In Candide, Voltaire utilizza la satira per demolire l’ottimismo filosofico, rappresentato dal pensiero di Leibniz, e affrontare la presenza del male nel mondo. Attraverso le disavventure di Candido, il protagonista, e i suoi incontri con vari personaggi, Voltaire denuncia l’assurdità di credere che “tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili”. La narrazione, che si snoda tra episodi tragici e comici, smaschera la superficialità dell’ottimismo e invita a un realismo disincantato, culminando nella famosa conclusione: “Bisogna coltivare il proprio giardino”, un invito a concentrarsi su soluzioni pratiche piuttosto che su vane speculazioni metafisiche.
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Candide è il poema dell’esistenza fortuita, poema amaro e durevole.
—Alain
Quando, verso la metà del gennaio del 1759, cominciò a diffondersi per l’Europa un volumetto in-12, intitolato semplicemente Candide ou l’optimisme, traduit de l’allemand de Mr. le docteur Ralph, l’anonimato, dietro cui l’autore intendeva celarsi, non dovette trarre in inganno nessuno. L’incomparabile esprit di Voltaire non poteva più essere dissimulato, poiché una ormai vasta produzione letteraria ed epistolare lo aveva reso celebre in tutta Europa. Già nel numero del primo marzo della Correspondance littéraire, che all’epoca il barone Friederich-Melchior Grimm redigeva quasi da solo, si annunciava a tutte le corti europee, cui essa veniva inviata manoscritta come bollettino delle novità culturali parigine, che «M. de Voltaire ci ha appena allietato con un romanzetto intitolato Candide». Ciò che può sorprendere è la valutazione — ai nostri occhi — fortemente riduttiva che Grimm dà dell’opera: «Non bisogna giudicare questo lavoro con troppa severità: esso non sosterrebbe una critica seria». A questo cammeo filosofico, che oggi appare — al di là di ogni ragionevole dissenso — cesellato con perfetta maestria stilistica, mancherebbero invece secondo il recensore «l’ordine, la disposizione, la saggezza» e «quelle felici pennellate che si trovano in alcuni romanzi inglesi dello stesso genere»; al contrario vi si troverebbero «molte cose di cattivo gusto, altre prive di garbo, licenziosità e oscenità non coperte da quel velo di garza che le rende tollerabili»; nondimeno ammette che la lettura dell’opera è «molto divertente».
Ciò che tuttavia sorprende ancora di più è che questa valutazione così riduttiva doveva essere condivisa molto probabilmente da Voltaire stesso: la scelta dell’anonimato fu certamente una delle consuete misure precauzionali che egli non mancava mai di prendere — di solito invano — quando rendeva di pubblico dominio i propri scritti più compromettenti e audaci, che potevano incorrere — e di solito incorrevano — nella censura e nella condanna dei tribunali ecclesiastici. D’altronde era sua abitudine, «non appena si profilava il minimo pericolo», disconoscere «su tutti i fogli pubblici» l’opera incriminata, «avec ma candeur et mon innocence ordinaires», come dichiarava con allegra sfrontatezza a d’Alembert in una lettera del 19 settembre 1764.
Malgrado tutto ciò, non doveva essere solo una precauzione di circostanza a indurlo a dichiarare a un corrispondente, Jacob Vernet, che Candide non era che uno «scherzo da scolaro» o, addirittura, una «coïonnerie» (in due lettere scritte tra febbraio e marzo 1759). Egli infatti mantenne il medesimo atteggiamento di divertito distacco anche nei confronti di quasi tutta la propria produzione narrativa e pamphletistica. Quelli che sono diventati monumenti dello spirito settecentesco e modelli di stile, di arguzia e di clarté erano per Voltaire bagatelles, rogatons (all’incirca, fondi di cassetto) o facéties. Come è stato autorevolmente sottolineato, «dei maestri del XVII secolo e dell’insegnamento dei gesuiti, egli conservò la convinzione che la poesia possieda una bellezza e una dignità superiori alla prosa. Non sospetterà mai che venti righe di Jeannot et Colin o del Pot Pourri abbiano più valore, secondo i parametri dell’arte, di un intero canto della Henriade». Quando si cimentò per la prima volta con la prosa narrativa, Voltaire aveva già superato i cinquant’anni e il suo secolo già lo celebrava come l’autore di uno sterminato poema epico in ottava rima e di argomento storico — la Henriade, che veniva reputato degno di reggere il confronto con quelli di Tasso e di Ariosto — e di numerose tragedie, da Oedipe a Mérope, da Zaïre ad Alzire, rigorosamente conformi alle tre sacre unità aristoteliche e composte di impeccabili, implacabili alessandrini, di una regolarità che al nostro orecchio post-romantico risulta difficile distinguere dalla piattezza e dalla monotonia. In esse il Settecento credette di riconoscere la rinascita dei fasti del teatro tragico del Grand Siècle, e in effetti queste composizioni posseggono certamente tutto quello che serve per definirle come ineccepibili prodotti del gusto classico, in ritardo di un secolo: ciò cui fa loro difetto è soltanto ciò che più conta per noi, ossia l’esprit di Voltaire, che in esse — come per un maleficio — sembra essersi volatilizzato e dileguato.
Voltaire compose i primi contes philosophiques sul finire del 1747, durante un soggiorno a Sceaux, ospite allo château della duchessa du Maine, presso la quale aveva trovato rifugio dopo aver commesso una terribile e pericolosa gaffe alla corte di Versailles. Essi venivano composti e letti per il diletto della scelta compagnia di persone di mondo che si raccoglievano nel salon della duchessa. Questa origine «mondana» di racconti come Le monde comme il va, Le crocheteur borgne, Cosi-Sancta e di una prima versione di Zadig illumina un aspetto della scrittura narrativa voltairiana che successivamente tutti i critici non mancheranno di evidenziare. Tra i primi, La Harpe osservò come «nessuno abbia conosciuto meglio l’arte di volgere in scherzo la ragione. Voltaire conversa con i propri lettori, facendo credere loro di possedere tutto lo spirito che egli fornisce, tanto le idee che dissemina in abbondanza si offrono sotto una luce chiara e con un aspetto piacevole». Di ciò Voltaire era consapevole: da uomo di mondo, egli conosceva — e praticava con somma finezza — la sottile arte della conversazione. Egli era per di più convinto che la sua stessa lingua, «il francese, a causa dell’andamento naturale di tutti i suoi costrutti e anche della sua prosodia, [fosse] più adatta di ogni altra alla conversazione». È proprio questa conversevole «marche naturelle» che segna il ritmo della prosa narrativa voltairiana, così come sui paradigmi della «régularité, clarté et élégance» si conformano le sue scelte lessicali e l’elocuzione.
Candide non fa eccezione; in esso, anzi, tutte queste qualità paiono trovare una sintesi, perfetta per equilibrio e densità. La naturalezza e la facilità di questa sintesi tra eleganza e precisione, rapidità e acume, poterono essere raggiunte solo in virtù di un’arte raffinata capace di conciliare il rigore argomentativo con la levità della conversazione. Come genere letterario infatti, il roman philosophique presenta una peculiare difficoltà: esso, come sottolineava Condorcet, «ha la sfortuna di sembrare facile, invece esige un talento raro, quello di saper esprimere in una battuta, in un lampo di fantasia, o attraverso gli avvenimenti stessi del romanzo, i risultati di una profonda filosofia, senza smettere di essere naturale, senza smettere di essere vero… Si deve essere filosofo, e non sembrarlo».
Le avventure di Candide — la cacciata dall’angusto e provinciale paradiso terrestre della baronia in Vestfalia, il suo amore innocente e sciagurato per la baronessina Cunégonde, la sua credula devozione per le teorie di Pangloss, i suoi viaggi attraverso il Portogallo e la Spagna, in Sud America, in Inghilterra, in Francia, a Venezia, gli incontri con personaggi diversi tra loro, ma per lo più sventurati quanto lui, il suo sodalizio con l’umile e assennato Cacambo e poi con il disilluso Martin, sedicente manicheo —, senza diventare fredde allegorie o simboli veri e propri, sono figure o episodi che, prive di spessore realistico e psicologico e come ritagliate in silhouette, si offrono a Voltaire quali bersagli ai dardi satirici della sua critica. Egli così può colpire in effigie i pregiudizi e la stupidità della propria epoca con battute che presto divennero proverbiali: si pensi al grido entusiasta «mangeons du jésuite!» – con cui i primitivi Orecchioni catturano Candide, credendolo un gesuita del Paraguay, o l’ironico commento sull’Inghilterra, di cui Voltaire ammirava la costituzione e la libertà politica, dove di recente era stato ingiustamente condannato a morte per alto tradimento l’ammiraglio Byng, sconfitto alle Baleari dal duca de Richelieu: «in questo paese è bene uccidere di tanto in tanto un ammiraglio per incoraggiare gli altri».
Da questo punto di vista, Candide conferma alla lettera l’affermazione secondo cui «l’esprit de Voltaire est un style»: esso è, in effetti, un modo di vedere, interpretare e rappresentare il mondo e le umane cose, e la lingua che egli usa così agilmente ed elegantemente non ne è che il mezzo espressivo più adeguato o, avrebbe detto Voltaire, più naturale: «in una società [come quella settecentesca] che non conosce puritanesimo né religione, il garbo – la ragione stessa diviene garbo – permette il sorriso e il riso che prendono le distanze dal sentimento, la cui espressione diretta sarebbe disdicevole ed esorta a procedere rapidamente – come un dardo o un colpo di stiletto – per non annoiare».
A questa ragione garbata e sorridente parve intollerabile, dopo il disastroso terremoto avvenuto a Lisbona il giorno di Ognissanti del 1755, che la teologia e la metafisica potessero proclamare con sicumera che in questo mondo «tutto è bene». La prima, immediata reazione di Voltaire si cristallizzò nei freddi alessandrini in rima baciata del Poème sur le désastre de Lisbonne, nel quale, in un profluvio di vocativi e domande retoriche, egli esprimeva i propri dubbi sulla fondatezza dell’ottimismo metafisico di Leibniz e di Alexander Pope, che se n’era fatto divulgatore nel suo Essay on Man. Per una civiltà ormai completamente secolarizzata, priva di ansie di trascendenza e ancora fiduciosa nella forza della ragione e dell’industriosità umane, come quella cui Voltaire apparteneva e che incarnava in modo eminente, la miseria, il dolore, la morte cieche e gratuite erano uno scandalo contro natura o contro Dio (che il deismo settecentesco tendeva a confondere tra loro). Voltaire già nel 1722 scriveva in una lettera a Mme de Bernières che «la grande e unica cura che si deve avere è di vivere felici»: gli anni non modificheranno in lui questa convinzione, la quale peraltro era quella di tutto il suo secolo, stimolato da una inestinguibile soif de bonheur (Sainte-Beuve).
Con Candide, Voltaire pronunciò la propria definitiva sentenza: «l’ottimismo è desolante. È una filosofia crudele dal nome consolante» (lettera a Elie Bertrand del 18 febbraio 1758). Nella filosofia ottimistica Voltaire scorgeva non solo un mero, acquiescente fatalismo, inteso a scoraggiare ogni umana attività in nome della provvidenziale immodificabilità dell’esistente, ma anche una delle solite imposture della «metafisico-teologo-cosmolonigologia», ovvero un «romanzo metafisico» che egli sentiva come un oltraggio al buon senso e alla ragionevolezza, il quale aggiungeva alle «tante miserie e orrori [del mondo] l’assurda furia di negarle».
Non dovrebbe nemmeno esserci bisogno di dimostrare che la teodicea leibniziana, incentrata sulla nozione di armonia prestabilita, ha poco in comune con l’idolo polemico che Voltaire eresse come bersaglio dei propri strali. Come un Giobbe imparruccato e incipriato, Voltaire si trovò a imprecare levando il suo pugno scheletrico contro il cielo vuoto di dèi, e la sua indignazione per la irragionevole disarmonia di questo mondo individuò nell’armonia prestabilita leibniziana la chimera metafisica su cui scaricare tutto il proprio scherno e il proprio disprezzo. Il razionalismo voltairiano, disposto ad accettare le «maestose leggi» neutoniane che con meccanicistica immodificabilità regolano il corso dell’universo, era ancora legato a un ideale umanistico – laico e mondano –, il quale non poteva sottomettersi senza recalcitrare alla «cieca necessità» del grande meccanismo a orologeria. Come osservò Alain, Voltaire «per un momento rifiutò la ragion di Stato, mascherata da ragione universale, che uccide diecimila individui [a Lisbona] per il bene dell’insieme. Quel giorno venne assalito dal malumore, e del malumore ne fece raziocinio».
Voltaire però rifiuta di impegnarsi in una disputa scolastica contro un sistema metafisico coerente come quello leibniziano; spostando il discorso su un diverso registro linguistico e concettuale, procede invece, più brutalmente, a demolirlo «par l’obsession d’un style» (R. Pomeau), – lo stile ironico del suo esprit, contro il quale nessuna coerenza sembra poter resistere. Un intero sistema filosofico viene così incarnato dalla patetica figura di Pangloss, il precettore di Cunégonde al castello di Vestfalia e maestro di Candide, ortodosso propugnatore delle idee leibniziane, che egli, ripetendole in ogni circostanza e dinanzi a qualsiasi sciagura, trasforma in risibili slogans.
Forse per la prima, e certamente per l’ultima, volta nella storia della filosofia e della letteratura si è ricorsi in Candide alla più aperta comicità per affrontare uno dei temi meno ridicoli e divertenti che abbiano inquietato le indagini dei filosofi: la inconcepibile presenza del male in un mondo creato da un Dio benigno. La teodicea si trasforma in un’irresistibile farsa, in cui i personaggi, le peripezie, le gags si susseguono a un ritmo frenetico. Dopo aver deliberatamente assunto uno stile che l’ars poetica classica avrebbe definito da «comico basso», Voltaire non lo abbandona più e ogniqualvolta le dolorose avventure dei protagonisti potrebbero indurre il lettore a sentimenti di compassione o malinconia, egli ne raffredda l’istintivo impulso empatetico (tipico dei lettori di romances) con una battuta spietatamente comica.
Quando Cunégonde, per esempio, ritrova momentaneamente Candide, sfuggito alle torture dell’Inquisizione in Portogallo e, come un’eroina da romanzo, gli riferisce dell’oltraggio patito a opera di un soldato dell’armata «bulgara», che durante la guerra ha devastato il castello, uccidendo i suoi genitori, e della resistenza opposta poi alle brame del suo nuovo padrone ebreo, la morale che ella trae dalla vicenda è che «una persona d’onore può essere violata una volta, ma la sua virtù ne rimane consolidata».
La paradossalità di questa conclusione, che ricorda quella di certi non-sense di Congreve, rende impossibile al lettore ogni sentimento compassionevole. Nel breve volgere del primo paragrafo del terzo capitolo, si parla di una battaglia tra «bulgari e abari», nella quale prima «la moschetteria tolse dal migliore dei mondi» diecimila uomini e poi «la baionetta fu la ragione sufficiente» della morte di altre migliaia. Nel paragrafo successivo, con la stessa brevità, Voltaire evoca le conseguenze della guerra, prima fra tutte un Te Deum di ringraziamento e lode tributato a Dio da entrambi i re in conflitto. L’assurdità della cruenta guerra dei Sette Anni – la prima guerra «mondiale», combattuta su tre continenti (Europa, India, Nord America) e che si concluse per la Francia con la perdita dell’impero coloniale – viene denunciata in due paragrafi elegantemente concisi e scintillanti di spirito. Analogo discorso vale per il terremoto di Lisbona condensato in poche righe (cap. V) e, in generale, per tutte le narrazioni delle proprie sventure fatte dai personaggi (la vecchia, Martin, Pangloss, Paquette, Giroflée).
La brutalità e la follia del mondo suscitavano in Voltaire un’indignazione, che gli procurava febbri nervose in occasione di ogni anniversario della notte di San Bartolomeo, ma che non trasgrediva tuttavia le forme compite dello stile e dello spirito. Questo, in quanto stile, presuppone ed esige lucidità e distacco nei confronti della realtà: lo stile poté così diventare un filtro, uno schermo che permise a Voltaire di fissare lo sguardo nel cuore tenebroso del male e dell’orrore senza rimanere impietrito.
L’ironia con cui Voltaire capovolge in briosa fantasmagoria il funesto grand guignol della vita umana e del mondo è il contrario del cinismo, poiché nasce dall’indignazione e dall’urgenza di comprendere; e se Voltaire non volle concedere nulla al facile sentimento della compassione, fu perché sapeva che questa indignazione doveva mutarsi in intelligenza, in pacata riflessione per poter essere proficua: a suscitare pietà e terrore bastavano il sublime tragico e i romans larmoyantes. Che poi, una volta infranto ogni retromondo trascendente, sede di valori eterni e di eterne ricompense, la ragione di Voltaire vacillasse dinanzi al male del mondo, che, ridotto a dato bruto, si imponeva in tutta la sua insensata accidentalità, non era cosa che potesse indurlo a una nichilistica disperazione. Il temperato pessimismo voltairiano investiva anche la ragione stessa, dei cui limiti egli era consapevole: la voce Bien (tout est bien) del Dictionnaire philosophique si chiude con una franca ammissione: «non liquet: la cosa non è chiara».
Ciò che di questo mistero rimane inesplicato e inesplicabile non turba eccessivamente Voltaire, poiché ciò che egli cercava demolendo il sistema leibniziano non era l’erezione di un altro sistema alternativo a questo, bensì piuttosto un modo di vivere, una saggezza pratica che riuscisse a superare il tragico contrasto tra l’aspirazione alla felicità e l’impossibilità di conquistarla definitivamente in questo mondo, tra il proprio egoistico benessere e la consapevolezza dell’universale infelicità, tra l’istinto di autoconservazione e le responsabilità nei confronti degli altri, tra l’esigenza di nutrire la speranza che un giorno le cose possano migliorare e la certezza che tale speranza è irragionevole, tra «le convulsioni degli affanni, o nel letargo della noia»; una saggezza laica che, senza ricorrere a quelle che per Voltaire erano chimere metafisiche, fosse in grado di giustificare quell’amore che lega ogni animale (e quindi anche l’uomo) alla propria esistenza. «Questa ridicola debolezza», come la chiama la vecchia a conclusione del racconto delle proprie disavventure, tenuto a Candide e Cunégonde mentre fuggono in nave verso Buenos Aires – «[che] è forse uno dei nostri lati più funesti; poiché vi è forse cosa più sciocca che voler portare continuamente un fardello che si vuol sempre gettare a terra, avere orrore per il proprio essere, e tenere al proprio essere, accarezzare insomma il serpente che ci divora, fino a che non ci abbia mangiato il cuore?». Voltaire non pretende che la risposta offerta da questa saggezza sia definitiva: la saggezza che egli persegue non è altro che il costumato savoir vivre dell’uomo di mondo, che sa come adeguare il proprio comportamento alla fatale mutevolezza delle umane cose e che anche un bon mot ben tornito può rincuorare.
La soluzione come egli la formulò in Candide è celeberrima: «Bisogna coltivare il proprio giardino». Sono queste forse le uniche parole del romanzo che non celino alcuna venatura ironica: anche il paese d’Eldorado – dove Candide capita insieme a Cacambo, fuggendo dal Paraguay governato dai gesuiti, e del quale presto si stanca perché in esso «la signorina Cunégonde non c’è» – sembra infatti, in tutta la sua perfezione, più la caricatura del chimerico Regno dei Cieli o dell’utopica civitas Dei che il suo ideale di vita – tanta beatitudine alla lunga annoia. Pangloss approva questa soluzione, ma, obbedendo alla propria natura di ragionatore, vuole fondarla e dimostrarla more philosophico, e quindi continua a sostenere che, se la «petite société» si è potuta infine riunire sulle coste del Bosforo, il motivo è che «tutti gli eventi sono tra loro connessi nel migliore dei mondi possibili». Candide però, come Voltaire, non ha più voglia di discettare; per quanto «ciò sia ben detto», quello che conta ormai sono solo i fatti: la cura del proprio giardino. Al derviscio che, incurante se esistano il bene e il male, retoricamente domanda se, «quando spedisce un vascello in Egitto, Sua Altezza si preoccupi che i topi vi stiano bene», Pangloss chiede che cosa dunque si debba fare: la risposta è perentoria – «Tacere». Anche da Martin, cui aveva offerto un saggio di arte deduttiva, dimostrandogli che «quando l’uomo fu posto nel giardino dell’Eden, vi fu posto ut operaretur eum, perché lavorasse; questo prova che l’uomo non è nato per il riposo», Pangloss riceve come al solito una brusca replica: «Lavoriamo senza ragionare; è il solo modo di rendere la vita sopportabile». Pangloss e il suo esprit de système vengono ridotti al silenzio da una saggezza operosa ed efficiente, disposta a rinunciare a capire ciò che travalica le possibilità di comprensione del bon sens, concreto e positivo.
Nel frattempo tuttavia, da quando, due secoli e mezzo fa, Candide e compagnia si sono rifugiati nel proprio hortus conclusus, la dialettica immanente all’illuminismo ne ha capovolto la ragione strumentale, meramente conforme allo scopo, in cieca efficienza; il progresso ha fornito mezzi di distruzione sempre più orrendi agli uomini sulla cui natura né Martin né Voltaire si facevano illusioni («se gli sparvieri hanno sempre lo stesso carattere, perché mai volete che gli uomini abbiano cambiato il loro?»); «lavorare senza ragionare» aumenta forse la produttività dell’operaio alla catena di montaggio, ma ciò non contribuisce di certo alla realizzazione della sua felicità ed è solo una macabra irrisione dire che «il lavoro rende liberi»; i lumi della ragione hanno finito per accecare i turiferari del progresso: «l’intelligenza si trasforma immediatamente in stupidità di fronte al progresso regressivo. Al pensiero non resta altra comprensione che l’orrore dell’incomprensibile». Voltaire ha potuto volgere l’orrore in sorriso e il sorriso in pensiero, perché per lui il male era ancora l’oscuro recesso non raggiunto (né forse raggiungibile) dai raggi della albeggiante ragione, e non il prodotto di questa stessa ragione accecata.
Voltaire e gli honnêtes hommes, che ne erano gli interlocutori, potevano contemplare lo spettacolo mondano – incontestabilmente composto in buona parte di violenze, disgrazie, infermità, atrocità, miserie – con il sobrio distacco di chi può, in modo altrettanto incontestabile, confidare sulla vivacità e l’acutezza del proprio spirito (se non sulla propria ragione), su un sistema di pratiche sociali e di convenzioni culturali che il tempo e il bon sens hanno forgiato e codificato, sulla pregiudiziale convinzione che un uomo colto, raffinato e intelligente sappia coltivare meglio di altri il proprio giardino. Frattanto però questo giardino si è ridotto a pochi metri di verde condominiale ed è cintato da un muro con in alto cocci aguzzi di bottiglia: più che a un buen retiro assomiglia al cortile di un carcere. Del consiglio del vecchio patriarca di Ferney – «Mortali, volete sopportare la vita? Obliate e divertitevi» – non sappiamo che farcene, poiché oggi la frivolezza non è altro che la maschera ridente del cinismo trionfante: la domanda che ci assilla non è più quella cui cercava di rispondere la teodicea leibniziana, bensì quella posta da un personaggio di Waiting for Godot – «Dormivo forse mentre gli altri soffrivano?» — e il nostro silenzio di fronte a questa domanda testimonia solo della nostra atterrita impotenza.
Valéry, a duecentocinquant’anni dalla nascita di Voltaire, mentre l’Europa era ancora devastata dal flagello fascista, si chiedeva: «Dov’è il Voltaire che incriminerà il mondo moderno?» Non c’è, ovviamente; ma non perché manchino gli ingegni: ciò che manca al mondo moderno sono le parole e i tours d’esprit per esprimere, con régularité, clarté et élégance, il proprio smarrimento e la propria vergogna.
Premessa di Riccardo Campi a Voltaire, Candido o l’ottimismo, Newton Compton, 1995