Università e dissenso politico nella riflessione di Alessandro Barbero e Alessandra Algostino

Università e dissenso politico nella riflessione di Alessandro Barbero e Alessandra Algostino

Alessandro Barbero discute con la professoressa Alessandra Algostino di conflitto sociale e dissenso, soffermandosi sulla questione dei boicottaggi nelle università.

Dialogo tra Alessandro Barbero e la professoressa Alessandra Algostino sul tema del conflitto sociale, del dissenso e del boicottaggio nelle università. Barbero ripercorre la storia del dissenso, sottolineando come, per secoli, non fosse concepibile nella società, né in contesti politici come l’Impero Romano né nelle monarchie medievali. Analizza il ruolo della Chiesa nella repressione delle eresie e del dissenso religioso, e come il dissenso abbia avuto forme diverse in base alle epoche e alle strutture di potere. Viene anche affrontato il tema della libertà accademica e della possibilità per le università di schierarsi su questioni politiche, come nel caso del boicottaggio delle università israeliane in risposta alle politiche del governo. Barbero esprime preoccupazione sul fatto che le istituzioni accademiche possano imporre posizioni politiche, anche su temi condivisibili, mentre Algostino sottolinea l’importanza del contesto politico attuale e la necessità di usare strumenti di lotta politica come il boicottaggio in casi di gravi violazioni dei diritti umani.

Torino, 2024

* * *

Alessandro Barbero: Allora, la repressione del dissenso. Io mi chiedevo, quando ho capito che dovevamo parlare di questo, da quando in realtà esiste il dissenso? Perché un conto è il conflitto. Il conflitto c’è sempre, dappertutto. Benissimo. Il dissenso è un’altra cosa. E in realtà, se tu citavi Bobbio che dice: “Il dissenso è essenziale nella democrazia”, e forse la democrazia è essenziale perché ci sia il dissenso. In realtà, quel che intendo dire è che il dissenso significa che la gente è informata della politica che sta facendo il governo e ne discute pubblicamente. Non è d’accordo e manifesta contro questa politica, d’accordo?

Allora, nel corso della storia, per moltissimo tempo questa cosa non è esistita per nulla, perché l’idea che la gente dovesse essere informata delle decisioni politiche del governo e potesse criticarle non era in nessun modo parte dell’orizzonte collettivo. Sia che parliamo di Impero Romano, sia che parliamo delle monarchie medievali e ancor più moderne, perché, come vi dicevo, nel Medioevo è una società dove il potere è debole rispetto alla complessità delle forze sociali. Ma in realtà, appunto, nell’Impero Romano, negli Imperi che poi a quello romano si sono ispirati, da quello russo a quello ottomano, e negli Stati assoluti dell’Europa moderna, la politica… Forse sto ripetendo una cosa che ho detto prima, ma non proprio nello stesso modo. C’è una sfumatura, credo, diversa. La politica non era cosa di cui la gente si dovesse interessare. La politica è cosa che decidono il sovrano e i suoi ministri e i suoi consiglieri, in quello che infatti negli Stati dalla fine del Medioevo in poi si comincia a chiamare il “Consiglio Segreto”. È cosa di cui sono informati i segretari del sovrano, che per l’appunto sono gente scelta che sa tenere i segreti.

La politica non si discute. Discuterla, al limite, è già un reato. Nell’Impero Romano nessuno discute, poi nessuno… stiamo parlando della popolazione nel suo insieme. È chiaro che attorno al sovrano, attorno ai ministri, esiste una classe dirigente di persone coinvolte, di persone interessate, di persone che possono aspirare a far parte del cerchio magico. Non parlo di loro. Parlo della popolazione nel suo complesso. Il restante 99% della popolazione non deve interessarsi di ciò che fanno il sovrano e il governo. Non deve neanche saperne nulla e non deve pretendere di saperlo. È già un atto… è già una forma di tradimento pretendere di sapere.

Ebbene, nell’Impero Romano era alto tradimento anche fare l’oroscopo dell’imperatore per sapere quando morirà. Questo, se ti beccavano a fare quello, finivi sul rogo direttamente. In generale, la politica, ripeto, è cosa segreta che si fa nei gabinetti. Allora, in quel contesto non esiste neanche il dissenso, non è concepibile. Può scoppiare una rivolta perché non ci piacciono le nuove tasse e allora, nella nostra città, ci stiamo ribellando e abbiamo fatto la pelle all’esattore e vediamo cosa succederà. Ma questo non è dissenso, però, è un’altra cosa. È conflitto, certo, ma non dissenso. Dissenso vuol dire discutere pubblicamente e dichiarare il proprio disaccordo con ciò che sta facendo il governo.

Io adesso non credo, non posso fare una rassegna completa, magari mi sbaglio, ma nella mia memoria personale, la parola proprio “dissenso” e la parola “dissidenti” è entrata nel nostro lessico politico, in realtà, pensando a un mondo che pensavamo diverso, pensando all’Unione Sovietica e alle democrazie popolari. Nel Novecento, da noi, quando si diceva “dissenso”, si intendeva chi in Unione Sovietica contestava le autorità, si opponeva alla loro politica, rischiando la galera, rischiando lavori forzati e così via.

L’Occidente non riferiva quella parola a sé stesso, secondo me, ma forse proprio perché allora le nostre democrazie, che erano ancora democrazie, davano per scontato che il disaccordo, la discussione, il conflitto facessero parte della vita democratica. Poi certo, può sembrare strano, ho detto prima che il dissenso è essenziale alla democrazia, e invece viene fuori l’Unione Sovietica. Però attenzione, perché l’Unione Sovietica… ovviamente non assomiglia granché all’idea di democrazia che noi ci facciamo, però era qualcosa di molto diverso da quelle dittature fasciste in cui la democrazia era pubblicamente ripudiata e sfottuta come un sistema marcio e corrotto. Questo ci deve essere chiaro.

È una cosa spaesante per noi, ma se uno legge i discorsi di Mussolini e i giornali, La Stampa o il Corriere della Sera degli anni ’30, si vede che sotto il fascismo democrazia era una brutta parola. Democratico era un insulto. Le potenze democratiche, oltre che pluto-giudo, eccetera, democratiche erano i paesi marci, corrotti. “Noi non siamo democratici.” Questo era il grido di guerra del fascismo.

L’Unione Sovietica era un discorso tutto diverso. Non per niente quei paesi ci tenevano a chiamarsi “democrazie popolari”. Poi si vide sempre di più che il concetto di democrazia popolare, in cui quindi ci può essere un solo partito, perché chi può essere contro il popolo? Quelli non li vogliamo, no. Si è visto che il concetto di democrazia che loro hanno realizzato era molto lontano dalle aspirazioni di tanti. Però quelli non erano paesi dove si parlasse male della democrazia. Al contrario, volevano o fingevano di essere paesi democratici, dove quindi spuntano fuori i dissidenti, i quali proprio a questo si attaccano.

I dissidenti venivano poi perseguiti dalla magistratura dell’Unione Sovietica, in genere da giudici donne, perché era un paese dove, quando da noi nella magistratura di donne non se ne vedevano neanche con il lanternino, la maggioranza dei magistrati o degli ingegneri erano donne. Mi viene da dirlo perché di quel paese ci sono tante cose che verrebbe prima di ricordare. Dopodiché, in Unione Sovietica, i dissidenti venivano arrestati e processati, e si difendevano dicendo: “Ma in democrazia c’è il diritto alla dissidenza”.

Da noi invece appunto il discorso era che la dissidenza è un legittimo gioco delle vere democrazie, dove ci siano opinioni diverse. Dissidenza e repressione della dissidenza come un problema recente, tutto sommato, in politica. Però non esiste solo la politica. Ci sono anche altre dimensioni della vita collettiva, altre dimensioni che sono altrettanto pubbliche e che in altre epoche hanno potuto coinvolgere le masse tanto quanto in tempi più recenti le ha potute coinvolgere la politica. Penso alla religione, per esempio.

Allora, se uno pensa alla storia dei rapporti fra potere politico e religione, ecco che di colpo invece lo possiamo retrodatare di molto. L’idea del dissenso, di movimenti di dissenso e di un potere che deve decidere cosa fare nei confronti dei dissidenti. Pensate ai cristiani nell’Impero Romano. I cristiani, in un Impero Romano dove la religione è libera, nel senso che siccome sono praticamente tutti politeisti, tranne quell’unico piccolo popolo che farà parlare tanto di sé, gli ebrei, che i romani infatti trovavano gente stranissima…

…questi credono in un solo Dio, non vogliono gli altri, però per fortuna gli ebrei se ne stavano fra loro, non facevano proseliti, non cercavano di convertire nessuno. Quindi l’Impero Romano se ne era fatto una ragione. Tutti gli altri erano convinti, come avrebbero detto loro: “Ragazzi, ma guardate che è ovvio che è pieno di divinità. Anche in quell’albero c’è probabilmente una divinità dentro. È pieno di divinità, quindi ognuno si sceglie le sue e prega quello che vuole.”

Non pregavano mica tanto, chiedevano le grazie, facevano i sacrifici agli dèi per far vedere agli dèi che la gente li rispettava e che quindi non dovevano prendersela con noi. Ecco, poi arrivano i cristiani, che all’inizio i romani li confondono con gli ebrei, anche perché i primi cristiani sono ebrei, naturalmente. Però poi fanno rapidamente proseliti e i cristiani pongono un problema, perché, appunto, mentre gli ebrei se ne stanno per conto loro, i cristiani sono sempre più numerosi. Te li vedi spuntare dappertutto e non sai cosa fanno, perché i loro riti li celebrano in privato, non come la gente normale che va al tempio e, davanti al tempio, sotto gli occhi di tutti, offre il sacrificio alla divinità che si è scelto. Questi qua hanno un loro Dio, ma cosa facciano in quelle loro riunioni non si sa, perché non fanno entrare nessun altro.

Poi, chi è questo Dio? È uno che noi abbiamo condannato a morte per crocifissione per alto tradimento. Ah, che bel Dio che vi siete scelti! Dopodiché, vi stupisce che la polizia cominci ad aprire una cartellina quando viene a sapere che anche nella nostra città, purtroppo, è comparsa una comunità di questi? Teniamoli d’occhio, teniamoli d’occhio. E anche la brava gente li tiene d’occhio. E se quello lì è cristiano dice: “Ma sai cosa ha detto? Che fanno? Mangiano e bevono il sangue del loro Dio nelle loro riunioni e mangiano la sua carne.” Ah, appunto, appunto.

Ma poi, al di là dei fraintendimenti, i cristiani sono un problema. Non è che rifiutino l’autorità dell’imperatore, eh? Proprio per niente. Però l’imperatore, i bravi cittadini, chiede in molte occasioni di andare al tempio dei grandi dèi di Roma. Poi ognuno ha i suoi, i sudditi sono di tutte le etnie: gli arabi hanno i loro dèi arabi, i germani hanno i loro dèi germani, ci sono gli dèi di Roma, Giove… E a quegli dèi lì, e poi anche alla famiglia dell’imperatore, che diventano tutti dèi anche loro, gli imperatori morti, lì ci sono dei culti civici. La gente ci deve andare perché senza quegli dèi lì va tutto a ramengo. Se l’impero va avanti, se i raccolti sono buoni, se non c’è la peste, se sconfiggiamo i barbari, è perché gli dèi ci aiutano. Tutti devono andare al tempio il giorno del compleanno dell’imperatore a fare l’offerta. I cristiani non ci vanno.

È dissenso? Eh beh, alla fine, a quel punto è dissenso. Il cristiano, quando lo arrestano, dice: “Ma io non sono contro l’autorità. Io sono obbediente, bravo, pago le tasse, però non ci posso andare al tempio.” E lì, ecco un governo autocratico, assoluto, che non è abituato a dover discutere quello che fa con il popolo, con magistrati che invece si trovano a dover discutere con questi sciagurati. Noi abbiamo gli atti, eh, negli atti dei martiri ci sono pezzi interi di verbali conservati, col magistrato che dice: “Allora, tu non vuoi andare a fare il sacrificio?” “No, no, non posso.” “Ma sei sicuro?” “No, non posso.” “Ma guarda che vai lì, brucia quel pezzettino d’incenso!” “Non posso, il mio Dio me lo proibisce.” “Ma guarda che finisce molto male, eh. Vacci!” “Non posso.”

Alla fine, i magistrati li condannano a morte perché offendi l’imperatore e metti in pericolo l’impero col tuo dissenso se non vai a fare il sacrificio agli dèi. Ecco, quella è una forma, appunto, di dissenso che non vorrebbe avere niente di politico, perché, ripeto, sono tutte leggende che i cristiani volessero l’eguaglianza eccetera. L’eguaglianza lassù, mica qua, ecco. O che volessero abolire la schiavitù, figuriamoci. Però, invece, su questa cosa, l’unico aspetto in cui la religione assume un valore politico, i cristiani dissentono, e il governo reprime, reprime con estrema violenza.

Salvo che a forza di reprimere, questa gente continua a moltiplicarsi. La repressione non è perenne, sia chiaro. Non è che devono stare nascosti nelle catacombe. I cristiani esistono, tollerati tacitamente, ma con la polizia che li tiene d’occhio. Ogni tanto c’è un imperatore che dice: “Qui la situazione è un po’ sgradevole in questo momento. C’è la carestia, abbiamo bisogno di un nemico da additare al popolo. Lanciamo una bella campagna contro i cristiani.” Un sacco di gente è contenta: “Sempre detto io che quelli lì son gente pericolosa, finalmente l’imperatore si è deciso a farli fuori.”

Poi non riescono mai a farli fuori tutti. Torna un periodo in cui i cristiani clandestinamente continuano ad andare avanti. E i cristiani sono forti, piace a un sacco di gente il loro messaggio. Poi sono comunità compatte, che fanno assistenza sociale, che aiutano le vedove, che aiutano i ragazzini che hanno perso i genitori, che aiutano i poveri. E queste robe qua piacciono, in una società dove forme di assistenza così non ce ne sono.

I cristiani sono sempre di più. Dopodiché, la cosa sbalorditiva è che ancora all’inizio del IV secolo, l’imperatore Diocleziano fa una persecuzione violentissima, la più decisa, proprio addirittura costringe i preti cristiani a consegnare i Vangeli per bruciare i loro libri e fa fuori un sacco di gente. Un sacco di gente si pente, va a fare il sacrificio e così via. E poi i successori di Diocleziano, da un giorno all’altro, cominciano a dire: “Ma vale la pena? Ma politicamente vale la pena?”

…Prima viene uno che si chiama Galerio, il quale dice: “Questi cristiani sono delle teste dure. Comunque, non riusciamo in nessun modo a convincerli a tornare alla giusta religione dei loro padri e ad abbandonare la loro oscena superstizione. Quindi, per il momento smettiamo di perseguitarli perché mi sono rotto.” Ma un attimo dopo ne arriva un altro, Costantino, che fa un ragionamento diverso. E il ragionamento è chiaramente: “Dal punto di vista politico, molto meglio averli amici. Sono tantissimi, ce n’è dappertutto, in ogni città ci sono forti comunità cristiane. Anche un sacco di gente importante è diventata cristiana: se non il senatore, sua moglie, perché quelli lavorano con le donne, ci lavorano bene.” Anche la partecipazione femminile e l’attenzione del clero cristiano nei primi secoli al consenso femminile è un aspetto importante della diffusione del Cristianesimo.

E allora, il discorso politico è: “Non paga perseguitarli, molto meglio averli amici.” E questo, però, porta anche a un discorso un po’ più alto che è: “Noi, in quanto Stato, continuiamo a pensare che chissà quanti dèi esistano, chissà cosa c’è lassù, non lo sa bene nessuno. Per essere sicuri che chiunque ci sia lassù sia contento di noi, l’imperatore deve lasciare che ognuno preghi come vuole, chi vuole.”

Ed ecco l’Editto di Milano di Costantino: lì, da un giorno all’altro, la resistenza di questi che nonostante tutto tirano avanti per tre secoli, sorvegliati dalla polizia, e poi alla fine esplodono loro e poi comandano loro. Ma io sto facendo troppo lunga, scusatemi, finisco. Ma comandano loro, e ovviamente litigano fra loro. Ci sono tanti modi di essere cristiani: “Ma Gesù è proprio figlio di Dio oppure è stato creato come noi? C’è da sempre oppure è arrivato a un certo punto? Ma è uomo e Dio? Sì, vero uomo, sì sì, è anche vero Dio. Sì, ma non è che è solo uomo?” Sto mettendola in burletta, ma in realtà sono discussioni teologicamente sofisticate, queste, chiaramente.

Ma finché si discute fra dotti, non è questione di dissenso, nel nostro senso. Il problema nasce quando la società medievale, sviluppandosi, comincia a diventare una società complessa, ricca, dove c’è tanta gente che sa leggere e scrivere. E di nuovo, nell’Europa del XII e XIII secolo non c’è tanto il discorso: “Sorvegliamo la politica del sovrano e manifestiamo contro le sue decisioni.” Però, invece, il discorso su certi punti: “Non sono d’accordo con quello che dice il prete in chiesa. Secondo me, il Purgatorio non esiste. L’hanno inventato loro, i preti, così noi facciamo le offerte per le povere anime del nonno.” Ecco, questo è solo un esempio, eh. Lì nasce un dissenso in una società dove sono tutti credenti e a tutti interessa molto la dimensione religiosa, perché ci credono davvero.

Poi, ovviamente, peccano a non finire tutti quanti, però che c’è il diavolo, l’inferno e si spera anche il paradiso, ci credono davvero. E per fortuna… il Purgatorio è una gran cosa, perché anche se hai fatto… però ci sono anche le teste forti che dicono: “Sì, ve la fanno credere questa cosa.” Allora nasce un dissenso in un ambito che non è politico in senso diretto, ma che vuol dire mettersi contro uno dei grandi poteri che organizzano e regolamentano quella società.

E lì si vede benissimo che il clero cristiano non è che per vocazione debba reprimere, anzi, il Cristianesimo è nato con discussioni infinite di teologi e con un largo spazio per opinioni anche diverse. Salvo che poi, una volta che si decide che il dogma giusto è quello, allora fate il piacere, discutiamo di altro, ma quella cosa lì è stata decisa.

Ma quando arriva il pastore, il contadino che dice in faccia al parroco: “Io non ci credo a questa cosa che hai appena detto in chiesa.” Ecco, e dopo un po’ il parroco fa rapporto al vescovo dicendo: “Guarda che qui c’è sempre più gente che mi dice che non ci crede.” E allora la Chiesa deve decidere cosa fare, e a quel punto si deve dotare di apparati repressivi. Non solo di apparati repressivi, sia chiaro, perché nel momento… La Chiesa ci mette un po’: il primo matto che arriva a Roma dicendo: “Io mi chiamo Valdo, vengo da Lione, ho letto il Vangelo, ho visto che parla della povertà, che cosa bella. Gli apostoli andavano scalzi, vogliamo farlo anche noi e parlare alla gente del messaggio di Cristo.” Lo guardano, gli fanno un po’ di esami, scoprono che è ignorante come una capra e quindi gli dicono: “Tu col cavolo che vai in giro a predicare, vietato, torna a casa e stai bravo e zitto.”

Ma trent’anni dopo, quando un altro matto uguale che arriva da Assisi, che si chiama Francesco, arriva a Roma dicendo: “Io ho letto il Vangelo, ho visto questa cosa bellissima della povertà di Cristo e degli apostoli, io e i miei amici vogliamo vivere anche noi così.” E lì, a quel punto, a Roma non gli dicono: “Tornate a casa e guai a voi se vi rivediamo.” Gli dicono: “Parliamone, vediamo. Provate, vediamo cosa succede.”

Ecco, però al tempo stesso cominciano anche a dire: “Bisogna mandare in giro della gente che parli al popolo e che insegni la verità, perché questi altri a cui noi abbiamo detto di stare zitti invece non stanno zitti.” E come si manifesta il dissenso in quel caso? Nella clandestinità, andando in giro di nascosto. A fare cosa? A parlare alla gente di nascosto. È tutto un formicolare di attivisti, diremmo noi oggi, che vanno in giro, arrivano in un paese, hanno qualche conoscenza, hanno dei contatti. Noi lo sappiamo perché poi, quando comincia la repressione, gli inquisitori interrogano la gente, e la interrogano. La donna dice: “Sì, sì, quando mio marito era ancora vivo, qualche volta, mentre eravamo a letto che parlavamo, me lo diceva: ‘Vuoi venire a sentire delle buone parole?’ Io però non sono mai andata.” Ecco, eh…

E che questi movimenti sopravvivono. Bisogna dare alla gente quello che vuole: vogliono sentir discutere di fede, di religione meglio di come riesce a fare il parroco, che poveraccio ha mille altre cose da fare. Noi creiamo dei predicatori che sappiano andare dalla gente e risolvere tutti i dubbi. Però a quel punto siamo anche autorizzati a dire alla gente: “Quando avete dei dubbi, venite da noi e noi ve li risolviamo.” Ma se poi continuate a pensare delle cose sbagliate, prima o poi vi arriva una bella convocazione che dice: “L’inquisitore ti vuole parlare, presentati domani.” E quindi, appunto, si crea un apparato repressivo che non è però l’unica risposta e con cui la Chiesa in realtà recupera largamente il controllo della coscienza delle masse.

Ecco, in quel caso lì, quindi, insomma, ho affastellato un po’ di cose, ma dissenso politico, cosa certamente direi problema recente. Ma la società ha mille modi di confrontarsi con chi dall’alto ti dice cosa devi pensare, cosa devi fare, e di sviluppare opinioni diverse, anche in un campo appunto non direttamente politico.

[…]

Ma nella domanda c’era anche il tema di quanto l’università come istituzione, come collettività, possa, debba, faccia bene o faccia male a schierarsi, a prendere delle posizioni. E questa è una questione molto inquietante. Perché, diciamo così, una delle sgradevolezze dell’epoca che viviamo, nei nostri paesi dell’Occidente, è legata anche al fatto che si crea un comune consenso sul fatto che certe affermazioni sono vere, buone e giuste. E di conseguenza, chi dice il contrario bisogna farlo stare zitto. Certe posizioni sono giuste e sacrosante, e quindi bisogna schierarsi per quelle posizioni.

Allora, mentre è chiaro, ovvio – cioè che sono d’accordo anch’io con quello che tu hai detto – che la scienza, la ricerca non è neutrale, mai, perché nessuno di noi è neutrale. Però noi siamo degli individui. Tutti quelli che studiano, che fanno ricerca, che insegnano – vale anche per la scuola, in realtà, eh, questo discorso – siamo degli individui con una propria coscienza, che poi si trovano a operare dentro un’organizzazione. Quale deve essere il rapporto fra la tua coscienza e le linee guida, barra gli statuti o le ordinanze dell’istituzione a cui tu appartieni?

Io qui devo dire che trovo che anche quando si tratta di prendere posizione su una causa sacrosanta – mi pare che voi all’Università di Torino stiate discutendo di mettere che l’Università di Torino è contro la guerra, vero, e metterlo nello statuto? Che bella cosa, e chi mai potrebbe essere contrario all’idea di mettere nello statuto dell’università che l’Università di Torino è contro la guerra? Io sono molto a disagio nei confronti di queste cose.

Adesso faccio un po’ di autostoria, scusatemi, ma poi parlerò d’altro. Io sono allievo di un grande medievista dell’Università di Torino, che si chiamava Giovanni Tabacco, che è stato un uomo che mi ha formato in tutto. Ho imparato a scrivere grazie a lui – vabbè, non voglio farla lunga – ma è un uomo che per me è stato molto importante. Non era credente, e in non so quale occasione scrisse una frase che a me è rimasta impressa: “Ora è certo che l’anima nostra noi non intendiamo affidarla a nessun sacerdote”. E cioè: la mia coscienza è la mia linea guida, in certe cose ci può essere solo quella.

Adesso ricordo invece un altro personaggio di cui ho parlato in una lezione che sta online – quindi magari qualcuno la conosce già e mi scuserà. Ci fu un grande storico tedesco nel Novecento che si chiamava Ernst Kantorowicz. Kantorowicz era un grande borghese tedesco di inizio Novecento, nazionalista tedesco. Ha fatto la Prima guerra mondiale, ufficiale. Poi, sapete, dopo il turbolento dopoguerra tedesco, quando i Freikorps, i corpi franchi di estrema destra militaristi, repressero nel sangue i tentativi di rivoluzione comunista in Germania – parlo del 1919, del 1920 – Kantorowicz fu in prima linea nei corpi franchi militaristi di estrema destra, combatté i comunisti per le strade, venne anche ferito in combattimento contro i comunisti.

Fece una bella carriera accademica in Germania su posizioni appunto di destra decisa, nazionalista. Poi andò al potere Hitler, e venne fuori un piccolo dettaglio: che era ebreo. Kantorowicz scoprì che essere un nazionalista tedesco accanito, di estrema destra, non bastava per far dimenticare ai nazisti che lui era ebreo. E dovette andarsene. Siccome era uno storico famoso, gli diedero subito una cattedra a Berkeley, negli Stati Uniti, dove visse felice per anni, insegnando.

Fino a quando all’Università di Berkeley, nel secondo dopoguerra – parliamo della fine degli anni ’40, avete presente il maccartismo – quando cioè, appunto, negli Stati Uniti un particolare tipo di dissenso, quello che si ispirava agli ideali comunisti, si decise che era criminale e andava eliminato. Non era lecito negli Stati Uniti essere comunisti, dichiararsi comunisti, fare propaganda comunista. L’Università di Berkeley pensò che era una bellissima cosa dichiarare che l’Università di Berkeley era libera da comunisti e di imporre a tutti i docenti di quell’università di giurare che loro non erano comunisti.

Ernst Kantorowicz, che era stato ferito combattendo contro i comunisti nelle strade di Berlino, rifiutò di firmare. Rifiutò di firmare e condusse una battaglia che durò anni, che lo vide poi perdere la cattedra. Dopo aver però creato un movimento – peraltro gliel’hanno subito ridata a Princeton, la cattedra, contentissimi che quegli imbecilli di Berkeley l’avessero cacciato via. Comunque, lui ha rischiato tutto e ha fatto questa battaglia, dicendo precisamente: “Ma venite a dire a me se sono anticomunista! Io sono anticomunista, ma non accetto che l’università in cui insegno venga a dire a me che devo giurare se sono pro o contro qualcosa, perché io rispondo alla mia coscienza.”

Per dirvi come erano diversi dai nostri quei tempi, oggi farebbe ridere. Ma lui disse: “Ci sono tre professioni che portano la toga: il sacerdote, il magistrato e il professore universitario. E chi fa una di queste tre professioni deve rispondere alla propria coscienza e basta.” Oggi, ripeto, farebbe ridere. Ma insomma, questo per dire che secondo me aveva ragione lui.

E quindi io credo che è la nostra coscienza che ci deve guidare. Sapendo noi che non siamo neutrali, dobbiamo decidere quali posizioni possiamo e vogliamo prendere, e non le università o le scuole in cui insegniamo.

Moderatore: In realtà, diciamo, lo spettro delle nostre domande è finito. Per cui, io darei la parola al nostro numerosissimo pubblico stasera. Però, con un’accortezza, una cortesia: visto che siamo andati abbastanza lunghi, poi il professore e la professoressa ci devono lasciare per altri impegni, vi chiederei, quanto possibile, di fare delle domande stringate. Soprattutto un paio di domande dirette a ciascuno degli ospiti, massimo, con risposte che credo non saranno così lunghe.

Per cui, chi vuole, magari può avvicinarsi… Ne vedo una.

Barbero: Sì, poi non c’è obbligo, eh, anche una sola va bene lo stesso.

Domanda: Giuro che non sono stata obbligata da nessuno. Buonasera. Provo a cambiare prospettiva, ovvero la prospettiva di chi può esercitare il dissenso, che è la popolazione, i cittadini, i votanti, la maggioranza, eccetera. Mi sembra che in questi ultimi tempi ci sia anche scarso interesse nel rivendicare il proprio diritto al dissenso e la possibilità del conflitto, soprattutto in questo paese, dato che siamo di fronte a un momento storico in cui stanno smantellando completamente lo stato sociale e due pilastri che sono stati fondanti dello stato sociale italiano: ovvero l’educazione, l’istruzione e la sanità. Eppure non abbiamo le piazze piene di persone che protestano a favore di un diritto che è loro, in quanto cittadini. Notate questa cosa? Secondo voi è una questione da portare all’interno di questo dibattito oppure no? Grazie.

Moderatore: Quindi questa credo che valga per tutti e due. Per cui, ne abbiamo un’altra eventualmente che vale per tutti e due.

Barbero: Magari noi rispondiamo, poi se ne arriva un’altra…

Moderatore: Assolutamente.

Alessandra Algostino: Vabbè. Allora, allora, sì. Senza dubbio questa non è un’epoca di grande partecipazione, ahimè. Non è un’epoca di grande partecipazione né nei meccanismi classici della rappresentanza, dove c’è una fortissima astensione rispetto al voto, non è una forte partecipazione neanche dal basso, cioè, come appunto mobilitazione, come protesta, come presenza, diciamo, di movimenti sul territorio. Non è una forte mobilitazione. Non è nemmeno nulla, cioè, una certa, comunque, direi, insorgenza sociale diffusa sul territorio c’è. È molto frammentata questa insorgenza sociale diffusa sul territorio. Ci sono molte mobilitazioni e lotte che sono, così dire, monotematiche. Cioè si fa fatica, forse, a trovare una visione complessiva organizzata. Cioè, non c’è più, per dircela in parole povere, quello che era il partito novecentesco. E questo è un elemento. Col suo radicamento territoriale, con la capacità di organizzare collettivamente una visione del mondo complessiva.

Di fronte a questo, ci sono sì dei movimenti. Forse quello che si può cercare di fare è cercare di creare convergenza tra questi movimenti, cioè cogliere che le varie mobilitazioni presenti sul territorio – che possano essere per la sanità, che possano essere per il diritto allo studio, per le lotte ambientali, per il posto di lavoro – hanno in realtà la possibilità di trovare degli elementi comuni. Vi faccio un esempio, perché secondo me chi l’ha fatto molto bene questo lavoro è il collettivo di fabbrica della GKN di Firenze, perché loro hanno avuto la capacità di legare quella che è la loro lotta per il posto di lavoro contro la delocalizzazione, la chiusura dello stabilimento, eccetera, eccetera, con quelle che sono le lotte ambientali, facendo, ad esempio, delle manifestazioni con i Fridays for Future, perché il problema poi in realtà è uno. O con il movimento contro la guerra, con le femministe.

Cioè, adottare una prospettiva che, riprendendo proprio dal linguaggio femminista, possiamo definire intersezionale, oltre che convergente. Questo, forse, può essere un modo per cercare di ovviare a questo scarso interesse, a questa scarsa partecipazione che deriva anche da tutto un sistema di propaganda, da quella che è una crisi della rappresentanza, dalla trasformazione dei partiti, da partiti leggeri, liquidi, che… la storia qui sarebbe molto lunga, ma abbiamo poco tempo, quindi mi fermo qui.

Barbero: Sì, tu prima dicevi giustamente: “Non sappiamo in che epoca stiamo vivendo, non sappiamo come si chiama, non sappiamo come la chiameranno gli storici del futuro, perché non abbiamo nessuna idea di cosa succederà domani.” Però, forse, diciamo che il “dopo il riflusso”, cominciato negli anni ’80 – no? Dopo, ora che Margaret Thatcher o Ronald Reagan sono diventati personaggi storici vissuti mezzo secolo fa, forse possiamo cominciare ad accennare un’idea, diciamo, di lungo periodo. E allora a quel punto la sensazione di una certa logica di quello che sta succedendo la percepisci.

Voglio dire che c’è stato un periodo che è cominciato già con la Rivoluzione Francese, e che poi è ripartito alla grande col ’48, col 1848, che non è solo l’anno delle rivoluzioni in mezza Europa, ma è anche l’anno in cui viene pubblicato il Manifesto del Partito Comunista. E a partire da quel momento, come scrive il manifesto, “uno spettro si aggira per l’Europa”. Quello spettro si è aggirato per l’Europa per un po’ più di un secolo, grosso modo dal 1848 al… vogliamo dire 1980, l’anno della marcia dei 40.000 a Torino? Ma insomma, scherzo, ma comunque, dal 1848 fino all’ultimo quarto del Novecento, l’Europa e gli Stati Uniti hanno visto, da un lato, la crescita potente del liberalismo e quindi della democrazia, che all’inizio non era la stessa cosa, naturalmente, perché liberalismo voleva dire nell’Ottocento Parlamento, a cui il governo deve rispondere, libertà di fare partiti, libertà di associazione, libertà di stampa, ma non vuol dire che devono votare tutti, eh? Anche se votano solo quelli che hanno un minimo di entrate, va bene. Anche se votano solo i maschi, va benissimo. Anche se votano solo quelli che sanno leggere e scrivere, va bene anche quello, no? Quindi liberalismo e democrazia non erano proprio la stessa cosa. Però, appunto, la grande crescita del liberalismo poi ha prodotto una mutazione genetica e la nascita della democrazia e la realizzazione della democrazia.

E poi le democrazie sono diventate anche qualcosa di più. Sono diventate, appunto, democrazie sociali, democrazie del welfare. Allora, tutto questo è avvenuto in paesi dove il sistema capitalistico e il dominio della borghesia erano abbastanza solidi, ma dove esistevano forti partiti comunisti, forti sindacati, tutto un mondo intellettuale che non si riconosceva negli ideali borghesi. Ecco, la dialettica e il conflitto tra la borghesia liberale al potere e il comunismo nelle sue varie forme organizzate ha prodotto, credo che si possa dire, una delle epoche in cui la democrazia e il connesso benessere in Occidente sono arrivati a livelli mai visti prima. Tu dicevi che anche i ministri democristiani si preoccupavano dei diritti dei lavoratori in lotta contro i loro datori di lavoro, ma erano costretti a preoccuparsene, perché così riuscivano a fare in modo che una parte degli operai votasse DC, dopotutto, perché se gli operai avessero tutti votato Partito Comunista, invece era finita.

Detto quindi in modo così schematico, l’esistenza del comunismo ha significato che il liberalismo ha dovuto diventare democrazia, e democrazia del welfare e dei diritti. Poi il comunismo, per una serie di motivi, è stato stritolato, ha fallito ed è di fatto scomparso dalla scena. Senza questo contrappeso, ovviamente si comincia a tornare indietro. Perché dobbiamo preoccuparci dei lavoratori quando tanto non c’è più un partito comunista che li organizza e che li porta in piazza, magari a milioni, e che organizza scioperi generali paralizzanti? No, perché dovremmo preoccuparci del welfare quando la gente non ha più dei dirigenti e delle organizzazioni e delle sezioni di quartiere dove andare a sentirsi dire che bisogna protestare e organizzarsi contro tutto questo?

Quindi in realtà è abbastanza coerente, mi sembra, questa parcellizzazione della società, parcellizzazione dei conflitti, e una classe dirigente che non ritiene più di dover mediare.

Moderatore: Ovviamente non voglio fare del campanilismo, però qua c’è un luogo che tenta, quantomeno, di ricostruire un minimo quella storia e di andare anche oltre.

Barbero: Adriano, ma io anch’io, se me lo chiedono, dico: “Sì, io a mio modo sono comunista”. Certo. Ma altro è il discorso appunto della scomparsa del comunismo come lo abbiamo conosciuto, come forza mondiale nel Novecento.

Moderatore: Ovviamente. Però cerchiamo di dare una nota di speranza e di far capire che qui c’è del materiale, e se magari c’è una voglia di riprenderci quello che è nostro, come diciamo spesso, forse, insomma, si può ragionare tutti insieme e ripartire insieme.

Algostino: Possiamo dire “conflitto di classe quasi vinto dall’alto”, ma quasi. Ci sono ancora.

Moderatore: Non a caso, io stasera ho portato questo, che è un libro di Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, che proprio dice questo: cioè, dice come nota finale che la lotta di classe in realtà c’è stata, c’è ancora, ma la stanno vincendo loro. Quindi sostanzialmente la lotta di classe, che è immanente, in realtà potrebbe riprendere e magari potrebbe volgere a favore nostro, a favore di qualcun altro più che dei soliti e dei pochi.

Allora, adesso c’è spazio per una o due domande, se si rivolgono alternativamente all’uno o all’altro. Dopodiché dobbiamo veramente chiudere. Per cui, se c’è qualche persona che ha una curiosità o una suggestione che è arrivata dal dibattito di stasera, può farsi avanti.

Eccola. Vieni pure.

Domanda: Grazie mille. Volevo chiedere al professor Barbero: non ho ben capito allora qual è la sua posizione riguardo alla direzione della ricerca nell’università, ad esempio quando è stata fatta la domanda su appunto la collaborazione con enti terzi o con università israeliane e così via. Lei ha fatto un esempio di quello che magari i docenti possono pensare, però un altro è magari quello che le università possono fare in termini di ricerca, e quindi mi chiedo se secondo lei in questo modo possano essere posti dei limiti e/o, per esempio, quello che può essere il tema del dual use, quindi questa considerazione attuale che riguarda alla fine quello che può essere un fine concreto della ricerca, che quindi può contribuire per esempio a un conflitto in corso.

Barbero: Lei non era sicura di aver ben capito, perché le dispiaceva pensare che io avessi detto quello che ho detto, ma ho detto proprio quello, in questo senso: è ovvio che io penso che tutto quello che si può fare per far pressione sul governo di Israele e costringerlo a cambiare rotta, in teoria… Certo, tutto, tutto! Ma chi lo sa se tutto! Chiaro che bisogna cercare di fare pressione sul governo di Israele, mettiamola così: è chiaro che bisogna cercare di fare pressione sul governo di Israele per costringerlo a cambiare rotta, per prendere atto del danno enorme che fa all’immagine stessa di Israele nel mondo. Questo bisogna farlo.

Dopodiché, io non riesco a non provare preoccupazione quando un’università prende una posizione politica, implicando che tutti quelli che ci lavorano devono adeguarsi a quella posizione. Lei capisce che formulato in astratto così è più facile capirmi, credo, eh? Poi certo, se quella posizione politica è una posizione che io condivido, perché mi devo turbare se l’università dice ai suoi docenti: “Dovete pensarla in questo modo”? È il modo in cui la penso io, la penso già così per conto mio. E però credo che non sia impossibile, magari sbaglio, magari ho torto, ma non è difficile, credo, capire perché invece non importa se la posizione è giusta e condivisibile: che un’università imponga a chi ci lavora e a chi ci studia una certa posizione politica è un precedente che a me turba.

Ecco, come mi turbò a suo tempo l’imposizione del Green Pass… Cose di questo genere.

Moderatore: Volevi dire qualcosa?

Algostino: Su questo ho una posizione diversa perché ho sostenuto quello che è la presa di posizione da parte delle università e quello che è anche il boicottaggio accademico, rendendomi conto che “boicottaggio” è una parola forte. Però boicottaggio, secondo me, in questo caso è legato al contesto. Noi abbiamo un contesto in cui, in Palestina, io forse non mi preoccupo tanto dell’immagine di Israele in questo momento, mi preoccupo della situazione dei palestinesi in questo momento. Io vedo, appunto, in Palestina quello che possiamo… uso questa parola che non si vuole far usare, il genocidio, ma l’ha usata la Corte Internazionale di Giustizia, che parla di rischio plausibile di genocidio, no?

E mi pare che siamo di fronte a una situazione così grave per cui è necessario utilizzare degli strumenti di lotta politica che possono essere anche forti, come quello del boicottaggio, come è stato utilizzato contro l’apartheid in Sudafrica. Cioè, dipende. Certo che sono strumenti che, in un certo qual modo, possono venire anche a urtare, in un certo qual modo, contro l’idea anche di libertà accademica. Però penso che bisogna considerare quello che è il contesto. Il contesto in questo momento è un contesto di gravissime violazioni dei diritti umani. Se proprio noi vogliamo conservare anche solo questa idea dei diritti umani, dobbiamo cercare di pretenderne il rispetto. Noi adesso stiamo mandando al macero tutto quello che è il diritto internazionale e l’idea stessa di diritti umani, perché quando i diritti vengono applicati in maniera selettiva o il diritto internazionale viene applicato in maniera selettiva, questo equivale a non avere più alcuna regola.

Quindi a me pare che sia un contesto gravissimo e che non si possa tacere di fronte a quello che mi pare essere un genocidio in diretta. E quindi questo possa portare… I diritti sono… Quando ragioniamo di diritti, di principi, noi ragioniamo sempre in fondo di bilanciamenti, e magari non c’è una situazione ottimale. E peraltro, che l’università prenda posizione e in questo momento sospenda quelli che possono essere accordi con l’università israeliana non colpisce la libertà del singolo di svolgere ricerca accademica, in un certo modo.

Quello che diciamo non è l’idea di rescindere i rapporti con le singole persone anche in Israele, che magari tra l’altro esercitano dissenso nei confronti del governo israeliano. Anzi, con queste persone è importante continuare a costruire ponti. Quello che si vuole, con il boicottaggio accademico, è cercare di colpire quelle università israeliane che sono particolarmente coinvolte proprio con l’apparato militare, cioè con la guerra, con il colonialismo, con l’apartheid.

[Applauso]

Barbero: In realtà sono cose diverse che si sono mescolate nel mio discorso. Perché da un lato avevo ancora in mente questa idea di mettere negli statuti di un’università delle affermazioni di principio, che è la cosa principale che a me preoccupa, naturalmente, dal punto di vista del fatto che un’università, così come può avviare una collaborazione in quanto università, così può decidere di rescinderla. Su questo, evidentemente, anch’io non ho niente in contrario.

Però penso che sia un terreno su cui bisogna muoversi con molta delicatezza per stare ben attenti a evitare che l’università, come organismo, poi si imponga rispetto alla libertà di ricerca dei singoli. Ecco, semplicemente. Poi, chiaro, che un contratto con un’università israeliana particolarmente coinvolta nel sostegno alla guerra di Israele, sono contentissimo anch’io che venga rescisso. Non ho nessuna obiezione di principio.

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