Il brano tratto dal Candide di Voltaire offre uno spunto interessante per riflettere sul tema della disillusione e della critica radicale nei confronti delle convenzioni culturali. Attraverso la figura di Pococurante, Voltaire mette in scena un personaggio che incarna l’estremo scetticismo e il distacco verso tutto ciò che viene tradizionalmente considerato di grande valore artistico e intellettuale. Le sue opinioni ciniche e il rifiuto di trovare piacere in opere celebri — dai dipinti di Raffaello ai testi di Omero, Virgilio e Milton — non sono soltanto una critica all’arte o alla letteratura in sé, ma piuttosto una riflessione più ampia sull’incapacità di alcune persone di apprezzare ciò che la società considera universalmente bello o significativo.
Pococurante rappresenta una forma di nichilismo raffinato, in cui l’indifferenza verso i grandi capolavori è espressa con fredda lucidità. La sua mancanza di entusiasmo per ciò che è comunemente lodato non deriva da una superficiale arroganza, ma da una profonda insoddisfazione verso l’esistenza umana stessa. Voltaire, attraverso questa rappresentazione, mette in discussione la validità dei canoni estetici e culturali che vengono imposti come indiscutibili, mostrando che perfino ciò che è universalmente apprezzato può essere soggetto a critica e disinteresse.
Il dialogo tra Candido, Martino e Pococurante si sviluppa attorno a questa visione profondamente pessimistica della vita. Candido, che è ancora in parte ingenuo e incline a lodare tutto ciò che gli viene presentato come grande, rimane sbalordito dalle parole del nobile, incapace di comprendere il suo completo distacco. Martino, invece, che incarna una visione più scettica e disincantata, si riconosce nelle parole di Pococurante, trovando il suo modo di pensare molto ragionevole.
L’insoddisfazione di Pococurante non si limita alle arti e alle lettere, ma si estende anche alla politica e alla filosofia. Il suo fastidio per le opere di Cicerone e per la scienza accademica riflette un rifiuto verso l’intellettualismo fine a se stesso, incapace di produrre risultati concreti o utili. La sua critica alla libertà di pensiero, vista come corrotta da partigianerie e passioni, rivela una visione disincantata anche verso i progressi umani più elevati, come la libertà di espressione.
Il racconto solleva una domanda fondamentale: è possibile trovare soddisfazione nel mondo, o siamo condannati a una costante insoddisfazione anche quando abbiamo a disposizione tutto ciò che dovrebbe renderci felici? Pococurante sembra incarnare la tesi secondo cui il vero piacere è un’illusione e che la capacità di criticare e trovare difetti, anche nelle cose più belle, può diventare una forma di piacere distorta. Voltaire, come al solito, non offre risposte semplici, ma attraverso il personaggio di Pococurante, ci spinge a riflettere sulla natura del giudizio estetico, del piacere intellettuale e sulla condizione umana di fronte all’insoddisfazione.
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Capitolo Venticinquesimo: Visita dal Signor Pococurante, Nobile Veneziano
Candido e Martino andarono in gondola sul Brenta e arrivarono al palazzo del nobile Pococurante. I giardini erano estesi e adornati di belle statue di marmo; il palazzo era di una splendida architettura. Il padrone di casa, un uomo di sessant’anni, ricchissimo, ricevette educatamente i due curiosi, ma con poca sollecitudine, cosa che sconcertò Candido e non dispiacque a Martino.
Per prima cosa, due ragazze belle e ben vestite servirono la cioccolata, dopo averla montata molto bene. Candido non poté fare a meno di lodare la loro bellezza, il loro garbo e la loro abilità. «Sono creature assai buone», disse il senatore Pococurante, «qualche volta le faccio dormire nel mio letto; infatti sono stanco delle signore di città, delle loro civetterie, delle loro gelosie, delle loro liti, dei loro umori, delle loro meschinità, del loro orgoglio, delle loro sciocchezze e dei sonetti che bisogna fare o ordinare per loro. Ma, dopo tutto, queste due ragazze cominciano ad annoiarmi parecchio.»
Dopo la colazione, Candido, passeggiando in una lunga galleria, fu sorpreso dalla bellezza dei quadri e chiese di quale maestro fossero i due primi. «Sono di Raffaello», disse il senatore, «li comprai per vanità a un prezzo altissimo l’anno scorso; si dice che non ci sia nulla di più bello in Italia, ma non mi piacciono affatto: il colore è troppo scuro, le figure non sono ben arrotondate e non risaltano abbastanza; i drappeggi non somigliano affatto a stoffe. In una parola, checché se ne dica, non trovo qui un’imitazione della natura. Un quadro mi potrebbe piacere soltanto se mi sembrasse di vedere la natura stessa: non ne esistono. Ho molti quadri, ma non li guardo più.»
Pococurante, in attesa del pranzo, fece dare un concerto. Candido trovò la musica deliziosa. «Questo rumore», disse Pococurante, «può divertire una mezz’ora, ma se dura di più stanca tutti, benché nessuno osi confessarlo. La musica oggigiorno è diventata unicamente l’arte di eseguire cose difficili, e ciò che è soltanto difficile, a lungo andare non piace.
«Forse preferirei l’opera, se non avessero trovato il modo di farne una cosa mostruosa che mi disgusta. Vada pure chi lo desidera a vedere brutte tragedie in musica, dove le scene esistono solo per introdurre molto inopportunamente due o tre ridicole canzoni e mettere così in risalto la voce di un’attrice; goda pure chi lo desidera, o chi lo può, nel vedere un castrato gorgheggiare la parte di Cesare e di Catone, e passeggiare con aria goffa sul palcoscenico; per conto mio, da lungo tempo ho rinunciato a queste meschinità che formano oggi la gloria dell’Italia e che molti sovrani pagano a così caro prezzo.» Candido discusse un poco, ma con discrezione. Martino fu interamente d’accordo con il senatore.
Si misero a tavola e, dopo un pranzo eccellente, entrarono nella biblioteca. Candido, vedendo un Omero magnificamente rilegato, lodò l’illustrissimo per il suo buon gusto. «Questo libro», disse, «era la delizia del grande Pangloss, il miglior filosofo della Germania.» «Non è la mia», disse freddamente Pococurante; «mi fecero credere un tempo che avrei provato piacere in tale lettura, ma questa continua ripetizione di battaglie che si somigliano tutte, questi dèi che agiscono sempre senza far nulla di decisivo, questa Elena che è la causa della guerra, questa Troia assediata che non si prende mai, tutto questo mi ha causato la noia più mortale. Ho chiesto talvolta a uomini di cultura se non si annoiassero quanto me in questa lettura; tutte le persone sincere mi hanno confessato che il libro cadeva loro dalle mani, ma che bisognava sempre averlo nella propria biblioteca come un monumento dell’antichità, proprio come quelle monete arrugginite che non possono andare in circolazione.»
«Vostra Eccellenza pensa così anche di Virgilio?» disse Candido. «Convengo», disse Pococurante, «che il secondo, il quarto e il sesto libro della sua Eneide sono eccellenti; ma per quel che riguarda il pio Enea, il forte Cloante, l’amico Acate, il piccolo Ascanio, lo stupido re Latino, e la borghese Amata, e l’insipida Lavinia, credo che non esista nulla di più freddo e più sgradevole. Preferisco il Tasso e i noiosissimi racconti dell’Ariosto.»
«Potrei domandarvi, signore», disse Candido, «se provate piacere nel leggere Orazio?» «Vi sono alcune massime», disse Pococurante, «da cui un uomo di mondo può trarre profitto, e che, racchiuse in versi energici, si incidono più facilmente nella memoria; ma non mi importa nulla del suo viaggio a Brindisi, della sua descrizione di un cattivo pranzo, e della lite tra facchini fra non so più quale Pupillus, le cui parole, come egli dice, erano piene di marcio, e un altro le cui parole erano aceto. Ho letto con estremo disgusto i suoi versi grossolani contro le vecchie e contro le streghe, e non vedo quale merito possa aver avuto nel dire al suo amico Mecenate che, se egli sarà messo da lui nel rango dei poeti lirici, batterà gli astri con la sua fronte sublime. Gli sciocchi ammirano tutto in un autore famoso; io lo leggo per me solo, mi piace soltanto quel che serve a me.»
Candido, abituato a non giudicare mai nulla da solo, era meravigliato di quel che sentiva; e Martino trovava il modo di pensare di Pococurante molto ragionevole.
«Oh! ecco un Cicerone; per quel che riguarda questo grand’uomo, penso che non vi stancherete mai di leggerlo!» «Non lo leggo mai», rispose il veneziano. «Che cosa mi importa che abbia perorato per Rabirio o per Cluenzio? Ne ho abbastanza dei processi che giudico io; mi sarebbero piaciute di più le sue opere filosofiche, ma quando ho visto che dubitava di tutto, ho concluso che ne sapevo quanto lui e non avevo bisogno di nessuno per essere ignorante.»
Candido, scorgendo un Milton, gli chiese se non lo considerasse un grand’uomo. «Chi?» disse Pococurante, «quel barbaro che commenta il primo capitolo della Genesi con dieci libri di versi pesanti? Quel grossolano imitatore dei greci, che sfigura la creazione e che, mentre Mosè rappresenta l’Essere eterno nell’atto di creare il mondo con la parola, fa prendere al Messia un grande compasso in un armadio del cielo per tracciare la propria opera? E io dovrei stimare un uomo che ha rovinato l’inferno e il diavolo del Tasso; che traveste Lucifero ora da rospo, ora da pigmeo, che lo fa discutere di teologia, e che fa sparare ai diavoli il cannone nel cielo? Né a me, né a nessuno in Italia sono piaciute queste stravaganze.»
Candido era rattristato da questi discorsi; rispettava Omero, e Milton gli piaceva abbastanza. «Ahimè!» disse piano a Martino, «temo molto che quest’uomo nutra un sovrano disprezzo per i nostri poeti tedeschi.» «Non sarebbe un gran male», disse Martino. «Oh, che uomo superiore!» disse ancora Candido fra i denti, «che grande genio questo Pococurante! Nulla gli può piacere.»
Dopo aver esaminato tutti i libri, scesero in giardino. Candido ne lodò la bellezza. «Non trovo nulla di gusto peggiore», disse il padrone, «sono tutte cianfrusaglie, ma domani comincerò a farne piantare uno di disegno più nobile.»
Quando i due curiosi si furono congedati da Sua Eccellenza, Candido disse a Martino: «Converrete che costui è il più felice degli uomini, poiché è al di sopra di tutto ciò che possiede.» «Non vedete», disse Martino, «che è disgustato da tutto ciò che possiede? Platone ha detto, molto tempo fa, che i migliori stomaci non sono quelli che rigettano tutti gli alimenti.» «Ma», disse Candido, «non è forse un piacere poter criticare tutto e trovare difetti dove gli altri uomini vedono bellezza?» «Cioè», riprese Martino, «provar piacere nel non provar piacere?» «Ebbene», disse Candido, «allora solo io sarò felice, quando rivedrò la signorina Cunegonda.» «È sempre bene sperare», disse Martino.
Intanto, i giorni e le settimane passavano; Cacambo non tornava, e Candido era talmente affranto dal dolore che non notò come Paquette e fra Giroflé non fossero venuti nemmeno a ringraziarlo.
Voltaire, Candido o l’ottimismo, Newton Compton, 1995