Se il Novecento è stato il secolo dell’acciaio, il Ventunesimo appartiene ai dati. E quando si parla di dati, il nome che emerge in filigrana è sempre Google, il gigante che da anni non osserva il mercato, ma lo plasma a propria immagine e somiglianza. Navigare sul Web oggi è un’esperienza talmente Google-centrica che i suoi tentacoli sembrano intrecciati persino nei circuiti neurali dei nostri dispositivi. Per anni abbiamo accettato che il motore di ricerca diventasse l’involucro del sapere globale, che Chrome fosse la porta principale del web e che Gmail fosse sinonimo stesso di comunicazione digitale. Ora, però, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti tenta di sfidare questo leviatano con una manovra tanto ambiziosa quanto controversa: strappare Chrome dalle mani di Google.
In agosto, un tribunale del distretto di Washington D.C. ha sancito che Google non è solo un monopolista, ma agisce deliberatamente per restare tale. Questo verdetto potrebbe cambiare le regole del gioco, ma la partita in corso rischia di andare ben oltre il semplice browser. La proposta del D.O.J. è cristallina: smembrare Chrome, rendendolo un’entità indipendente, e costringere Google a licenziare i propri dati ai concorrenti a prezzo marginale. In teoria, questa rivoluzione dovrebbe spianare la strada a nuovi motori di ricerca e startup affamate di innovazione, ma in pratica il quadro resta nebuloso. Come al solito, Google ha gridato al complotto, definendo le richieste del governo un “intervento estremo” destinato a “imbrigliare l’accesso degli utenti al motore di ricerca più amato al mondo”.
Kent Walker, alto prelato del legalismo di Mountain View, ha insinuato che queste misure equivalgano a mettere un catenaccio sulla libertà digitale. Ma la retorica di Google appare più come l’eco di un impero preoccupato di perdere il controllo sui suoi sudditi, che non una reale difesa del bene comune. I paragoni con il caso Microsoft* del 2001 non mancano, ma questa volta la posta in gioco è infinitamente più alta: non si tratta solo di browser, ma di un intero ecosistema basato sul tracciamento, l’analisi e la vendita dei nostri comportamenti.
Chrome non è solo un browser; è il perno di un’architettura di sorveglianza globale. Ogni clic, ogni ricerca, ogni riempimento automatico di un form è una moneta virtuale che arricchisce il tesoro di Google. La giustizia americana propone di disinnescare questa bomba a orologeria, ma la vera domanda è: cosa succederà se Chrome verrà venduto? Un Chrome indipendente potrebbe rinunciare al tracciamento? O si trasformerà in una versione “free-to-play” in cui ogni funzione utile sarà nascosta dietro abbonamenti premium? E, più di tutto, possiamo davvero credere che il divorzio tra Google e Chrome spezzerà la catena dell’egemonia?
Anche qualora Chrome diventasse un’entità autonoma, il problema più grande resterebbe irrisolto: la persistenza del modello di business che monetizza la nostra attenzione. L’intero panorama tecnologico si è adattato a questa visione, e cambiare un singolo attore non significa cambiare il copione.
L’avvento dell’intelligenza artificiale ha già iniziato a destabilizzare i pilastri su cui si erge l’impero di Mountain View. ChatGPT, Perplexity e Arc stanno riscrivendo le regole della ricerca online, presentandosi come alternative che combinano intelligenza artificiale e navigazione web. Ma possiamo fidarci di questi nuovi player? O si tratta solo di pedine di un altro gioco orchestrato da Silicon Valley?
Google sostiene che l’intelligenza artificiale renderà obsoleti i tentativi di regolamentare il suo dominio. Questo, ovviamente, è un esercizio di narrazione che punta a rimanere il baricentro di ogni innovazione. Eppure, il timore più grande non è che Google perda la sua leadership, ma che questa leadership venga semplicemente sostituita da un altro colosso con gli stessi intenti predatori.
Lo sforzo del D.O.J. ricorda un chirurgico tentativo di ribilanciare un sistema già distorto. Ma qui non siamo di fronte a una lotta tra David e Golia: è più un duello tra architetti del potere. Il governo americano non vuole smantellare Google perché è Google, ma perché, senza un controllo diretto, questa macchina infernale rischia di sottrarre troppa autonomia agli stessi governi. Chrome è solo il primo tassello di un domino che comprende Android, YouTube, e perfino il nascente ecosistema di A.I. legato al progetto Gemini.
Tuttavia, anche un eventuale smembramento potrebbe rivelarsi una vittoria di Pirro. La storia insegna che i monopoli non muoiono: mutano forma, si adattano, diventano più sofisticati. E mentre il giudice Amit Mehta si prepara a pronunciarsi nel 2025, la domanda resta sospesa: è possibile regolare l’inarrestabile, o siamo destinati a vivere in un mondo di oligarchie mascherate da innovazione?
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* Il caso Microsoft del 2001 fu una delle battaglie antitrust più iconiche nella storia della tecnologia. Il governo degli Stati Uniti accusò Microsoft di utilizzare pratiche monopolistiche per dominare il mercato dei software. L’azienda integrava il suo browser Internet Explorer con il sistema operativo Windows, soffocando la concorrenza, come quella di Netscape Navigator. La sentenza iniziale stabilì che Microsoft doveva essere smembrata in due entità separate: una per il sistema operativo e una per le altre applicazioni software. Tuttavia, dopo un lungo processo di appelli, l’azienda raggiunse un accordo con il Dipartimento di Giustizia nel 2001. Microsoft evitò la scissione, ma accettò di condividere alcune API con i concorrenti e di essere monitorata per comportamenti anticoncorrenziali. Questo caso segnò un precedente per le cause antitrust tecnologiche, dimostrando quanto fosse difficile imporre restrizioni durature a giganti tecnologici capaci di adattarsi rapidamente alle regolamentazioni.