Il conflitto siriano, emblematico delle guerre per procura, rappresenta un intreccio di interessi globali in cui attori come Russia, Turchia, petromonarchie e potenze occidentali manipolano il terreno per obiettivi strategici, spesso a scapito della popolazione. La tregua del 2020, infranta da milizie jihadiste supportate indirettamente da Ankara, ha riportato il paese in un caos controllato, dove destabilizzazione e tradimenti diplomatici sono strumenti di potere. La catastrofe umanitaria, con milioni di sfollati e un’economia strangolata, riflette un mondo frammentato dove il profitto prevale sulla sovranità e sui diritti umani, lasciando la Siria come monito delle conseguenze devastanti della geopolitica senza scrupoli.
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di Alberto Piroddi
Siria e il tritolo della geopolitica
Nel teatro scosceso della politica internazionale, pochi palcoscenici riflettono le logiche brutali del potere come la Siria. Uno scenario che, per decenni, è stato la palestra ideale di ogni attore globale che avesse bisogno di testare i propri muscoli strategici. I fatti degli ultimi giorni non fanno che confermare questa crudele tradizione: un “congelamento” del conflitto imposto nel 2020 è stato infranto, con i cosiddetti ribelli – termine oramai anacronistico per definire un’accozzaglia di tagliagole, terroristi e mercenari – che hanno sfondato le linee siriane, portandosi fino ad Aleppo. Dietro questa manovra, come sempre, non ci sono solo questioni locali ma un mosaico di interessi globali dove Turchia, Russia, e le onnipresenti petromonarchie del Golfo giocano le loro carte su un tavolo in fiamme.
La tregua: un’opportunità per riorganizzarsi. L’accordo del 2020, mediato da Russia e Turchia, sembrava aver cristallizzato una situazione altrimenti ingestibile. In realtà, quel congelamento non era altro che un balsamo temporaneo. Le guerre, come ben noto, non si congelano: si rimodellano, si adattano, si nascondono per poi riesplodere con ancora maggiore violenza. Chi perde approfitta della pausa per riorganizzarsi. Chi vince, invece, accumula risorse e pianifica il colpo decisivo. Questo è il cuore pulsante della politica del “congelamento”, che non è altro che un modo elegante per guadagnare tempo. E così è stato in Siria: un equilibrio precario che è crollato nel momento più propizio per chi aspettava solo di alzare la posta.
Turchia: un alleato volubile e calcolatore. L’ombra più lunga su questa nuova fiammata in Siria è quella della Turchia, regista occulto – o forse neppure troppo nascosto – di molte delle manovre delle ultime settimane. Le milizie jihadiste che si sono mosse verso Aleppo hanno sempre trovato un appoggio più o meno dichiarato da parte di Ankara. Del resto, la Turchia è ormai esperta nel giocare su più tavoli. Da un lato si presenta come partner della Russia nella mediazione del conflitto siriano; dall’altro, non perde occasione per strizzare l’occhio all’Occidente, pronto a tradire gli accordi con Mosca in cambio di concessioni sul fronte interno o internazionale. Erdogan, abilissimo stratega, conosce bene il prezzo del potere e sa quando concedere qualcosa per ottenere altro. Questo spiega il voltafaccia che molti attribuiscono ad Ankara: un’apparente rottura degli accordi con la Russia che, se confermata, getterebbe un’ombra inquietante su tutte le dinamiche geopolitiche nella regione.
La lezione mancata della Georgia. In parallelo con la Siria, il caso della Georgia appare come un déjà vu geopolitico: un’altra rivoluzione colorata, un altro tentativo di destabilizzazione che porta la firma delle potenze occidentali. La strategia è vecchia ma sempre efficace: infiltrare le piazze con gruppi radicalizzati, fomentare disordini e spingere i governi verso una crisi che renda inevitabile un cambio di rotta filo-occidentale. La storia, dal Maidan ucraino alla Georgia, è sempre la stessa. I protagonisti cambiano, ma lo schema resta immutato.
La Russia e i suoi obiettivi. Mentre tutto questo si svolge, Mosca osserva con attenzione. La Russia, che in Ucraina è passata dall’essere un attore secondario a protagonista di una delle guerre più complesse della sua storia recente, non può permettersi distrazioni sul fronte siriano. Lì, come altrove, si gioca non solo il suo prestigio internazionale ma anche il controllo su una regione strategica per il suo futuro economico e politico. Eppure, nonostante le mosse calcolate, Mosca non può ignorare la crescente instabilità che rischia di compromettere gli accordi faticosamente raggiunti con la Turchia. Un tradimento, o anche solo un’incertezza da parte di Ankara, potrebbe scatenare una reazione a catena difficilmente controllabile. E in Siria, si sa, le reazioni a catena hanno spesso conseguenze catastrofiche.
La posta in gioco. Quello che accade in Siria non è mai un affare locale. Ogni movimento, ogni avanzata, ogni alleanza tradita o confermata ha eco ben oltre i confini del paese. L’intreccio tra jihadismo, rivalità regionali e grandi strategie globali fa della Siria il centro di una guerra per procura che si combatte su più livelli e che coinvolge attori apparentemente insospettabili.
Le pedine sullo scacchiere siriano
Il conflitto siriano, a uno sguardo superficiale, potrebbe apparire come una classica guerra civile. Tuttavia, il caos organizzato che vi si consuma nasconde un complesso sistema di alleanze, tradimenti e manipolazioni, dove ogni fazione rappresenta un interesse ben preciso. Non c’è spazio per romantiche rivoluzioni popolari: le pedine sul campo si muovono al ritmo imposto dai loro burattinai, che siedono comodamente nei palazzi del potere di Washington, Ankara, Mosca e Teheran.
Jihadismo e proxy war: gli strumenti del caos. Le milizie jihadiste, spesso romanticamente etichettate come “ribelli” dalla propaganda occidentale, sono tutt’altro che un blocco monolitico. Si tratta di un caleidoscopio di gruppi armati che condividono un unico obiettivo: destabilizzare la Siria e abbattere il regime di Bashar al-Assad. Il loro supporto arriva da lontano, con fondi, armi e logistica provenienti principalmente dalle petromonarchie del Golfo, dalla Turchia e, in alcuni casi, dagli stessi alleati occidentali. Tra le più influenti vi è Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), erede del Fronte al-Nusra, un diretto discendente di al-Qaeda in Siria. Formalmente riconosciuto come organizzazione terroristica anche dagli Stati Uniti, questo gruppo ha saputo giocare abilmente il ruolo di antagonista al regime, attirando sostegni sotterranei da attori regionali interessati a mantenere alta la pressione su Damasco.
L’ISIS: il fantasma del passato. Sebbene l’ISIS sia stato formalmente sconfitto nel 2019, i suoi resti continuano a rappresentare una minaccia latente nella regione. I militanti che non sono stati eliminati o imprigionati si sono riorganizzati, sfruttando la geografia porosa della Siria orientale e l’instabilità cronica per riaffermare la loro presenza. Le aree desertiche e scarsamente controllate sono un rifugio ideale per questi gruppi, che rimangono pronti a riemergere non appena si presenta l’occasione.
I curdi: i beniamini scomodi dell’Occidente. Se c’è una fazione che incarna le ambiguità della politica internazionale in Siria, sono i curdi. Protetti e armati dagli Stati Uniti per combattere l’ISIS, hanno cercato di costruire una propria autonomia nel nord-est della Siria. Tuttavia, il loro rapporto con il governo siriano rimane controverso. La loro presenza sui campi petroliferi, spesso in collaborazione con le forze statunitensi, ha creato un cortocircuito geopolitico: ufficialmente, i curdi dovrebbero essere alleati di Damasco nella lotta contro il terrorismo, ma di fatto agiscono come una forza autonoma, sempre più vicina agli interessi occidentali.
Turchia e petromonarchie: i burattinai occulti. La Turchia, con la sua politica estera spregiudicata, non si limita a ospitare milizie ribelli nei territori che controlla direttamente nel nord della Siria. Le formazioni turcomanne, ad esempio, agiscono come un prolungamento dell’esercito turco, mantenendo alta la pressione sul regime siriano. Ankara ha giocato il ruolo di mediatore, ma sempre con il coltello nascosto dietro la schiena. Il suo vero obiettivo è ridisegnare la mappa geopolitica della regione a suo favore, neutralizzando l’autonomia curda e mantenendo sotto controllo l’influenza iraniana. Le petromonarchie, dal canto loro, sono state tra i principali sponsor della radicalizzazione nelle campagne siriane. Le moschee finanziate da questi stati sono state il fulcro di un’opera sistematica di reclutamento e indottrinamento, trasformando una popolazione tradizionalmente moderata in un serbatoio di milizie armate. Questi eserciti di mercenari sono stati la spina dorsale della guerra per procura orchestrata dai sauditi e dai loro alleati.
Il ruolo di Israele. Non si può parlare della Siria senza menzionare il ruolo di Israele, un attore spesso invisibile ma determinante. Le alture del Golan, occupate illegalmente da Israele, sono state un punto di contatto strategico tra lo stato ebraico e le milizie jihadiste. È ben documentato come combattenti feriti di al-Nusra siano stati curati negli ospedali israeliani, in un paradossale intreccio di interessi che ha visto Israele collaborare tacitamente con i nemici dei suoi nemici. Israele, però, non si limita a sostenere indirettamente alcune fazioni: i suoi raid aerei, mirati ufficialmente a colpire obiettivi iraniani, hanno spesso avuto effetti devastanti sulle infrastrutture siriane, contribuendo ulteriormente al caos.
L’Iran e Hezbollah: il fronte della resistenza. Dall’altro lato dello schieramento troviamo l’Iran e il suo alleato Hezbollah, che rappresentano il fulcro del cosiddetto “asse della resistenza”. L’Iran, interessato a mantenere la Siria come un corridoio strategico verso il Mediterraneo, ha investito risorse significative per sostenere Assad. Hezbollah, forte della sua esperienza in Libano, ha fornito una forza combattente ben addestrata, che è stata cruciale per ribaltare le sorti di alcune battaglie decisive.
Il conflitto siriano come paradigma delle guerre per procura
Le guerre per procura non sono una novità. Il Novecento ne ha viste di ogni genere, dai teatri caldi della Guerra Fredda alle più recenti operazioni neocoloniali. La Siria, tuttavia, rappresenta un caso scolastico per capire come le dinamiche globali si riflettano brutalmente su scala locale. Qui, il conflitto non riguarda solo il controllo territoriale o la sopravvivenza di un regime, ma funge da laboratorio per nuove strategie di manipolazione e destabilizzazione geopolitica.
La Siria come campo di sperimentazione. Ogni attore coinvolto in Siria ha sfruttato il conflitto come una palestra per affinare tattiche militari e politiche. Le petromonarchie hanno imparato a finanziare e controllare milizie jihadiste, mascherandole da rivoluzionari democratici. La Turchia ha testato la sua abilità nel bilanciare la cooperazione con la Russia e la NATO. Israele ha affinato le sue capacità di colpire obiettivi strategici con precisione chirurgica, mantenendo nel contempo il sostegno tacito dell’Occidente. E poi c’è la Russia, che ha utilizzato la Siria per dimostrare la sua rinnovata influenza globale. Mosca non si limita a sostenere Assad: con le sue basi a Latakia e Tartus, ha trasformato il paese in un avamposto strategico per il controllo del Mediterraneo e del Medio Oriente. In questo contesto, le forze russe hanno mostrato un’inedita combinazione di diplomazia e potenza militare, consolidando la loro posizione come arbitro della regione.
La destabilizzazione come arma geopolitica. Il caos siriano non è un incidente. È il risultato di un calcolo preciso: un paese destabilizzato è un paese vulnerabile, facile da manipolare e incapace di rappresentare una minaccia reale. Questa è la logica che ha guidato l’azione delle potenze occidentali fin dall’inizio. Distruggere la Siria non significa solo colpire Assad; significa anche isolare l’Iran, indebolire Hezbollah, ridurre l’influenza russa nella regione e, soprattutto, mettere in guardia chiunque voglia sfidare l’ordine internazionale guidato dagli Stati Uniti.
Le conseguenze del tradimento turco. L’ipotesi di un tradimento turco nei confronti della Russia e di Assad apre scenari inquietanti. La Turchia ha sempre giocato un ruolo ambiguo, oscillando tra il sostegno alle milizie jihadiste e la collaborazione con Mosca. Tuttavia, se Ankara ha effettivamente dato il via libera alla recente offensiva su Aleppo, ciò potrebbe segnare una rottura irreparabile con il Cremlino. In un contesto dove la fiducia è già scarsa, un simile colpo basso potrebbe spingere Mosca a rivedere radicalmente la sua strategia nella regione.
La fragilità delle alleanze. Il tradimento, o anche solo la percezione di esso, non è una novità in geopolitica. In Siria, tuttavia, questa dinamica assume un significato particolare. Le alleanze sono fragili per definizione: basate su interessi contingenti, possono crollare in un attimo quando quegli interessi non coincidono più. La Russia e la Turchia ne sono un esempio lampante. Nonostante anni di collaborazione, la loro intesa è sempre stata condizionata da una profonda diffidenza reciproca. E ora, con l’offensiva su Aleppo, quella diffidenza rischia di trasformarsi in aperta ostilità.
Le potenze occidentali: tra ipocrisia e interessi. Se c’è un elemento che emerge chiaramente dalla crisi siriana, è l’ipocrisia delle potenze occidentali. Questi stessi governi che, a parole, si oppongono al terrorismo internazionale, non hanno esitato a sostenere milizie jihadiste quando ciò era funzionale ai loro obiettivi. Gli Stati Uniti, in particolare, hanno utilizzato i curdi come pedine sacrificabili, fornendo loro armi e supporto logistico per poi abbandonarli al primo segnale di pressione turca. Anche l’Europa non è esente da colpe. I suoi governi, mentre sventolano la bandiera dei diritti umani, continuano a chiudere un occhio – o forse entrambi – sui crimini commessi dalle milizie sostenute dall’Occidente. Dalle violenze sui civili agli attacchi indiscriminati, il doppio standard europeo è evidente e difficilmente giustificabile.
Il rischio di un’escalation globale. Il conflitto siriano non è più confinato entro i suoi confini. Le sue ripercussioni si sentono ben oltre il Medio Oriente, influenzando le dinamiche globali in modi spesso imprevedibili. La presenza di attori internazionali, ognuno con i propri interessi e ambizioni, rende la Siria un punto critico dove il minimo errore potrebbe innescare una crisi di proporzioni globali. In questo contesto, il pericolo di un’escalation è reale. Le tensioni tra Russia e Turchia, l’interferenza occidentale e il ruolo sempre più assertivo dell’Iran e di Hezbollah sono tutti fattori che contribuiscono a rendere la situazione esplosiva. E con l’attenzione internazionale sempre più rivolta verso altre crisi – dall’Ucraina alla Georgia – il rischio è che la Siria venga lasciata marcire in un limbo di caos e violenza.
Le macerie umane della Siria e l’incubo perpetuo
Se le guerre sono il laboratorio del potere, le loro vittime sono la carne da macello su cui si testano le dinamiche geopolitiche. La Siria, devastata da oltre un decennio di conflitto, offre uno dei quadri più desolanti di questa realtà. Dietro i giochi di potere e le mosse strategiche, si celano milioni di vite spezzate, comunità distrutte e un futuro che appare più come un miraggio che come una possibilità concreta.
Una catastrofe umanitaria senza precedenti. La Siria è diventata il simbolo di un’umanità abbandonata al suo destino. Secondo le stime più recenti, oltre 500.000 persone hanno perso la vita dall’inizio del conflitto. Milioni sono gli sfollati, sia interni che esterni, con intere città trasformate in spettrali rovine. Aleppo, Homs, Raqqa: nomi che un tempo evocavano storia e cultura sono oggi sinonimi di desolazione. L’embargo economico imposto dall’Occidente ha ulteriormente aggravato la crisi, rendendo quasi impossibile la ricostruzione. La mancanza di beni essenziali e la distruzione delle infrastrutture hanno reso la sopravvivenza quotidiana un’impresa titanica. In questo scenario, i più vulnerabili – bambini, anziani e donne – sono quelli che pagano il prezzo più alto.
La diaspora siriana: un dramma silenzioso. Oltre sei milioni di siriani hanno abbandonato il loro paese, cercando rifugio nei paesi limitrofi e oltre. La Turchia ospita la maggior parte dei rifugiati, spesso utilizzandoli come arma di ricatto nei confronti dell’Europa. In Giordania e Libano, i campi profughi sono ormai città improvvisate, dove la povertà e la disperazione alimentano il rischio di radicalizzazione. L’Europa, dal canto suo, ha mostrato una vergognosa mancanza di solidarietà. Tra muri, respingimenti e politiche migratorie restrittive, il continente ha preferito erigere barriere piuttosto che affrontare le responsabilità di una crisi che, in parte, ha contribuito a creare.
La Siria come metafora del mondo. Il conflitto siriano non è solo una tragedia nazionale; è una metafora delle dinamiche globali contemporanee. La frammentazione del paese riflette un ordine mondiale sempre più disfunzionale, dove gli interessi di pochi prevalgono sul bene collettivo. Le alleanze che si formano e si spezzano in Siria sono il microcosmo di una geopolitica globale in cui la stabilità è sacrificata sull’altare del profitto e del controllo.
Il futuro incerto della Siria. Se il presente è oscuro, il futuro della Siria è un enigma. La ricostruzione, quando e se avverrà, sarà un’impresa titanica. Non si tratta solo di ricostruire case e strade, ma di ricostruire un tessuto sociale dilaniato da anni di guerra e divisioni. La sfida più grande sarà quella di superare le ferite lasciate da un conflitto che ha trasformato vicini di casa in nemici e comunità in campi di battaglia. La stabilità della Siria dipenderà dalla capacità dei suoi abitanti di riprendere il controllo del proprio destino. Ma ciò sarà possibile solo se le potenze straniere smetteranno di vedere il paese come una pedina da sfruttare e inizieranno a rispettarlo come una nazione sovrana.
Il peso della memoria. Le immagini delle porte di Damasco presidiate dall’ISIS, delle rovine di Palmira e dei villaggi alawiti disseminati di lapidi raccontano una storia di resistenza, sofferenza e perdita. La Siria non è solo una tragedia umanitaria; è un monito per il mondo intero. Ogni guerra per procura, ogni manipolazione geopolitica, ogni tradimento diplomatico lascia un’eredità che va ben oltre il campo di battaglia. È un’eredità che si misura in vite perdute, sogni infranti e un senso di giustizia sempre più lontano. Con questa consapevolezza, il mondo dovrebbe guardare alla Siria non come a un problema da risolvere o un terreno da conquistare, ma come a un simbolo di ciò che accade quando l’ambizione supera l’umanità.