità di massa può ora essere riconosciuta per quello che è: un felice accidente che ha reso possibile l’enorme portata della sua carriera, ma non essenziale per il suo posto nella storia del cinema.
The New Yorker, 30 ottobre 2024
[Traduzione di Alberto Piroddi]