È davvero un cammello nella cruna dell’ago?

Un antico errore di traduzione nei Vangeli potrebbe aver scambiato "corda" con "cammello," trasformando una metafora tessile in un’immagine surreale e potente.

di Alberto Piroddi

“È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio.” (Marco 10,25 – Matteo 19,24 – Luca 18,25)

La frase, riportata da tre dei quattro Vangeli sinottici, ci accompagna da secoli. Con la sua immagine irriverente e impossibile, ha attraversato i millenni fino a scolpirsi nella coscienza collettiva dell’Occidente cristiano. Ma c’è un problema, e non è da poco: questo cammello, con tutta la sua sgangherata e mastodontica presenza, potrebbe essere uno dei più celebri errori di traduzione della storia.

L’iconografia è potente: chi non resta colpito dall’immagine di un cammello che tenta di passare per la cruna di un ago? La sproporzione visiva è sconcertante, persino ridicola. Eppure, l’impatto della frase non si basa tanto sulla verità quanto sulla sua bizzarria. A ben guardare, l’assurdità è anche uno dei motivi per cui la frase ha resistito al tempo e alla cultura, sedimentandosi nella mentalità comune.

Ma perché? Perché un insegnamento destinato a guidare anime e coscienze dovrebbe sfociare in un’immagine così improbabile? È proprio qui che la storia diventa interessante. Con il passare dei secoli, studiosi e traduttori, curiosi di decifrare l’autentico significato dietro le parole di Cristo, hanno scoperto che questa improbabile immagine potrebbe essere stata frutto di un errore di traduzione, anzi, di un doppio errore, giunto fino a noi per la sua unicità linguistica.

Ci troviamo di fronte a due teorie principali, entrambe avvincenti per il mistero e per le implicazioni culturali. La prima sostiene che il Vangelo fosse originariamente in aramaico, la lingua parlata da Gesù e dai suoi discepoli. In aramaico, infatti, il termine gamal indica il cammello, mentre gamta si riferisce alla corda. Questa somiglianza, facile da immaginare in un contesto di trascrizione, potrebbe aver indotto i traduttori successivi a scegliere erroneamente il termine più assurdo, amplificando l’effetto straniante dell’insegnamento. Una corda, grande e robusta, sarebbe già di per sé difficilissima da far passare per la cruna di un ago, ma almeno l’immagine si manterrebbe entro il regno delle possibilità fisiche.

L’altra teoria, sostenuta dalla maggioranza degli studiosi, si orienta sul greco. Questo era il vero veicolo di comunicazione internazionale dell’epoca, simile a ciò che l’inglese rappresenta oggi. Se vuoi diffondere il messaggio del Messia, quale lingua migliore di quella accessibile a una moltitudine di popoli e culture? E in greco, la trappola linguistica non è meno suggestiva: kamelos, cammello, e kamilos, che si riferisce a una grossa corda per ormeggi, sono quasi identici. Immaginiamo la scena: un giovane copista, forse stanco o distratto, si imbatte in questo termine e lo trascrive con l’errore fatale. Ed ecco che l’innocente gomena dei pescatori di Cafarnao si trasforma nel goffo quadrupede del deserto.

A questo punto, emerge un colpevole preciso: San Girolamo (347-420). In un’epoca in cui l’infallibilità dei santi si sovrapponeva a quella dei testi sacri, Girolamo, creatore della celebre Vulgata — la traduzione latina della Bibbia —, commette uno dei più clamorosi errori di interpretazione, consegnando al mondo il cammello. Immaginiamoci la sua scrivania, il monaco piegato sui testi antichi, intento a portare avanti la missione di rendere le parole divine comprensibili al popolo latino. Eppure, bastò una svista per trasformare la corda dei pescatori in un dromedario che, seppur caricato di significato simbolico, sfida ogni logica.

Con la figura del cammello, San Girolamo, protettore degli studiosi e dei traduttori, non solo perpetua un errore, ma introduce un elemento quasi caricaturale nella Bibbia. La fede ci insegna il perdono e, forse, per questo San Girolamo è stato fatto santo. È come se, con questo singolare errore, Dio avesse dato un’ulteriore lezione: l’umiltà dell’errore umano è più grande della perfezione della verità.

Ma non è finita qui. Una volta accettato questo errore, come lo dobbiamo interpretare? Che significato ha una parabola intesa forse come semplice esempio visivo, ma trasformatasi, con il tempo, in un colossale ostacolo immaginario? Alcuni potrebbero dire che è proprio nell’assurdo che risiede il messaggio più profondo: se l’impresa del ricco di raggiungere il regno di Dio è tanto improbabile quanto quella del cammello di passare per la cruna dell’ago, allora non si tratta più di un mero ammonimento, ma di un’esortazione alla totale rinuncia ai beni terreni.

L’errore, dunque, ha cambiato il significato stesso dell’insegnamento. Non parliamo più di una semplice difficoltà: parliamo di un’ostruzione insormontabile, di un’incompatibilità quasi ontologica tra ricchezza e salvezza, come se la sproporzione tra il cammello e l’ago rappresentasse la voragine tra l’aspirazione umana alla ricchezza e la purezza del regno di Dio.

La figura del cammello che passa attraverso la cruna di un ago, lungi dall’essere archiviata come un banale errore di traduzione, continua a sedurre e provocare. L’assurdo paradosso è entrato nel nostro vocabolario, nelle prediche, nelle riflessioni filosofiche. Oggi, nel mondo contemporaneo, un mondo che affoga nel lusso e nella contraddizione, quella frase torna a svelare la sua potenza. In un’epoca in cui la ricchezza è esaltata come un traguardo esistenziale, l’immagine di un animale fuori luogo che tenta di passare attraverso un pertugio minuscolo è forse più rilevante che mai.

Possiamo quindi considerare quest’errore non come una falla, ma come un trionfo della narrativa. Con la sua immagine surreale, essa continua a stimolare il pensiero, a spingere i credenti verso una riflessione profonda sul rapporto con la ricchezza, sull’etica e sul senso ultimo della vita. La cultura popolare, nel corso dei secoli, ha saputo integrare questo cammello esagerato e paradossale nel proprio bagaglio di simboli, sfruttandolo come uno specchio dei tempi, un richiamo all’umiltà e alla redenzione.

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A ben vedere, l’errore di traduzione è uno specchio dei limiti umani, della nostra inclinazione a fraintendere, distorcere e reinterpretare anche ciò che riteniamo sacro e inviolabile. La traduzione non è mai neutra; è sempre, in qualche modo, un atto di tradimento. Tradurre significa scegliere, interpretare, riadattare. E questo errore, avvenuto secoli fa, ce lo ricorda con ironica semplicità: anche i migliori, anche i santi, possono fallire.

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