Il film Berlinguer – La grande ambizione, diretto da Andrea Segre, si presenta fin dall’inizio come un’opera che tenta di racchiudere un momento cruciale della politica italiana, esplorando la figura del segretario del PCI Enrico Berlinguer, tra l’attentato a Sofia nel 1973 e il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nel 1978. Un periodo di grande fermento politico e sociale che Segre sceglie di raccontare con una delicatezza narrativa, puntellata da momenti di forte intensità storica e personale. La chiave interpretativa del film sta nel suo titolo: La grande ambizione, un riferimento esplicito a Gramsci, che ben rappresenta la dimensione politica di Berlinguer, ma anche l’ambizione del regista stesso di rappresentare una figura complessa senza scadere nella retorica biografica classica.
Il quadro storico-politico
Per capire il film, dobbiamo prima immergerci nel contesto in cui Berlinguer operava. Gli anni Settanta in Italia sono stati caratterizzati da tensioni politiche, crisi economiche e sociali, ma anche da una straordinaria vitalità intellettuale e politica. La strategia di Berlinguer, il cosiddetto Compromesso Storico, nasceva dalla necessità di costruire una via democratica al socialismo, attraverso un’alleanza con la Democrazia Cristiana, per garantire una transizione pacifica e scongiurare il rischio di un colpo di stato o di derive autoritarie come era accaduto in Cile con il golpe di Pinochet nel 1973.
Questo punto emerge con forza nel film, che ripercorre i passaggi salienti della carriera politica di Berlinguer e il suo progressivo distacco dall’Unione Sovietica, sintetizzato nella celebre frase pronunciata nel 1976, “Ci sentiamo più sicuri sotto l’ombrello della NATO”. Un’affermazione che segnò un passaggio epocale per il Partito Comunista Italiano, il più grande partito comunista dell’Occidente, e che rifletteva l’ambizione di Berlinguer di creare un nuovo socialismo democratico, basato sul consenso popolare e sull’autonomia rispetto al blocco sovietico.
La rappresentazione di un leader
Una delle grandi virtù del film è la capacità di Segre di evitare il rischio della rappresentazione agiografica. Elio Germano, nei panni di Berlinguer, non offre una semplice imitazione del personaggio storico, ma riesce a incarnare il tormento e le contraddizioni di un leader politico profondamente consapevole della precarietà del suo progetto. Il film ci mostra un Berlinguer sobrio, a tratti introverso, in costante dialogo con se stesso e con le difficoltà del suo tempo.
Germano è impeccabile nell’evocare quella timidezza caratteristica di Berlinguer, che non era mai un limite ma anzi una parte essenziale del suo carisma: la capacità di parlare alle masse senza mai diventare demagogo, di sostenere un ideale alto senza rinunciare al realismo politico. Il film si apre con Berlinguer che, nel suo soggiorno domestico, ripassa discorsi, consapevole che ogni parola pronunciata può avere conseguenze decisive. Un Berlinguer che non si scontra frontalmente con i suoi oppositori, ma che costruisce dialoghi e mediazioni con una dedizione quasi monastica.
La sua figura viene tratteggiata anche nei suoi rapporti umani più intimi: il film non evita di mostrare le tensioni familiari, il prezzo che Berlinguer ha pagato per la sua dedizione totale alla causa politica. Le scene tra il leader comunista e i suoi figli offrono un contrasto delicato con il peso delle responsabilità pubbliche, restituendo un ritratto complesso e sfaccettato dell’uomo dietro il politico.
L’ideale gramsciano e la questione morale
Segre riprende con intelligenza alcuni degli ideali chiave che hanno guidato Berlinguer nel suo percorso politico. La grande ambizione, mutuata da Gramsci, di un socialismo che fosse il frutto non di un’avanguardia rivoluzionaria, ma di una “rivoluzione della grande maggioranza della popolazione”, emerge con forza in molte delle scene chiave del film. Questa visione gramsciana, che Berlinguer riprende e amplia, era alla base della sua idea di un’alleanza tra il Partito Comunista e il mondo cattolico, un’alleanza che non poteva basarsi solo su un calcolo politico, ma doveva essere fondata su un comune senso di responsabilità morale verso il futuro del paese.
In questo senso, il film insiste molto sulla dimensione etica della politica berlingueriana, e qui si innesta uno dei temi più delicati dell’opera di Segre: la questione morale. Il celebre discorso di Berlinguer sulla corruzione della politica italiana, che nel film viene ripreso in maniera quasi filologica, è forse uno dei momenti più potenti dell’intera narrazione. Berlinguer intuì con largo anticipo che la crisi della democrazia italiana sarebbe passata attraverso una degenerazione morale delle istituzioni, e su questo tema il film riesce a dialogare con il nostro presente, in un modo che risulta quasi profetico. Segre evita di tracciare paralleli espliciti con la politica contemporanea, ma la figura di Berlinguer, con il suo rigore e la sua intransigenza etica, emerge come un monito per la politica di oggi, sempre più schiacciata tra populismi e personalismi.
La narrazione cinematografica: un’estetica della parola
Se c’è un aspetto che caratterizza fortemente la regia di Segre in questo film, è l’importanza attribuita alla parola. Il cinema, come sottolineava anche Roberto Rossellini, ha spesso difficoltà a rappresentare efficacemente la politica, che è fatta soprattutto di discorsi, confronti verbali, mediazioni dialettiche. Ma Segre, consapevole di questa sfida, non rinuncia alla parola, anzi la mette al centro della sua narrazione. Le scene più potenti del film non sono quelle di azione o di confronto fisico, ma quelle in cui la parola di Berlinguer emerge nella sua forza evocativa.
Nel film, emerge chiaramente come la capacità oratoria fosse per Berlinguer uno strumento cruciale di lotta politica. Le sue parole diventavano il mezzo per costruire consenso, convincere, e delineare una visione condivisa del futuro. Segre riesce a rendere cinematograficamente questo aspetto, intrecciando i lunghi discorsi politici di Berlinguer con immagini che ritraggono un paese in fermento. La narrazione si concentra sull’importanza del linguaggio come strumento per orientare il dibattito pubblico e per plasmare la realtà politica di quegli anni.
Questo uso della parola cinematografica ricorda da vicino le lezioni di Jean-Luc Godard, che vedeva il cinema non solo come rappresentazione visiva, ma anche come discorso. E Segre sembra fare sua questa lezione, costruendo una pellicola che non ha paura di fermarsi a riflettere, di prendersi il tempo per far parlare i personaggi, senza cedere alla tentazione di un ritmo incalzante o di soluzioni visive spettacolari.
Il compromesso storico e il fallimento della politica
Uno dei temi centrali del film è, naturalmente, il Compromesso Storico. Segre lo tratta con grande delicatezza, riuscendo a trasmettere sia l’idealismo che lo animava, sia le tensioni e i dubbi che lo circondavano. Nelle scene che ritraggono Berlinguer nei suoi incontri con Aldo Moro, il film riesce a restituire quel senso di precarietà che attraversava la politica italiana degli anni Settanta. Le parole di Moro, interpretato da un misurato Roberto Citran, diventano il contraltare di quelle di Berlinguer, in un dialogo che è insieme politico e morale, una riflessione sulla possibilità e i limiti della democrazia in un contesto di crisi.
Ma il film non nasconde il fallimento di questo progetto. La morte di Moro, che rappresenta il culmine tragico del film, segna la fine di un sogno politico e l’inizio di una nuova fase di disillusione per la sinistra italiana. Segre non cede al melodramma, ma riesce a rendere palpabile il senso di sconfitta che pervade Berlinguer negli ultimi anni della sua vita politica. Le scene finali, con Berlinguer sempre più isolato e consapevole della sconfitta del suo progetto, sono tra le più intense del film, e ci lasciano con la sensazione di aver assistito non solo alla storia di un uomo, ma alla fine di un’intera stagione politica.
L’estetica del rigore
Dal punto di vista visivo, Berlinguer – La grande ambizione è un film sobrio, quasi austero, che riflette perfettamente la figura del suo protagonista. La fotografia, firmata da Benoît Dervaux, privilegia toni freddi e desaturati, che sembrano riflettere la rigidità morale di Berlinguer e il contesto politico in cui si muoveva. Non ci sono grandi scene di massa, non ci sono momenti di spettacolarità visiva, ma piuttosto un’attenzione minuziosa ai dettagli, ai gesti, alle espressioni. Segre costruisce un’estetica che potremmo definire “del rigore”, in cui ogni inquadratura è studiata per riflettere la complessità e la profondità del personaggio.
Le scene ambientate nelle sezioni del Partito Comunista, con le pareti spoglie e le facce segnate dei militanti, restituiscono l’atmosfera di un’epoca in cui la politica era ancora una questione di militanza quotidiana, di lotta e di sacrificio. Anche in questo, il film sembra volerci ricordare un passato che non esiste più, un tempo in cui la politica era fatta di ideali e di scontri duri, ma anche di un profondo rispetto per il nemico.
Un film politico per tempi apolitici
“Berlinguer – La grande ambizione” non si limita a raccontare la vita di un leader, ma riflette su cosa significhi fare politica in tempi di crisi e trasformazione, evitando i cliché del biopic tradizionale e offrendo una narrazione storica con forti risonanze attuali. In un momento in cui la politica sembra lontana dall’etica, Segre presenta Berlinguer come un modello di coerenza e integrità, pur riconoscendo i limiti e i fallimenti del suo progetto politico. Il film invita a rivalutare il valore del dialogo e della mediazione politica, affrontando l’eredità di Berlinguer non come un tributo nostalgico, ma come un’occasione per interrogarsi su cosa significhi oggi perseguire il bene comune.