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* * *
Il testo
Ero immerso in una di quelle meditazioni profonde che capitano a tutti, anche a un uomo frivolo, in seno alle feste più tumultuose.
Mezzanotte era suonata da poco all’orologio dell’Elysée-Bourbon.
Seduto nel vano d’una finestra, e nascosto sotto le pieghe ondulate d’una tenda di moire, potevo contemplare a mio agio il giardino del palazzo in cui passavo la sera. Gli alberi, imperfettamente coperti di neve, si staccavano debolmente sul fondo grigiastro d’un cielo nuvoloso appena schiarito dalla luna.
Visti in quell’atmosfera fantastica, somigliavano vagamente a spettri male avviluppati nei loro lenzuoli funebri, immagine gigantesca della famosa “danza dei morti”. Poi, volgendomi dall’altra parte, potevo ammirare la danza dei vivi! un salotto splendido, dalle pareti d’argento e oro, dai lampadari scintillanti, splendente di candele. Là, formicolavano, s’agitavano e sfarfallavano le più belle donne di Parigi, le più ricche, le più titolate, brillanti, pompose, abbaglianti di diamanti! con fiori sulla testa, sul seno, nei capelli, sparsi sulle vesti, o in ghirlande ai loro piedi. Erano leggeri fremiti di gioia, passi voluttuosi che facevano ondeggiare i merletti, le blonde, la mussolina intorno ai fianchi delicati. Qualche occhiata troppo vivace si faceva strada qua e là, eclissava le luci, il fuoco dei diamanti, e animava ancor più cuori già troppo ardenti.
Si sorprendevano così cenni di teste significativi per gli amanti, e negativi per i mariti. Gli scoppi di voce dei giocatori, a ogni colpo imprevisto, il tintinnio dell’oro si frammischiavano alla musica, al mormorio delle conversazioni; per finir di stordire quella folla inebriata da tutto quello che il mondo elegante può offrire di seduzioni, un vapore di profumi e l’ebbrezza generale agivano sulle immaginazioni che si smarrivano. Così, alla mia destra, la fosca e silenziosa immagine della morte, a sinistra, i decenti baccanali della vita: qui, la natura fredda, cupa, in lutto; là, uomini in gaudio. Io, sulla frontiera di questi due quadri disparati, che, mille volte ripetuti in diversi modi, rendono Parigi la città più divertente del mondo e la più filosofica, facevo una macedonia morale, mezzo faceta mezzo funebre. Col piede sinistro segnavo il tempo, e credevo d’aver l’altro nella tomba. La mia gamba destra era di fatti ghiacciata da uno di quegli spifferi che vi gelano una metà del corpo mentre l’altra metà sente il calore umido dei salotti, cosa abbastanza frequente nei balli.
– Non è molto tempo, è vero? che il signor de Lanty possiede questo palazzo?
– Ma sì. Sono quasi dieci anni che il maresciallo de Carignan glielo ha venduto…
– Ah!
– Devono avere un patrimonio immenso?
– Certo.
– Che festa! un lusso insolente.
– Li credete ricchi come il signor de Nucingen o come il signor de Gondreville?
– Ma non lo sapete anche voi?
Sporsi la testa e riconobbi i due interlocutori come appartenenti a quella razza curiosa che, a Parigi, si occupa esclusivamente dei “Perché?” dei “Come?” ” Di dove viene?” “Chi sono?” “Che succede?” “Che ha fatto lei?”. Si misero a parlare sottovoce, e s’allontanarono per andare a discorrere con più comodo su qualche canapé solitario. Una miniera feconda s’era aperta ai dilettanti di misteri. Nessuno sapeva da quale paese veniva la famiglia de Lanty, né da quale commercio, da quale spoliazione, da quale pirateria o da quale eredità provenisse un fortuna stimata parecchi milioni. Tutti i membri della famiglia parlavano l’italiano, il francese, lo spagnolo, l’inglese e il tedesco, con sufficiente correttezza per far supporre che avevano dovuto soggiornare a lungo tra quei diversi popoli. Zingari?
Filibustieri?
– Fossero anche il diavolo! – dicevano i giovani politici danno ricevimenti meravigliosi.
– Se anche il conte de Lanty avesse svaligiato qualche “Casauba”, ne sposerei volentieri la figlia! – esclamava un filosofo.
E chi non avrebbe sposato Mariannina, giovinetta di sedici anni, la cui bellezza realizzava le favolose concezioni dei poeti orientali? Come la figlia del sultano nella favola della Lampada meravigliosa, essa avrebbe dovuto restare velata. Il suo canto faceva impallidire i talenti incompleti delle Malibran, delle Sontag, delle Fodor, nelle quali una qualità dominante ha sempre escluso la perfezione dell’insieme; mentre Mariannina sapeva unire allo stesso grado di perfezione la purezza del suono, la giustezza del movimento e delle intonazioni, l’anima e la tecnica, la correttezza e il sentimento. Quella ragazza era il tipo di quella poesia segreta, luogo comune di tutte le arti, e che sfugge sempre a quelli che la cercano. Dolce e modesta, istruita e intelligente, nessuna donna poteva eclissare Mariannina, tranne sua madre.
Avete mai incontrato qualcuna di quelle donne la cui bellezza sfolgorante sfida le offese dell’età, e che a trentasei anni appaiono più desiderabili di quel che dovevano essere quindici anni prima? Il loro volto è un’anima appassionata, scintilla; ogni lineamento vi brilla d’intelligenza; ogni poro possiede uno splendore speciale, soprattutto alla luce artificiale. I loro occhi seducenti attirano, respingono, parlano o tacciono; il loro passo è innocentemente sapiente; la voce spiega le melodiose ricchezze dei toni più seducentemente dolci e teneri. Fondati su paragoni, i loro elogi accarezzano l’amor proprio più suscettibile. Un movimento delle sopracciglia, la minima occhiata, il labbro che si corruga incutono una specie di terrore a quelli che fanno dipendere da loro la vita e la felicità. Inesperta dell’amore e docile ai discorsi, una ragazza può lasciarsi sedurre; ma per quella specie di donne, un uomo deve sapere, come il signor de Jaucourt, non gridare quando, nascosto in fondo a un salottino, la cameriera gli spezza due dita nella fessura d’una porta. Amare quelle potenti sirene, non è forse mettere in gioco la vita? Ed ecco perché forse le amiamo con tanta passione! Tale era la contessa de Lanty.
Filippo, fratello di Marianna, aveva ereditato, come sua sorella, la bellezza meravigliosa della contessa. Per dir tutto in una sola parola, il giovanotto era un’immagine vivente dell’Antinoo, con delle forme più gracili. Ma quelle magre e delicate proporzioni quanto si addicono alla giovinezza quando una carnagione olivastra, sopracciglia vigorose e il fuoco d’un occhio vellutato promettono per l’avvenire passioni maschie, idee generose! Se Filippo restava, nei cuori di tutte le ragazze, come un tipo di perfezione, rimaneva anche nel ricordo di tutte le madri, come il miglior partito di Francia.
La bellezza, la ricchezza, lo spirito e le grazie di quei due ragazzi venivano unicamente dalla madre. Il conte de Lanty era piccolo, brutto e butterato; cupo come uno Spagnolo, noioso come un banchiere. Passava del resto per un profondo politico, forse perché raramente rideva, e citava a ogni proposito Metternich o Wellington.
La misteriosa famiglia offriva tutta l’attrattiva d’una poesia di Lord Byron: le sue difficoltà venivano tradotte in modo diverso da ciascuna persona del bel mondo; era un canto oscuro, di strofa in strofa sublime. Il riserbo del conte e della contessa de Lanty sulla loro origine, sulla loro vita passata e sulle loro relazioni con le quattro parti del mondo non sarebbe stato a lungo una ragione di meraviglia a Parigi. In nessun paese forse l’assioma di Vespasiano è meglio inteso. Gli scudi, anche macchiati di sangue o di fango non rivelano niente e rappresentano tutto. Purché il mondo conosca la cifra delle vostre rendite, siete classificato tra le somme eguali a voi, e nessuno chiede di vedere le vostre pergamene, perché tutti sanno quanto costino poco. In una città in cui i problemi sociali si risolvono con equazioni algebriche, gli avventurieri hanno molte probabilità in loro favore. Ammettendo che la famiglia de Lanty fosse d’origini zingaresche, era così ricca, così attraente, che il mondo poteva ben perdonarle i suoi piccoli misteri. Ma, disgraziatamente, la storia enigmatica di casa Lanty offriva un rinascente interesse di curiosità, molto simile a quello dei romanzi di Anna Radcliffe.
Gli osservatori, gente che tiene a sapere in quale negozio comprate i vostri candelabri, o che vi chiedono quanto pagate di pigione quando il vostro appartamento sembra loro bello, avevano notato, di tanto in tanto, in mezzo alle feste, ai concerti, ai balli, ai grandi ricevimenti dati dalla contessa, l’apparizione d’uno strano personaggio. Un uomo. La prima volta che si fece vedere fu durante un concerto, e sembrò che fosse stato attirato in salotto dalla voce incantatrice di Mariannina.
– Da un momento in qua, ho freddo – disse alla sua vicina una signora che stava vicino alla porta.
Lo sconosciuto, che si trovava vicino alla signora, se ne andò.
– E’ strano! ho caldo – disse la donna dopo che l’estraneo si fu allontanato. – E direte forse che sono pazza, ma non posso fare a meno di pensare che il mio vicino, quel signore vestito di nero che se n’è andato ora, era la causa di quel freddo.
Presto l’esagerazione naturale alle persone dell’alta società fece nascere e accumulare le idee più buffe, le espressioni più bizzarre, le favole più ridicole su quel misterioso personaggio.
Senza essere precisamente un vampiro, un uomo artificiale, una specie di Faust o di Robin dei boschi, aveva, secondo le persone amanti del fantastico, qualcosa di tutte quelle nature antropomorfe. C’erano qua e là dei Tedeschi che prendevano sul serio questi motteggi ingegnosi della maldicenza parigina. Lo straniero era semplicemente un vecchio. Parecchi di quei giovanotti, abituati a decidere, tutte le mattine in qualche frase elegante dell’avvenire dell’Europa, volevano vedere nello sconosciuto un gran criminale, possessore d’immense ricchezze. Dei romanzieri raccontavano la vita di quel vecchio, e vi davano particolari veramente curiosi sulle atrocità da lui commesse quando era a servizio del principe di Mysore. Dei banchieri, gente più positiva, accreditavano una favola convincente:
– Bah! – dicevano alzando le larghe spalle in una mossa di commiserazione – il vecchietto è una “testa genovese”!
– Signore, se non sono indiscreto, vorreste avere la bontà di spiegarmi che cosa intendete per una testa genovese?
– E’ un uomo, signore, sulla cui vita riposano enormi capitali, e dalla salute di lui dipendono probabilmente le rendite di questa famiglia.
Mi ricordo d’aver sentito in casa della signora d’Espard un magnetizzatore il quale provava, con considerazioni storiche molto speciose, che quel vecchio, messo sotto vetro, era il famoso Balsamo detto Cagliostro. Secondo il moderno alchimista, l’avventuriero siciliano era sfuggito alla morte e si divertiva a fare dell’oro per i suoi nipoti. Infine il balivo de Ferette sosteneva d’aver riconosciuto nello strano personaggio il conte di San Germano. Queste sciocchezze, dette in tono spiritoso, con l’aria beffarda che ai giorni nostri caratterizza una società incredula, mantenevano sulla casa de Lanty come un’aura di sospetto. E poi, per uno strano concorso di circostanze, i membri di quella famiglia giustificavano le congetture del bel mondo, tenendo una condotta misteriosa verso il vecchio, la cui vita era in qualche modo sottratta a ogni investigazione.
Se questo personaggio varcava la soglia dell’appartamento che doveva occupare nel palazzo Lanty, la sua apparizione causava sempre nella famiglia una grande sensazione. Si sarebbe detto un avvenimento importante. Filippo, Mariannina, la signora de Lanty e un vecchio domestico erano i soli che avevano il privilegio di aiutare lo sconosciuto a camminare, ad alzarsi, a sedersi.
Ciascuno ne sorvegliava i minimi movimenti. Pareva che fosse una persona incantata da cui dipendessero la felicità, la vita o la fortuna di tutti. Timore o affetto? La gente del bel mondo non riusciva a scoprire nessun indizio che li aiutasse a risolvere il problema. Nascosto per mesi interi in fondo a un santuario sconosciuto, quel genio familiare ne usciva a un tratto come furtivamente, senza essere atteso, e compariva in mezzo ai salotti come le fate d’altri tempi che scendevano dai loro draghi volanti per venire a turbare solennità a cui non erano state invitate.
Solo gli osservatori più esercitati potevano allora indovinare l’inquietudine dei padroni di casa, che sapevano dissimulare con singolare abilità i loro sentimenti. Ma, a volte, pur continuando a ballare una quadriglia, la troppo spontanea Mariannina gettava un’occhiata di terrore sul vecchio che sorvegliava da lontano.
Oppure Filippo si slanciava scivolando attraverso la folla, per raggiungerlo, e restava accanto a lui, tenero e attento, come se il contatto con gli uomini o il minimo soffio dovesse spezzare quella creatura bizzarra. La contessa cercava di avvicinarsi a lui, senza mostrare di aver l’intenzione di raggiungerlo, poi, assumendo dei modi e una fisionomia improntati di servilità e d’affetto, di sottomissione e di dispotismo, diceva due o tre parole alle quali il vecchio quasi sempre obbediva, e spariva condotto, o, per meglio dire, portato via da lei. Se la signora di Lanty non c’era, il conte impiegava mille stratagemmi per arrivare a lui; ma pareva che gli riuscisse difficile di farsi ascoltare, e lo trattava come un bambino troppo accarezzato di cui la madre ascolta i capricci o teme le bizze. Qualche indiscreto si era azzardato a interrogare con una certa storditaggine il conte de Lanty, ma quest’uomo freddo e riservato pareva che non capisse mai le domande dei curiosi. Così, dopo molti tentativi, resi vani dalla circospezione di tutti i membri della famiglia, nessuno cercò più di scoprire un segreto così ben custodito. Le spie di alto grado, i creduloni e i politici avevano finito, scoraggiati, col non occuparsi più di quel mistero.
Ma, in quel momento, c’erano forse in quei salotti splendenti dei filosofi che, prendendo un gelato, un sorbetto, o posando sopra una mensola il bicchiere vuoto, si dicevano:
– Non mi stupirei di venire a sapere che sono dei bricconi. Quel vecchio che si nasconde e compare ogni equinozio o ogni solstizio, mi ha tutta l’aria d’un assassino…
– O d’un fallito…
– E’ quasi lo stesso. Uccidere il patrimonio d’un uomo, è qualche volta peggio che uccidere lui.
– Signore, ho scommesso venti luigi, me ne vengono quaranta.
– In fede mia! signore, ce ne sono solo trenta sul tappeto…
– Ebbene, vedete che razza di gente frequenta qui. Non ci si può giocare.
– E’ vero. Ma sono quasi sei mesi che non abbiamo visto lo spirito. Credete che sia una persona viva?
– Eh! eh! tutt’al più…
Queste parole venivano dette, intorno a me, da sconosciuti che se ne andarono nel momento in cui ricapitolavo, in un ultimo pensiero, le mie riflessioni miste di bianco e di nero, di vita e di morte. La mia sbrigliata immaginazione da un lato e i miei occhi dall’altro contemplavano volta a volta e la festa giunta al suo più alto grado di splendore e il quadro cupo del giardino. Non so quanto tempo meditai su queste due facce della medaglia umana; ma all’improvviso il riso soffocato d’una giovane donna mi riscosse. Restai stupefatto all’aspetto dell’immagine che mi si offrì allo sguardo. Per uno dei più rari capricci della natura, il pensiero in mezzo lutto che mi si aggirava per la testa ne era uscito, si trovava innanzi a me personificato, vivo, era balzato come Minerva dalla testa di Giove, grande e forte, aveva allo stesso tempo cent’anni e ventidue anni, era vivo e morto. Sfuggito dalla sua camera, come un pazzo dalla sua cella, il vecchietto era senza dubbio abilmente scivolato dietro una siepe di persone attente alla voce di Mariannina che finiva la cavatina del “Tancredi”. Pareva fosse uscito di sottoterra, spinto da una macchina di teatro. Immobile e cupo, restò per un momento a contemplare la festa il cui frastuono gli era forse giunto all’orecchio. La sua preoccupazione, che aveva del sonnambulismo, era così concentrata sulle cose che si trovava in mezzo alla gente senza vederla. Era spuntato senza cerimonie accanto a una delle più seducenti donne di Parigi, danzatrice elegante e giovane, dalle forme delicate, uno di quei visi freschi come quello d’un bambino, bianco e rosa, e così fragili, così trasparenti che uno sguardo d’uomo dovrebbe attraversarle, come i raggi del sole attraversano un pezzo di ghiaccio limpido. Stavano lì, innanzi a me, tutti e due, insieme, uniti e così vicini, che lo straniero sfiorava e il vestito di velo, e le ghirlande di fiori, e i capelli leggermente crespi, e il nastro ondeggiante della cintura.
Ero stato io a condurre al ballo della contessa de Lanty quella giovane donna. Siccome era la prima volta che veniva in quella casa, le perdonai il suo riso soffocato; ma le feci vivacemente un cenno imperioso che la fece restare interdetta e le ispirò rispetto per il suo vicino. Essa sedette accanto a me. Il vecchio non volle lasciare la deliziosa creatura, a cui s’attaccò capricciosamente con quella ostinazione muta e senza causa apparente a cui vanno soggette le persone molto vecchie, e che le fa somigliare a bambini. Per sedersi accanto alla giovane signora, dovette prendere un seggiolino pieghevole. I suoi minimi movimenti ebbero la pesantezza fredda, la stupida indecisione che caratterizzano i gesti d’un paralitico. Si accomodò lentamente sul suo seggiolino, borbottando qualche parola inintelligibile. La sua voce fessa somigliò al rumore che fa un sasso cadendo in un pozzo.
La giovane donna mi strinse forte la mano, come se avesse voluto garantirsi da un precipizio, e rabbrividì quando l’uomo, che essa guardava, rivolse su di lei due occhi senza calore, due occhi glauchi che non si potevano paragonare che a una madreperla che ha perduto la sua lucentezza.
– Ho paura – mi disse piegandosi verso il mio orecchio.
– Potete parlare – risposi. – Sente molto difficilmente.
– Lo conoscete dunque?
– Sì.
Riacquistò allora abbastanza coraggio per esaminare per un istante quella creatura senza nome nel linguaggio umano, forma senza sostanza, essere senza vita, o vita senza azione. Era sotto il fascino di quella paurosa curiosità che spinge le donne a procurarsi emozioni pericolose, a vedere tigri incatenate, a guardare serpenti boa, piene di spavento all’idea di non esserne separate che da deboli barriere. Benché il vecchietto avesse la schiena curva come quella d’un vecchio contadino, era facile accorgersi che la sua persona aveva dovuto essere regolare. La sua eccessiva magrezza, la delicatezza delle sue membra, provavano che le sue proporzioni erano sempre state svelte. Portava dei calzoni di seta nera, che ondeggiavano intorno alle cosce scarnite facendo le stesse pieghe d’una vela ammainata. Un anatomista avrebbe riconosciuto subito i sintomi di una spaventosa etisia vedendo le magre gambette che servivano a sostenere quello strano corpo: due ossa messe in croce sopra una tomba. Un senso di profondo orrore vi prendeva il cuore quando una fatale attenzione vi rivelava i segni impressi dalla decrepitezza su quella macchina casuale. Lo sconosciuto portava un panciotto bianco, ricamato in oro, all’antica, e la sua camicia era d’un bianco abbagliante. Una gala di merletto d’Inghilterra un po’ ingiallito, la cui ricchezza avrebbe fatto invidia a una regina, s’increspava in onde gialle sul suo petto; ma su di lui quel merletto era più un cencio che un ornamento. In mezzo al merletto, un diamante d’un valore incalcolabile scintillava come un sole. Quel lusso antiquato, quel tesoro intrinseco e senza gusto, facevano anche meglio risaltare il volto di quell’essere bizzarro. La cornice era degna del ritratto. La faccia nera era angolosa e incavata dappertutto. Il mento incavato, le tempie incavate; gli occhi si perdevano nelle orbite giallastre. Gli ossi mascellari, messi in evidenza da una magrezza indescrivibile, disegnavano cavità in mezzo alle gote.
Quelle protuberanze più o meno rischiarate dalla luce artificiale, producevano ombre e riflessi curiosi che finivano per togliere a quel volto ogni carattere umano. Poi gli anni avevano così fortemente incollata sulle ossa la pelle gialla e fine di quel volto che essa vi descriveva dappertutto una quantità di rughe o circolari, come i cerchi dell’acqua turbata da un sasso che vi getta un fanciullo, o a raggi come la frattura d’un vetro, ma sempre profonde e così fitte come i fogli nel taglio d’un libro.
Ci sono vecchi che presentano spesso un aspetto più orrendo; ma quel che maggiormente contribuiva a dare l’apparenza d’una creazione artificiale allo spettro sopravvenuto innanzi a noi, era il rosso e il bianco vistosi del belletto. Le sopracciglia della sua maschera ricevevano luce da un lampadario che rivelava una pittura molto bene eseguita. Fortunatamente per la vista rattristata da tante rovine, il cranio cadaverico era nascosto da una parrucca bionda i cui riccioli innumerevoli tradivano una pretesa straordinaria. Del resto, la civetteria femminile di quel personaggio fantasmagorico era molto energicamente affermata dagli orecchini d’oro che gli pendevano dalle orecchie, dagli anelli le cui ammirevoli pietre preziose brillavano sulle sue dita ossificate, da una catena da orologio che scintillava come una riviera di diamanti al collo di una donna. Infine, quella specie d’idolo giapponese conservava sulle sue labbra bluastre un riso fisso e deciso, un riso implacabile e canzonatorio, come quello d’una testa di morto. Silenzioso, immobile come una statua, esalava l’odore muschiato dei vecchi abiti che gli eredi d’una duchessa esumano dai loro cassetti durante un inventario. Se il vecchio volgeva gli occhi verso gli invitati, pareva che i movimenti di quei globi incapaci di riflettere una luce fossero dovuti a un artificio ignoto; e quando gli occhi si fermavano, colui che li osservava finiva col dubitare che si fossero mossi.
Vedere, accanto a quei resti umani, una giovane donna col collo, le braccia, e il petto nudi e bianchi, dalle forme piene e fiorenti di bellezza, dai capelli ben piantati sopra una fronte d’alabastro che ispiravano l’amore, dagli occhi che non ricevevano, ma diffondevano la luce, che era soave, fresca e i cui riccioli vaporosi, l’alito odoroso sembravano troppo pesanti per quell’ombra, per quell’uomo ridotto in polvere; ah! erano proprio la morte e la vita, il mio pensiero, un arabesco immaginario, una chimera orribile per metà, divinamente donna nel torso.
“Eppure ci sono matrimoni di questa specie che si fanno abbastanza spesso nel bel mondo” mi dissi.
– Manda odore di cimitero – esclamò la giovane donna spaventata che mi strinse come per accertarsi della mia protezione, e i cui movimenti tumultuosi mi dissero che aveva molta paura. – E’ una visione orribile – riprese – non posso più restar qui. Se lo guardo un’altra volta, crederò che la morte in persona è venuta a cercarmi. Ma è vivo?
Pose la mano sul fenomeno con l’audacia che le donne attingono dalla violenza dei loro desideri; ma un sudore freddo uscì dai suoi pori, perché, appena ebbe toccato il vecchio, sentì un grido simile a quello d’una raganella. Quella voce acre, se pure era voce, sfuggì da una gola quasi inaridita. Poi a quel clamore tenne dietro una tossettina di bambino, convulsa e d’una sonorità speciale. A quel rumore, Mariannina, Filippo e la signora de Lanty rivolsero gli occhi verso noi, e i loro sguardi furono come lampi.
La giovane donna avrebbe voluto trovarsi in fondo alla Senna.
Prese il mio braccio e mi trascinò verso un salottino. Uomini e donne, tutti ci fecero largo. Arrivati in fondo all’appartamento da ricevimento, entrammo in un salottino semicircolare. La mia compagna si gettò sopra un divano, palpitando di spavento, senza sapere dove si trovasse.
– Signora, siete pazza – le dissi.
– Ma – riprese lei dopo un momento di silenzio durante il quale l’ammirai – è forse colpa mia? Perché la signora de Lanty lascia andare in giro fantasmi in casa sua?
– Via – risposi – voi fate come gli sciocchi. Prendete un vecchietto per uno spettro.
– State zitto voi – replicò lei con l’aria imponente che tutte le donne sanno prendere così bene quando vogliono aver ragione. – Che grazioso salottino! – esclamò guardandosi intorno. – Il raso azzurro fa sempre un bell’effetto come tappezzeria. Com’è fresco!
Ah! che bel quadro! – aggiunse alzandosi, e andando a mettersi in faccia a una tela magnificamente incorniciata.
Restammo un momento in contemplazione davanti a quella meraviglia, che sembrava opera d’un pennello soprannaturale. Il quadro rappresentava Adone steso sopra una pelle di leone. Il lume sospeso in mezzo al salottino dentro un vaso d’alabastro, illuminava in quel momento la tela d’una luce dolce che ci permise di cogliere tutte le bellezze della pittura.
– Ma esiste un essere così perfetto? – mi chiese dopo aver esaminato, non senza un dolce sorriso di soddisfazione, la grazia squisita dei contorni, la posa, il colore, i capelli, tutto insomma.
– E’ troppo bello per un uomo – aggiunse dopo un esame eguale a quello a cui avrebbe sottoposta una rivale.
Oh! come sentii il morso di quella gelosia a cui un poeta aveva invano cercato di farmi credere! la gelosia delle stampe, dei quadri, delle statue, in cui gli artisti esagerano la bellezza umana, in conseguenza della dottrina che li porta a idealizzare tutto.
– E’ un ritratto – le risposi. – E’ dovuto al talento di Vien. Ma il grande pittore non ha mai visto l’originale, e la vostra ammirazione sarà forse meno viva quando saprete che questo nudo è stato fatto su una statua di donna.
– Ma chi è?
Esitai.
– Voglio saperlo – aggiunse lei con vivacità.
– Credo – le dissi – che questo Adone rappresenti un… un… un parente della signora de Lanty.
Ebbi il dolore di vederla immergersi nella contemplazione di quella figura. Sedette in silenzio, io mi misi accanto, e le presi la mano senza che se ne avvedesse! Dimenticato per un ritratto! In quel momento il rumore leggero d’un passo di donna la cui gonna frusciava, risuonò nel silenzio. Vedemmo entrare la giovane Mariannina, più brillante ancora per la sua espressione d’innocenza che per la sua grazia e la sua fresca toletta; camminava lentamente, e teneva per il braccio con una cura materna, con una filiale sollecitudine, lo spettro vestito che ci aveva messi in fuga dalla sala di musica; lo condusse guardando con una specie d’inquietudine come posava i suoi piedi deboli.
Tutti e due arrivarono con una certa difficoltà a una porta dissimulata nella tappezzeria. Mariannina bussò piano. Subito apparve, come per magia, un uomo alto, magro, una specie di genio familiare. Prima di affidare il vecchio a quel guardiano misterioso, la giovinetta baciò rispettosamente il cadavere ambulante, e la sua casta carezza non fu esente da quel vezzeggiamento grazioso il cui segreto appartiene a qualche donna privilegiata.
– ADDIO, ADDIO! – diceva con le più graziose inflessioni della sua voce.
Aggiunse anche sull’ultima sillaba un gorgheggio eseguito ammirevolmente, ma a voce bassa come per esprimere poeticamente l’effusione del suo cuore. Il vecchio, colpito all’improvviso da qualche ricordo, restò sulla soglia di quel ridotto segreto.
Sentimmo allora, grazie a un silenzio profondo, il pesante sospiro che gli uscì dal petto: sfilò il più bello degli anelli di cui le sue dita di scheletro erano cariche, e lo mise in seno a Mariannina. La pazzerella si mise a ridere, riprese l’anello, l’infilò di sopra al guanto in uno dei suoi diti, e si slanciò verso la sala, in cui in quel momento risonarono i preludi d’una contraddanza. Ci vide.
– Ah! eravate lì! – disse arrossendo.
Dopo averci guardati come per interrogarci, corse al suo cavaliere con la spensierata petulanza della sua età.
– Che vuol dir questo? – mi chiese la mia giovane interlocutrice.- E’ suo marito? Mi pare di sognare. Dove mi trovo?
– Voi! – risposi – voi, signora, che siete esaltata, e che, comprendendo così bene le emozioni più impercettibili, sapete coltivare in un cuore d’uomo i più delicati sentimenti, senza avvilirlo, senza infrangerlo sin dal primo giorno, voi che avete pietà delle pene d’amore, e che allo spirito d’una Parigina unite un’anima appassionata degna dell’Italia o della Spagna…
Vide bene che il mio linguaggio era pieno d’un’amara ironia; e, allora, senza mostrare di essersene accorta, m’interruppe per dirmi:
– Oh! voi mi fate quale mi volete. Strana tirannia! Volete che io non sia ME STESSA.
-Oh! non voglio niente – esclamai spaventato della sua severità. – Ma è vero almeno che vi piace sentir raccontare la storia di quelle passioni energiche prodotte nei nostri cuori dalle seducenti donne del Mezzogiorno?
– Sì. Ebbene?
– Ebbene, verrò domani da voi verso le nove, e vi svelerò questo mistero.
– No – rispose con aria capricciosa – voglio saperlo subito.
– Non m’avete ancora dato il diritto di obbedirvi quando dite:
“Voglio”.
– In questo momento – rispose con una civetteria da far disperare – ho il più vivo desiderio di conoscere questo segreto. Domani, forse, non vi ascolterò neppure…
Sorrise e ci separammo; lei sempre così fiera, così rude, e io sempre così ridicolo, in quel momento come sempre. Ebbe l’audacia di ballare con un giovane aiutante di campo, e io restai via via offeso, imbronciato, ammirandola, amandola, geloso.
– A domani – mi disse verso le due del mattino, quando lasciò il ballo.
“Non andrò”, pensai, “ti lascio. Sei più capricciosa, più fantastica mille volte forse… della mia immaginazione”.
Il giorno dopo, eravamo davanti a un buon fuoco, in un salottino elegante, seduti tutti e due; lei sopra una poltrona, io, su dei cuscini, quasi ai suoi piedi, e col mio occhio sotto il suo. La strada era silenziosa. La lampada diffondeva una luce dolce. Era una di quelle serate deliziose all’anima, uno di quei momenti che non si dimenticano mai, una di quelle ore passate nella pace e nel desiderio, e di cui, più tardi, il fascino è sempre oggetto di rimpianto, anche quando siamo più felici. Chi può cancellare la viva impronta delle prime sollecitazioni dell’amore?
– Su – disse – vi ascolto.
– Ma io non oso cominciare. L’avventura ha dei punti scabrosi per il narratore. Se mi entusiasmo mi farete tacere.
– Parlate.
– Obbedisco – Ernesto-Giovanni Sarrasine era l’unico figlio d’un procuratore della Franca-Contea – ripresi dopo una pausa. – Suo padre aveva abbastanza onestamente guadagnato da sei a ottomila franchi di rendita, patrimonio da magistrato, che, un tempo, in provincia, passava per colossale. Il vecchio procuratore, che aveva un solo figlio, non volle trascurare nulla per la sua educazione, sperava di farne un magistrato, e vivere tanto da vedere, in vecchiaia, il nipote di Matteo Sarrasine, bifolco nel paese di San Dié, sedersi sui gigli e addormentarsi all’udienza per la maggior gloria del Parlamento; ma il cielo non gli riserbava questa gioia. Il giovane Sarrasine, andato per tempo ai Gesuiti, diede prova d’una turbolenza poco comune. Ebbe l’infanzia d’un uomo di talento. Non voleva studiare che a modo suo, si ribellava spesso, e restava a volte ore intere immerso in confuse meditazioni, occupato, ora a contemplare i suoi compagni che giocavano, ora a figurarsi gli dei di Omero. Poi, se gli accadeva di divertirsi, metteva nei suoi giochi un ardore straordinario. Quando sorgeva una lotta tra un compagno e lui, raramente il combattimento finiva senza sangue. Se era il più debole, mordeva. Di volta in volta pieno d’iniziative o passivo, senza attitudini o troppo intelligente, il suo carattere bizzarro lo fece temere dai suoi maestri quanto dai suoi compagni.
Invece d’apprendere gli elementi della lingua greca, disegnava il reverendo padre che gli spiegava un passo di Tucidide, schizzava il maestro di matematica, il prefetto, gli inservienti, il censore, e ricopriva i muri di abbozzi informi. Invece di cantare in chiesa le lodi del Signore, si divertiva, durante le funzioni, a tagliuzzare il suo banco; o quando aveva rubato qualche pezzo di legno, scolpiva qualche figura di santa. Se il legno, la pietra o la matita gli mancavano, esprimeva le sue idee con la mollica di pane. Sia che copiasse i personaggi dei quadri che guarnivano il coro, sia che improvvisasse, lasciava sempre al suo posto grossolani abbozzi, il cui carattere licenzioso faceva disperare i padri più giovani; e i maldicenti dicevano che i vecchi gesuiti ne sorridevano. Alla fine, se dobbiamo prestar fede alla cronaca del collegio, fu cacciato, perché, mentre aspettava il suo turno al confessionale, un venerdì santo, aveva scolpito un grosso ceppo in forma di Cristo. L’empietà impressa in quella statua era troppo forte per non attirare una punizione all’artista. Non aveva egli avuto l’audacia di collocare sull’alto del tabernacolo quella figura passabilmente cinica? Sarrasine venne a cercare a Parigi un rifugio contro le minacce della maledizione paterna. Aveva una di quelle forti volontà che non conoscono ostacoli, obbedì perciò agli ordini del suo genio ed entrò nello studio di Bouchardon.
Lavorava tutta la giornata, e, la sera, andava a mendicare di che vivere. Bouchardon, meravigliato dei progressi e dell’ingegno del giovane artista, indovinò presto la sua miseria; lo soccorse, gli si affezionò, e lo trattò come un figlio. Poi, quando il genio di Sarrasine si fu rivelato con una di quelle opere in cui il futuro talento lotta contro l’effervescenza della giovinezza, il generoso Bouchardon cercò di riconciliarlo col vecchio procuratore. Di fronte all’autorità dello scultore celebre lo sdegno paterno si raddolcì. Tutta Besançon si rallegrò d’aver dato i natali a un futuro grand’uomo. Nel primo momento d’estasi in cui lo immerse la vanità lusingata, l’avaro curiale mise il figlio in condizioni di far buona figura nel mondo. I lunghi e laboriosi studi reclamati dalla scultura domarono per molto tempo il carattere impetuoso e il genio selvaggio di Sarrasine. Bouchardon, prevedendo la violenza delle passioni che si sarebbero scatenate in quella giovane anima, che aveva forse la tempra vigorosa di Michelangelo, ne soffocò l’energia sotto continui lavori. Riuscì a mantenere in giusti limiti la foga straordinaria di Sarrasine, proibendogli di lavorare e offrendogli distrazioni quando lo vedeva trasportato dalla furia di qualche idea, o affidandogli importanti lavori nel momento in cui stava per abbandonarsi alla dissipazione. Ma, con quell’anima appassionata, la dolcezza fu sempre l’arma più potente, e il maestro prese un grande ascendente sul suo allievo eccitando in lui la riconoscenza con una bontà paterna. All’età di ventidue anni, Sarrasine fu per forza sottratto alla salutare influenza che Bouchardon esercitava sui suoi costumi e sulle sue abitudini. Scontò la pena del suo genio vincendo il premio di scultura fondato dal marchese di Marigny, fratello di madame de Pompadour, che tanto fece per le Arti. Diderot vantò come un capolavoro la statua dell’allievo di Bouchardon. Non fu senza dolore che lo scultore del re vide partire per l’Italia un giovane di cui, a ragion veduta, aveva favorito l’ignoranza profonda nelle cose della vita. Sarrasine da sei anni era il commensale di Bouchardon. Fanatico della sua arte come fu più tardi Canova, si alzava all’alba, entrava nello studio per non uscirne che a sera, e viveva solo con la sua musa. Se andava alla Comédie-Francaise, vi era trascinato dal maestro. Si sentiva così imbarazzato nel salotto di madame Geoffrin e nel gran mondo in cui Bouchardon cercò d’introdurlo, che preferì restare solo, e ripudiò i piaceri di quei tempi licenziosi. Non ebbe altre amanti che la Scultura e Clotilde, una delle celebrità dell’Opera. E del resto questo intrigo non durò molto. Sarrasine era piuttosto brutto, sempre mal vestito, e per natura così libero, così poco regolare nella sua vita privata, che l’illustre ninfa, temendo qualche catastrofe, restituì presto lo scultore all’amore delle Arti. Sofia Arnould ha detto non so quale spiritosaggine a questo proposito. Si stupì, credo, che la sua collega avesse potuto vincerla sulle statue.
Sarrasine partì per l’Italia nel 1758. Durante il viaggio, la sua calda immaginazione s’infiammò sotto un cielo di rame e all’aspetto dei monumenti meravigliosi di cui abbonda la patria delle Arti. Ammirò le statue, gli affreschi, i quadri; e pieno d’emulazione venne a Roma, in preda al desiderio d’iscrivere il suo nome tra quelli di Michelangelo e di Bouchardon. Così, nei primi giorni, divise il tempo tra i suoi lavori di scultura e l’esame delle opere d’arte di cui Roma è ricca. Aveva già passato quindici giorni nella specie d’estasi che s’impadronisce di tutte le giovani immaginazioni all’aspetto della regina delle rovine, quando, una sera, entrò nel teatro Argentina, innanzi al quale s’accalcava una gran folla. Chiese la causa di quell’affluenza, e gli fu risposto con due nomi: “Zambinella! Jomelli!”. Entra e siede in platea, tra due abati notevolmente grossi, ma il posto era buono, vicino alla scena. Si alzò il sipario. Per la prima volta nella sua vita sentì quella musica di cui il signor Gian Giacomo Rousseau gli aveva così eloquentemente vantato le delizie, in una serata in casa del barone d’Holbach. I sensi del giovane scultore furono, per così dire, lubrificati dagli accenti della sublime armonia di Jomelli. Le languide originalità di quelle voci italiane abilmente intrecciate lo immersero in un’estasi deliziosa. L’anima gli passò nelle orecchie e negli occhi; gli parve d’ascoltare con ognuno dei suoi pori. A un tratto, applausi da far crollare la sala accolsero l’entrata in scena della prima donna. Questa s’avanzò per civetteria sul davanti del teatro, e salutò il pubblico con grazia infinita. Le luci, l’entusiasmo di tutto un popolo, l’illusione della scena, il prestigio d’una toletta che, in quei tempi, era molto seducente, cospirarono in favore di quella donna. Sarrasine mandò gridi di piacere. Ammirava in quel momento la bellezza ideale di cui aveva fino allora cercato qua e là le perfezioni nella natura, chiedendo a un modello spesso ignobile, il tondeggiare d’una gamba perfetta; a un altro, i contorni del seno, a questo le sue bianche spalle; prendendo infine il collo d’una giovinetta e le mani di questa donna, e i ginocchi lisci di quel fanciullo, senza mai incontrare sotto il cielo freddo di Parigi le ricche e soavi creazioni della Grecia antica. La Zambinella gli mostrava riunite, piene di vita e delicate, le squisite proporzioni della natura femminile così ardentemente desiderate, e di cui uno scultore è, insieme, il giudice più severo e più appassionato. Una bocca espressiva, occhi pieni d’amore, una carnagione splendida. E aggiungete a questi particolari, che avrebbero rapito in estasi un pittore, tutte le meraviglie delle Veneri riverite e ritratte dallo scalpello dei Greci. L’artista non si stancava d’ammirare la grazia inimitabile con cui le braccia s’attaccavano al busto, la rotondità piena di prestigio del collo, le linee armoniosamente tracciate dalle sopracciglia, dal naso, poi l’ovale perfetto del volto, la purezza del suo vivo disegno, e l’effetto delle folte ciglia ricurve che terminavano larghe e voluttuose palpebre. Era più che una donna, era un capolavoro! C’era in quella creatura insperata tanto amore da mandare in estasi tutti gli uomini e bellezze degne di accontentare un critico. Sarrasine divorava con gli occhi la statua di Pigmalione, scesa per lui dal piedistallo. Quando la Zambinella cantò, fu un delirio. L’artista ebbe freddo; poi, sentì una fiamma che divampò all’improvviso nelle profondità del suo essere intimo, di quello che, per mancanza di parole, diciamo cuore! Non applaudì, non disse nulla, provava un impeto di pazzia, specie di frenesia da cui siamo agitati solo in quella età in cui il desiderio ha un non so che di terribile e d’infernale.
Sarrasine voleva slanciarsi sul palcoscenico e rapire quella donna. La sua forza centuplicata da una depressione morale impossibile a descrivere, giacché tali fenomeni si verificano in una sfera inaccessibile all’osservazione umana, tendeva a proiettarsi con una violenza dolorosa. A vederlo, si sarebbe detto un uomo freddo e stupido. Gloria, scienza, avvenire, esistenza, allori, tutto crollò. Essere amato da lei, o morire, tale fu la sentenza che Sarrasine pronunciò su se stesso. Era così completamente ubriaco che non vedeva più né la platea, né gli spettatori, né gli attori, non sentiva più la musica. Anche più, non c’erano distanze tra lui e la Zambinella, la possedeva, i suoi occhi, attaccati a lei, se ne impadronivano. Una potenza quasi diabolica gli permetteva di sentire il fiato di quella voce, di respirare la cipria profumata di cui i suoi capelli erano impregnati, di vedere i passaggi da un piano all’altro di quel volto, di contarne le vene azzurre che ne sfumavano l’epidermide di raso. In fine quella voce agile, fresca come un campanellino d’argento, docile come un filo a cui il minimo soffio d’aria dà una forma, che avvolge e distende, svolge e disperde, quella voce assaliva così vivamente il suo animo che egli si lasciò più volte sfuggire di quei gridi involontari strappati dalle convulse delizie troppo raramente concesse alle passioni umane. Presto fu obbligato a uscire di teatro. Le gambe gli tremavano e rifiutavano quasi di sostenerlo. Era abbattuto, debole come un uomo nervoso che s’è abbandonato a una collera spaventevole. Aveva provato tanto piacere, o forse aveva tanto sofferto, che la vita gli era sfuggita come l’acqua da un vaso rovesciato da un urto. Sentiva in sé un vuoto, un annientamento simile a quelle atonìe che sono la disperazione dei convalescenti all’uscire da una grave malattia.
Invaso da una tristezza inesplicabile, andò a sedersi sui gradini d’una chiesa. Lì, col dorso appoggiato a una colonna, si perse in una meditazione confusa come un sogno. La passione lo aveva fulminato. Tornato a casa, cadde in uno di quei parossismi di attività che ci rivelano la presenza di principi nuovi nella nostra esistenza. In preda a quella prima febbre dell’amore che partecipa ugualmente del piacere e del dolore, volle ingannare la sua impazienza e il suo delirio disegnando a memoria la Zambinella. Fu una specie di meditazione materializzata. Sopra un foglio, la Zambinella aveva l’atteggiamento calmo, e freddo in apparenza, preferito da Raffaello, da Giorgione e da tutti i grandi pittori. Su di un altro, volgeva la testa con finezza mentre finiva un gorgheggio, e sembrava ascoltarsi da sé.
Sarrasine disegnò la sua amata in tutte le pose: la fece senza velo, seduta, in piedi, giacente, o casta o innamorata, realizzando grazie al delirio della sua matita, tutte le idee capricciose che sollecitano la nostra immaginazione quando pensiamo fortemente a una donna amata. Ma il suo pensiero furioso andò più oltre del disegno. Vedeva la Zambinella, le parlava, la supplicava, divorava mille anni di vita e di felicità con lei, mettendola in tutte le situazioni immaginabili, abbozzando, per così dire, il suo avvenire con lei. Il giorno dopo, mandò il lacché a prendere in affitto, per tutta la stagione, un palco vicino alla scena. Poi, come tutti i giovani dall’animo potente, si esagerò le difficoltà della sua impresa, e diede, come prima pastura alla sua passione, la felicità di poter ammirare senza ostacoli la sua amata. Questa età dell’oro dell’amore, durante la quale godiamo del nostro proprio sentimento e in cui ci troviamo felici quasi di noi stessi, non doveva durar molto per Sarrasine.
Pure gli avvenimenti lo sorpresero quand’era ancora sotto il fascino di quella primaverile allucinazione, ingenua quanto voluttuosa. Per circa otto giorni, visse tutta una vita, occupato il mattino a impastare la creta con l’aiuto della quale riusciva a copiare la Zambinella, a dispetto dei veli, delle gonne, dei busti e i fiocchi di nastro che gliela dissimulavano. La sera, installato per tempo nel suo palco solo, sdraiato sopra un sofà, si fingeva, simile a un Turco ubriaco d’oppio, una felicità così feconda, così prodiga quale la desiderava. Per prima cosa si familiarizzò gradatamente con le emozioni troppo vive che gli procurava il canto della sua amata; poi addomesticò i suoi occhi a vederla, e finì col contemplarla senza dover temere l’esplosione della sorda rabbia da cui era stato animato la prima volta. La sua passione divenne più profonda facendosi più tranquilla. Del resto, il selvaggio scultore non permetteva che la sua solitudine, popolata d’immagini, ornata delle fantasie della speranza e piena di felicità, fosse turbata dai suoi colleghi. Amava con tanta forza e così ingenuamente che dovette subire gli scrupoli innocenti da cui siamo assaliti quando amiamo per la prima volta.
Cominciando a intravvedere che presto avrebbe dovuto agire, intrigare, domandare dove abitava la Zambinella, sapere se aveva una madre, uno zio, un tutore, una famiglia; pensando insomma al modo di vederla, di parlarle, sentiva il cuore gonfiarglisi così forte a idee tanto ambiziose, che rimandava queste cure al giorno dopo, felice delle sue sofferenze fisiche quanto dei suoi piaceri intellettuali.
– Ma – mi disse la signora Rochefide interrompendomi – non vedo ancora né Mariannina né il suo vecchietto.
– Ma io vi sto parlando di lui – esclamai impazientito come un autore che vede guastato l’effetto d’un suo colpo di scena. – Da qualche giorno – ripresi dopo una pausa – Sarrasine era venuto con tanta puntualità a sedersi nel suo palco, e i suoi sguardi esprimevano tanto amore, che la sua passione per la voce della Zambinella sarebbe diventata la favola di tutta Parigi, se questa avventura fosse avvenuta qui; ma in Italia, signora, a teatro, ognuno assiste per conto proprio allo spettacolo, con le sue passioni, con un interesse di cuore che esclude lo spionaggio dei binocoli. Pure la frenesia dello scultore non poteva sfuggire a lungo agli occhi dei cantanti e delle cantanti. Una sera, il Francese si accorse che ridevano di lui dietro le quinte. Sarebbe difficile sapere a quali estremi sarebbe arrivato, se in quel momento non fosse entrata in scena la Zambinella. Gettò a Sarrasine una di quelle occhiate eloquenti che dicono spesso molto più di quel che una donna vorrebbe. Quello sguardo fu per lui una rivelazione. Sarrasine era amato! “Se non è che un capriccio”, pensò accusando già la sua amante di troppo ardore, “non sa sotto quale dominio sta per cadere. Il suo capriccio durerà, spero, quanto la mia vita”. In quel momento, tre colpi leggeri alla porta del palco eccitarono l’attenzione dell’artista. Aprì. Una vecchia entrò misteriosamente. “Giovanotto”, disse, “se volete essere felice, siate prudente, avvolgetevi in una cappa, abbassate sugli occhi un gran cappello; poi, verso le dieci di sera, trovatevi in via del Corso, davanti all’Albergo di Spagna”. “Ci sarò”, rispose mettendo due luigi nella mano grinzosa della vecchia. Uscì dal palco, dopo aver fatto un segno d’intelligenza alla Zambinella, che abbassò timidamente le sue palpebre voluttuose come una donna felice d’essere stata finalmente compresa. Poi corse a casa, per chiedere alla toletta tutte le seduzioni che avrebbe potuto prestargli. Uscendo di teatro, uno sconosciuto lo fermò prendendolo per il braccio. “Badate a voi signor Francese”, gli disse all’orecchio. “Il cardinale Cicognara è il suo protettore, e non scherza”. Se anche un diavolo avesse messo tra Sarrasine e la Zambinella le profondità dell’inferno, in quel momento egli le avrebbe superate d’un balzo. Simile ai cavalli degli immortali dipinti da Omero, l’amore dello scultore aveva in un batter d’occhio valicato spazi immensi. “Se anche la morte dovesse attendermi all’uscire dalla casa di lei, vi andrei ancora più presto”,rispose.”Poverino!”,esclamò lo sconosciuto dileguandosi. Parlare di pericoli a un innamorato non è forse proporgli dei piaceri? Mai il lacché di Sarrasine aveva visto il padrone così minuzioso in fatto di toletta. La sua più bella spada, dono di Bouchardon, il suo abito ricamato di lustrini, il panciotto di damasco d’argento, la tabacchiera d’oro, gli orologi preziosi, tutto fu tratto fuori dal baule, ed egli si adornò come una ragazza che deve incontrare a passeggio il suo primo innamorato. All’ora detta, ebbro d’amore e ardente di speranza, Sarrasine, col naso nel mantello, corse al convegno fissato dalla vecchia. La governante lo aspettava. “Avete tardato molto!” gli disse. “Venite”. Trasse il Francese per parecchie stradine, e si fermò innanzi a un palazzo di abbastanza bell’apparenza. Picchiò.
La porta si aprì. La vecchia condusse Sarrasine attraverso un labirinto di scale, di gallerie e di stanze illuminate solo dalla incerta luce della luna, e giunse presto a una porta, dalle cui fessure sfuggivano vive luci, da cui partivano gioiosi scoppi di molte voci. Tutto a un tratto Sarrasine fu abbagliato, quando, a una parola della vecchia, fu ammesso nel misterioso appartamento, e si trovò in una sala così brillantemente illuminata come sontuosamente arredata. In mezzo alla sala sorgeva una tavola ben servita, carica di sacrosante bottiglie, di ridenti boccette le cui sfaccettature arrossate scintillavano. Riconobbe i cantanti e le cantanti del teatro, in compagnia di donne incantevoli, tutti pronti a cominciare un’orgia di artisti che non aspettava più che lui. Sarrasine represse un movimento di dispetto, e fece buon viso a cattivo gioco. Aveva sperato di trovare una camera poco illuminata, la sua donna accanto a un braciere, un geloso a due passi, la morte e l’amore, confidenze scambiate a voce bassa, da cuore a cuore, baci pericolosi, e i volti così vicini, che i capelli della Zambinella avrebbero accarezzato la sua fronte carica di desideri, ardente di felicità. “Viva la pazzia!”, gridò.
“SIGNORI E BELLE DONNE, mi permetterete di prendere più tardi la mia rivincita e di mostrarvi la riconoscenza per il modo come accogliete un povero scultore”. Dopo aver ricevuto complimenti abbastanza affettuosi dalla maggior parte delle persone presenti, che conosceva di vista, cercò di avvicinarsi alla poltrona su cui la Zambinella stava negligentemente sdraiata. Oh! come gli batté il cuore quando vide un piedino calzato di quelle pianelle che, permettetemi di dirlo, signora, davano un tempo al piede delle donne un’espressione così civettuola, così voluttuosa, che non so come gli uomini potessero resistervi. Le calze bianche ben tirate e ad angoli verdi, le gonne corte, le pianelle a punta a tacchi alti del regno di Luigi Quindicesimo hanno forse contribuito un poco a demoralizzare l’Europa e il clero.
– Un poco! – disse la marchesa. – Non avete dunque letto niente?
– La Zambinella – ripresi sorridendo – aveva sfrontatamente incrociato le gambe, e agitava scherzando quella di sopra, atteggiamento di duchessa, che stava bene al suo genere di bellezza capricciosa e piena di una certa mollezza invitante. Si era tolti gli abiti di teatro e portava un corpetto che disegnava un personale svelto messo in valore da “panieri” e una veste di raso ricamata di fiori azzurri. Il petto, di cui un merletto dissimulava con un lusso di civetteria i tesori, risplendeva di bianchezza. Pettinata presso a poco come si pettinava madame du Barry, il suo volto, benché sormontato da una larga cuffia, non ne risultava che più grazioso, e la cipria le stava bene. Vederla così, significava adorarla. Essa sorrise graziosamente allo scultore. Sarrasine, benché scontento di non poterle parlare che in presenza d’altri, sedette educatamente accanto a lei, e le parlò di musica lodandola del suo prodigioso talento; ma la voce gli tremava d’amore, di timore e di speranza. “Che paura avete?” gli disse Vitagliani, il cantante più celebre della compagnia.
“Andate franco, qui non avete nessun rivale da temere”. Il Tenore sorrise silenziosamente. Quel sorriso si ripeté sulle labbra di tutti i commensali, la cui attenzione aveva una specie di malizia nascosta di cui non poteva accorgersi un innamorato. Quella pubblicità fu per Sarrasine come un colpo di pugnale. Benché dotato d’una certa forza di carattere, e benché nessuna circostanza potesse influire sul suo amore, non aveva ancora pensato che Zambinella era quasi una cortigiana, e che lui non poteva avere insieme i puri godimenti che rendono l’amore di una giovinetta una cosa tanto deliziosa e i trasporti focosi coi quali una donna di teatro fa pagare i tesori della sua passione.
Rifletté e si rassegnò. La cena venne servita. Sarrasine e la Zambinella si misero senza cerimonie l’uno accanto all’altra.
Nella prima metà della cena, gli artisti osservarono una certa misura, e lo scultore poté discorrere con la cantante. Trovò in lei un certo spirito e una certa finezza; ma era di un’ignoranza sorprendente, e si mostrò debole e superstiziosa. La delicatezza dei suoi organi si riproduceva nella sua intelligenza. Quando Vitagliani stappò la prima bottiglia di Champagne, Sarrasine lesse negli occhi della sua vicina un timore abbastanza vivo della piccola detonazione prodotta dalla sfuggita del gas. Il trasalimento involontario di quell’organismo femminile fu dall’innamorato interpretato come indiziodieccessiva sensibilità. Quella debolezza affascinò il Francese. C’entra tanta protezione nell’amore di un uomo! “Disporrete del mio vigore come d’uno scudo!”. Questa frase non è forse scritta in fondo a tutte le dichiarazioni d’amore? Sarrasine, troppo appassionato per snocciolare galanterie alla bella italiana, era, come tutti gli innamorati, a volta a volta, ridente o concentrato in sé. Benché paresse ascoltare i commensali, non sentiva una parola di quel che dicevano, tanto s’abbandonava al piacere di trovarsi vicino a lei, di sfiorarle la mano, di servirla. Nuotava in una gioia segreta.
Nonostante l’eloquenza di qualche occhiata scambievole, fu stupito della riservatezza della Zambinella verso di lui. Aveva certo cominciato lei a premergli il piede e a stuzzicarlo con la malizia di una donna libera e innamorata; ma subito s’era ravvolta in una modestia di giovinetta, dopo aver sentito raccontare da Sarrasine un tratto che dipingeva la grande violenza del suo carattere.
Quando la cena si mutò in orgia, i commensali si misero a cantare ispirati dal “Peralta” e dal “Pedro Ximenes”. Furono duetti deliziosi, ariette calabresi, seguidiglie spagnole, canzonette napoletane. L’ebbrezza era in tutti gli occhi, nella musica, nei cuori e nelle voci. Sgorgò a un tratto una vivacità incantevole, un abbandono cordiale, una bonomia italiana di cui non si può dar l’idea a quelli che conoscono soltanto le riunioni di Parigi, i ricevimenti di Londra o i circoli di Vienna. Gli scherzi e le parole d’amore s’incrociavano, come palle in una battaglia, attraverso le risate, le empietà, le invocazioni alla Santa Vergine o al “Bambino”. Uno si coricò sopra un divano e si mise a dormire. Una ragazza ascoltava una dichiarazione d’amore senza accorgersi che versava vino di Xeres sulla tavola. In mezzo a quel disordine, la Zambinella come presa da terrore, restò pensierosa.
Rifiutò di bere, mangiò forse un po’ troppo: ma la golosità, si dice, è una grazia nella donna. Meravigliandosi del pudore della sua innamorata, Sarrasine fece serie riflessioni sull’avvenire.
“Vuole senza dubbio farsi sposare” si disse. Si abbandonò allora alle delizie di quel matrimonio. La sua vita intera non gli pareva abbastanza lunga per esaurire la sorgente di felicità che si sentiva in fondo all’anima. Vitagliani, che era suo vicino di tavola, gli versò così spesso da bere che, verso le tre del mattino, senza essere completamente ubriaco, Sarrasine si trovò senza forza contro il suo delirio. In un momento di foga, portò via la donna correndo a chiudersi in una specie di salottino che comunicava colla sala da pranzo, e alla cui porta aveva più volte rivolto lo sguardo. L’Italiana era armata d’un pugnale. “Se ti avvicini” disse, “sarò costretta a immergerti quest’arma nel cuore. Va’ ! mi disprezzeresti. Ho concepito troppo rispetto per il tuo carattere per abbandonarmi così. Non voglio decadere dal sentimento che tu m’accordi”. “Ah! ah!” disse Sarrasine, “è un cattivo mezzo per estinguere una passione quello di eccitarla. Sei dunque già così corrotta, che, vecchia di cuore, agiresti come una giovane cortigiana, che stuzzica le emozioni di cui fa commercio?”. “Ma oggi è venerdì”, rispose lei spaventata della violenza del Francese. Sarrasine, che non era bigotto, si mise a ridere. La Zambinella con un balzo da capriolo si slanciò nella sala del banchetto. Quando Sarrasine vi apparve correndole dietro, fu accolto da una risata infernale. Vide la Zambinella svenuta sopra un divano. Era pallida e come esaurita dallo sforzo straordinario che aveva fatto. Benché Sarrasine sapesse poco d’italiano, sentì la sua amante dire a voce bassa a Vitagliani:
“Ma egli mi ucciderà!”. Quella scena strana rese tutto confuso lo scultore. La ragione gli tornò. Restò sulle prime immobile poi ritrovò la parola, sedette accanto alla sua amante e le protestò il suo rispetto. Trovò la forza di ingannare la sua passione, dicendo a quella donna le cose più esaltate; e, per dipingerle il suo amore, spiegò i tesori di quella eloquenza magica, interprete officioso che raramente le donne si rifiutano di credere. Nel momento in cui le prime luci del mattino sorpresero i convitati, una donna propose di andare a Frascati. Tutti accolsero con vive acclamazioni l’idea di passare una giornata alla villa Ludovisi.
Vitagliani scese per trovare delle vetture da nolo. Sarrasine ebbe la fortuna di condurre la Zambinella in “phaeton”. Appena usciti di Roma, l’allegria, repressa un momento dalla lotta che ciascuno aveva sostenuto col sonno, si risvegliò subito. Uomini e donne, tutti parevano abituati a quella strana vita, a quei piaceri continui, a quella foga d’artisti che fa della vita una festa perpetua in cui si ride senza pensare ad altro. La compagna dello scultore era la sola che apparisse abbattuta. “Vi sentite male?” le disse Sarrasine. “Preferireste tornarvene a casa?”. “Non sono abbastanza forte per sopportare questi eccessi”, rispose. “Ho bisogno di grandi riguardi; ma, accanto a voi, mi sento così bene!
Se non ci foste stato voi, non sarei rimasta a cena; una notte senza sonno mi fa perdere tutta la mia freschezza”. “Siete così delicata!” riprese Sarrasine contemplando i lineamenti graziosi di quella incantevole creatura. “Le orgie mi rovinano la voce”. “Ora che siamo soli”, esclamò l’artista, e che non avete da temere l’effervescenza della mia passione, ditemi che mi amate”.
“Perché?” replicò la Zambinella, “a che serve? Vi sono parsa graziosa. Ma voi siete un Francese, e il vostro sentimento passerà. Oh! non mi amereste come vorrei essere amata”. “Come?”.
“Senza scopi di passione volgare, puramente. Abborro gli uomini, anche più di quel che odio le donne. Ho bisogno di rifugiarmi nell’amicizia. Il mondo è deserto per me. Sono una creatura maledetta, condannata a comprendere la felicità, a sentirla, a desiderarla, e, come tante altre, costretta a vederla sfuggirmi continuamente. Ricordatevi, signore, che non vi avrò ingannato. Vi proibisco di amarmi. Posso essere un amico devoto per voi, perché ammiro la vostra forza e il vostro carattere. Ho bisogno d’un fratello, d’un protettore. Siate tutto questo per me, ma niente altro”. “Non amarvi!”, esclamò Sarrasine; “ma, angelo caro, tu sei la mia vita, la mia felicità!”. “Se dicessi una parola, mi respingereste inorridito”. “Civettuola! niente può farmi paura.
Dimmi che mi costerai l’avvenire, che tra due mesi morirò, che sarò dannato per averti solo baciata”. E la baciò nonostante gli sforzi della Zambinella per sottrarsi a quel bacio appassionato.
“Dimmi che sei un demonio, che vuoi quanto posseggo, il mio nome, la mia celebrità! Vuoi che non sia più scultore? Parla”. “E se non fossi una donna?” domandò timidamente la Zambinella con una voce argentina e dolce. “Che bella trovata!”, esclamò Sarrasine. “Credi di poter ingannare l’occhio d’un artista? Non sono dieci giorni che divoro, scruto, ammiro le tue perfezioni? Solo una donna può avere questo braccio rotondo e morbido, questi contorni eleganti.
Ah! vuoi dei complimenti!”. Essa sorrise tristemente, e disse mormorando: “Fatale bellezza!”. Levò gli occhi al cielo. In quel momento il suo sguardo ebbe non so che espressione d’orrore così potente, così viva, che Sarrasine ne trasalì. “Signor Francese”, riprese lei, “dimenticate per sempre un momento di pazzia. Vi stimo; ma, quanto ad amore, non me lo chiedete; questo sentimento è stato soffocato nel mio cuore. Non ho cuore!” esclamò piangendo.
“Il teatro su cui mi avete veduta, gli applausi, la musica, la gloria a cui m’hanno condannata, ecco la mia vita, non ne ho altra. Fra qualche ora non mi vedrete cogli stessi occhi, la donna che voi amate sarà morta”. Lo scultore non rispose. Era in balia di una sorda rabbia che gli opprimeva il cuore. Non poteva che guardare quella donna straordinaria con degli occhi infiammati che gli bruciavano. Quella voce piena di debolezza, l’atteggiamento, i modi e i gesti di Zambinella, improntati di tristezza, di malinconia, di scoraggiamento gli risvegliavano in cuore tutte le ricchezze della passione. Ogni parola era un pungolo. In quel momento erano arrivati a Frascati. Quando l’artista porse il braccio alla sua amante per aiutarla a scendere, la sentì tutta tremante. “Che avete? Mi fareste morire”, esclamò vedendola impallidire, “se aveste il minimo dolore di cui io fossi causa anche innocente”. “Una serpe!” disse lei mostrando una biscia che strisciava lungo un fosso. “Ho paura di queste odiose bestie”.
Sarrasine schiacciò col tallone la testa della biscia. “Come siete coraggioso!” riprese la Zambinella contemplando con visibile spavento il rettile morto. “Ebbene”, disse l’artista sorridendo, “oserete ancora dire che non siete donna?”. Raggiunsero i loro compagni e passeggiarono nei boschi della villa Ludovisi, che apparteneva allora al cardinale Cicognara. La mattina passò troppo presto per l’innamorato scultore, ma fu piena di una folla d’incidenti che gli rivelarono la civetteria, la debolezza, la leziosaggine di quell’anima molle e senza energia. Era la donna con le sue subite paure, coi suoi capricci irragionevoli, i suoi turbamenti istintivi, le sue audacie senza motivo, le sue vanterie e la sua deliziosa finezza di sentimento. Ci fu un momento in cui, avventurandosi nella campagna, la piccola comitiva dei gioiosi cantanti vide da lontano degli uomini armati fino ai denti, e il cui costume non aveva niente di rassicurante. Alla parola: “I briganti!” ciascuno raddoppiò il passo per mettersi al sicuro nel recinto della villa del cardinale. In quel momento critico, Sarrasine s’avvide dal pallore della Zambinella che essa non aveva più la forza di camminare, la prese tra le braccia e la portò, per qualche tempo di corsa. Quando fu arrivato a una vigna vicina, la mise a terra. “Spiegatemi”, le disse, “perché la vostra estrema debolezza che, in ogni altra donna, sarebbe orribile, mi dispiacerebbe, e la cui minima prova basterebbe quasi a spegnere in me l’amore, in voi mi piace, mi affascina? Oh! quanto vi amo!” riprese. “Tutti i vostri difetti, i vostri terrori, le vostre piccolezze aggiungono non so qual grazia alla vostra anima. Sento che detesterei una donna forte, una Saffo coraggiosa, piena di energia, di passione. O fragile e dolce creatura! come puoi essere diversa? Questa voce d’angelo, questa voce delicata, sarebbe un controsenso se uscisse da un altro corpo”. “Non posso” disse lei, “darvi nessuna speranza. Cessate di parlarmi così, perché si befferebbero di voi. Non m’è possibile vietarvi l’entrata del teatro ma, se mi volete bene, o se avete giudizio, non ci verrete più. Ascoltatemi, signore”. “Oh! taci”, disse l’artista inebriato.
“Gli ostacoli attizzano l’amore nel mio cuore”. La Zambinella restò in un atteggiamento grazioso e modesto; ma tacque, come se un pensiero terribile le avesse rivelato qualche disgrazia. Quando fu necessario tornare a Roma, essa salì in una berlina a quattro posti, ordinando allo scultore, con un’aria imperiosamente crudele, di ritornarvi solo nel “phaeton”. Durante il viaggio, Sarrasine risolse di rapire la Zambinella. Passò tutta la giornata a far piani l’uno più stravagante dell’altro. Al cader della notte, nel momento in cui usciva di casa per andare a domandare a qualcuno dove era situato il palazzo abitato dalla sua amante, incontrò sulla soglia della porta uno dei suoi colleghi. “Mio caro”, gli disse questi, “sono stato incaricato dal nostro ambasciatore d’invitarti a venire questa sera da lui. Dà un concerto magnifico e quando saprai che ci sarà Zambinella…”.
“Zambinella!” esclamò Sarrasine delirante a quel nome, “io ne vado pazzo!”. “Tu come tutti”, gli rispose il suo collega. “Ma se voi siete amici miei, tu, Vien, Lauterbourg e Allegrain mi darete aiuto per un colpo di mano dopo la festa”, chiese Sarrasine. “Non ci sono cardinali da uccidere, non ci sono…?”. “No, no”, disse Sarrasine, “non vi chiedo niente che una persona onesta non possa fare”. In poco tempo lo scultore dispose tutto perché la sua impresa riuscisse. Fu uno degli ultimi ad arrivare all’ambasciata, ma vi venne in una vettura da viaggio tirata da cavalli vigorosi guidati da uno dei più intraprendenti vetturini di Roma. Il palazzo dell’ambasciatore era pieno di gente, e non riuscì facile allo scultore, sconosciuto a tutti gli invitati, arrivare alla sala dove in quel momento cantava Zambinella. “Per riguardo probabilmente ai cardinali, vescovi e abati che son qui”, chiese Sarrasine, “essa si è vestita da uomo, e ha una borsa dietro la testa, i capelli arricciati e una spada a fianco!”. “Essa! Chi essa?” rispose un vecchio signore a cui Sarrasine s’era rivolto.
“La Zambinella”. “La Zambinella?” rispose il principe romano.
“Scherzate? Da dove venite? Mai una donna è salita sul palcoscenico a Roma! E non sapete da quali creature sono tenute le parti di donna negli stati del Papa? Sono stato io, signore, che ho dotato Zambinella della sua voce. Ho pagato io tutto per quel mariuolo, anche il suo maestro di canto. Ebbene! ha così poca riconoscenza per il servigio che gli ho reso, che non ha voluto mai rimettere piede in casa mia. Eppure, se fa fortuna, lo dovrà interamente a me”. Il principe Chigi avrebbe potuto parlare, certo, molto tempo, Sarrasine non lo ascoltava. Una orribile verità era penetrata nel suo animo. Era stato colpito come da un fulmine. Restò immobile, con gli occhi fissi sul preteso cantante.
Il suo sguardo fiammeggiante ebbe una specie d’influsso magnetico su Zambinella, perché il “musico” finì col volgere gli occhi verso Sarrasine, e allora la sua voce celeste s’alterò. Tremò! Un mormorio involontario dell’assemblea, che egli teneva come sospesa alle sue labbra, finì di turbarlo; sedette, e interruppe l’aria che cantava. Il cardinale Cicognara, che con la coda dell’occhio aveva spiato la direzione presa dallo sguardo del suo protetto, scorse allora il Francese; si chinò verso uno dei suoi aiutanti di campo ecclesiastici, e parve domandare il nome dello scultore.
Quando ebbe ottenuto la risposta che desiderava, contemplò con molta attenzione l’artista, e diede qualche ordine a un abate, che sparì subito. Frattanto Zambinella, che s’era riavuto, ricominciò il pezzo che aveva interrotto così capricciosamente; ma lo eseguì male, e rifiutò, nonostante tutte le istanze che gli vennero fatte, di cantare altri pezzi. Fu la prima volta che esercitò quella tirannia capricciosa che, più tardi, lo rese non meno celebre del suo talento e della sua fortuna, dovuta, si disse, non meno alla sua voce che alla sua bellezza. “E’ una donna”, si disse Sarrasine credendosi solo. “C’è sotto qualche intrigo segreto. Il cardinale Cicognara inganna il Papa e tutta Roma!”. Immediatamente lo scultore uscì dalla sala, riunì i suoi amici, e li nascose nel cortile del palazzo. Quando Zambinella si fu assicurato della partenza di Sarrasine, parve recuperare qualche tranquillità.
Verso mezzanotte, dopo aver errato nelle sale come un uomo che cerca un nemico, il “musico” lasciò l’adunanza. Nel momento in cui varcava la porta del palazzo, fu abilmente preso da uomini che lo imbavagliarono con un fazzoletto e lo misero nella vettura presa a nolo da Sarrasine. Agghiacciato d’orrore, Zambinella restò in un angolo senza osare fare il più piccolo movimento. Si vedeva innanzi la figura terribile dell’artista che serbava un silenzio di morte. Il tragitto fu breve. Zambinella, rapito da Sarrasine, si trovò presto in uno studio oscuro e nudo. Il cantante, mezzo morto, restò sopra una sedia, senza osar guardare una statua femminile, nella quale aveva riconosciuto i suoi lineamenti. Non proferì una parola, ma batteva i denti. Era ghiacciato di paura.
Sarrasine andava in su e in giù a grandi passi. A un tratto si fermò innanzi a Zambinella. “Dimmi la verità”, domandò con voce sorda e alterata. “Sei una donna? Il cardinale Cicognara…”.
Zambinella cadde in ginocchio, e non rispose altrimenti che abbassando la testa. “Ah! sei una donna”, gridò l’artista in delirio; “perché anche un…”. Non continuò. “No”, riprese, “non avrebbe tanta bassezza”. “Ah! non m’uccidete”, gridò Zambinella scoppiando in lacrime. “Non ho acconsentito ad ingannarvi che per far piacere ai miei compagni, che volevano ridere”. “Ridere!” rispose lo scultore con una voce che ebbe uno scoppio infernale.
“Ridere, ridere! Tu hai osato prenderti gioco d’una passione d’uomo, tu?”. “Oh! grazia!” replicò Zambinella. “Dovrei farti morire!” gridò Sarrasine sfoderando la spada con mossa violenta “Ma”, riprese con un freddo disdegno, “frugando il tuo essere con un pugnale, vi troverei forse un sentimento da spegnere, una vendetta da soddisfare? Tu non sei niente. Uomo o donna, t’ucciderei! ma…”. Sarrasine fece un gesto di disgusto, che lo obbligò a volgere la testa, e allora guardò la statua. “Ed è un’illusione!” esclamò. Poi rivolgendosi verso Zambinella: “Un cuore di donna era per me un asilo, una patria. Hai delle sorelle che ti somigliano? No. Ebbene! muori! Ma no, vivrai. Lasciarti la vita non è forse votarti a qualche cosa di peggio della morte? Non rimpiango né il mio sangue né la mia vita, ma l’avvenire e la mia fortuna di cuore. La tua mano debole ha abbattuto la mia felicità.
Quale speranza posso rapirti in compenso di tutte quelle che tu hai fatto appassire? Tu m’hai abbassato fino a te. Amare, essere amato! sono oramai parole vuote di senso per me, come per te.
Continuamente penserò a questa donna immaginaria ogni volta che vedrò una donna reale”. Indicò la statua con un gesto disperato.
“Avrò sempre nel ricordo un’arpia celeste che verrà ad affondare i suoi artigli nei miei sentimenti d’uomo, e che segnerà tutte le altre donne d’un suggello d’imperfezione! Mostro! tu che non puoi dar vita a niente, tu m’hai spopolata la terra di tutte le donne”.
Sarrasine sedette di fronte al cantante spaventato. Due grosse lacrime uscirono dai suoi occhi aridi, corsero lungo le sue gote maschie e caddero a terra: due lacrime di rabbia, due lacrime acri e scottanti. “Niente più amore! sono morto a ogni piacere, a tutte le emozioni umane”. A queste parole, prese un martello e lo lanciò contro la statua con una forza così stravagante che non la colpì.
Credette d’aver distrutto quel monumento della sua pazzia, e allora riprese la spada e la brandì per uccidere il cantante.
Zambinella gettò acute grida. In quel momento entrarono tre uomini, e subito lo scultore cadde trafitto da tre colpi di stile.
“Da parte del cardinale Cicognara”, disse uno di essi. “E’ un beneficio degno d’un cristiano”, rispose il Francese spirando. I cupi emissari dissero a Zambinella l’inquietudine del suo protettore che aspettava alla porta, in una vettura chiusa, per poterlo portar via appena liberato.
– Ma – mi disse la signora de Rochefide – che relazione c’è tra questa storia e il vecchietto che abbiamo visto dai Lanty?
– Signora, il cardinale Cicognara s’impadronì della statua di Zambinella e la fece eseguire in marmo, si trova oggi nel museo Albani. Lì la famiglia Lanty la ritrovò nel 1791, e pregò Vien di copiarla. Il ritratto che vi ha mostrato Zambinella a vent’anni, un momento dopo che l’avevate visto centenario, è servito più tardi per l’Endimione di Girodet, avete potuto riconoscerne il tipo nell’Adone.
– Ma quel o quella Zambinella?
– Non può essere che il prozio di Mariannina. Dovete capire ora l’interesse che può avere la signora de Lanty a nascondere la fonte d’una fortuna che proviene…
– Basta! – disse lei facendomi un cenno imperioso.
Restammo un momento immersi nel più profondo silenzio.
– Ebbene? – le dissi.
– Ah! – esclamò alzandosi e passeggiando tutt’agitata nella stanza. Venne a guardarmi, e mi disse con voce alterata: – Mi avete disgustata per molto tempo della vita e delle passioni.
Salvo la mostruosità, tutti i sentimenti umani non si risolvono così in atroci delusioni? Madri, i figli ci assassinano o con la loro cattiva condotta o con la loro freddezza. Spose, siamo tradite. Amanti, siamo lasciate, abbandonate. L’amicizia! esiste poi? Domani mi darei alla vita devota, se non sapessi che posso restare inaccessibile come una roccia in mezzo alle tempeste della vita. Se l’avvenire del cristiano è ancora un’illusione, almeno essa si distrugge solo dopo la morte. Lasciatemi sola.
– Ah! – le dissi – voi sapete punire.
– Ho forse torto?
– Sì – le risposi con una specie di coraggio. – Terminando questa storia, che in Italia è abbastanza nota, posso darvi un’altra idea dei progressi fatti dalla civiltà attuale. Non vi si fanno più di quelle infelici creature.
– Parigi – disse lei – è un paese molto ospitale; accoglie tutto, e le fortune vergognose e le fortune insanguinate. Il delitto e l’infamia vi godono diritto d’asilo, v’incontrano simpatie; solo la virtù vi è senza altari. Sì, le anime pure hanno una patria nel cielo! Nessuno mi avrà conosciuta! Ne sono fiera.
E la marchesa restò pensosa.
Parigi, novembre 1830