Il saggio di Natalino Sapegno esplora come la conversione al cattolicesimo di Manzoni abbia dato profondità morale alla sua opera, rendendo gli ideali cristiani di uguaglianza un criterio di interpretazione storica. Nei Promessi Sposi, la vita degli umili diventa centrale: Renzo e Lucia, con le loro virtù semplici e autentiche, rappresentano la bontà e la fede popolare in un mondo di ingiustizie. Manzoni non racconta la storia da un punto di vista politico, ma dal basso, mostrando come la sofferenza e la resistenza degli oppressi siano illuminate dalla provvidenza divina, una presenza costante che guida le vicende umane.
Manzoni, con il suo realismo e la sua innovazione stilistica, crea un’opera che segna la nascita della letteratura italiana moderna. Il romanzo esprime una morale inclusiva, dove la fede permea ogni aspetto della narrazione, e si distingue per la capacità di fondere dramma e umanità. Nonostante alcuni limiti storici e ideologici, l’opera rimane un caposaldo artistico, in cui la morale cristiana non si impone ma arricchisce il racconto, illuminando sia i personaggi che l’ambiente storico.
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di Natalino Sapegno
Proprio per il tramite della conversione e dell’adesione al cattolicesimo, l’ideale morale del giovane Manzoni si riempie di un contenuto vero e acquista una forza espansiva, riconoscendosi nella faticata saggezza e nella secolare esperienza degli umili; e, inversamente, il principio egualitario cristiano per la prima volta scende con lui dal cielo sulla terra e diventa criterio di interpretazione e discriminazione delle vicende storiche e degli atteggiamenti umani. I limiti, che pur si palesano evidenti a un’indagine retrospettiva, di quella posizione mentale, servono tutt’al più a definire il grado di evoluzione di una società, quando appunto i Promessi Sposi si leggano in funzione meramente documentaria; non toccano e non attenuano la sostanza poetica del libro, né il suo evidentissimo significato storico. Talché, se il confronto con altre situazioni altrimenti progressive e mature, dell’Europa contemporanea, può riuscire illuminante per lo storico che si proponga di illustrare le insufficienze e le debolezze della nostra rivoluzione nazionale e borghese; diventa poi assurdo, e precisamente antistorico, quando lo si assume come criterio di giudizio in sede letteraria. Nell’ambito della civiltà del Risorgimento, non è possibile scorgere altra opera più rappresentativa, sul piano dell’arte, né più nuova e feconda, che I Promessi Sposi, se non forse le musiche congeniali di Verdi (Leopardi sta a sé, e a quella civiltà si contrappone con un virile, se pur sommario, rifiuto, lacerando bruscamente il velo delle consolanti illusioni metafisiche e «inaugurando il regno dell’arido vero»).
Un rapido sguardo alla trama ed ai personaggi del libro (vivi, del resto, nella mente di ogni lettore) potrà servire di conferma a quanto si è detto riguardo alla novità e alla forza del suo contenuto. Al centro della storia stanno i due popolani, i «promessi sposi», la cui esistenza passerebbe su questa terra inavvertita, senza lasciarvi traccia, se essi non finissero proprio per caso, e senza volerlo, a capitare fra i piedi dei grandi e dei prepotenti ad inciampare così nelle loro trappole. Uno è Renzo, che sembra davvero riassumere in sé tutte le doti di un certo mondo contadino: la bontà generosa, la giustizia istintiva, la religiosità schietta, la laboriosità ilare e serena, la freschezza non corrotta dei sentimenti; Renzo, di cui la vicenda è tutta una coperta ininterrotta battaglia contro l’orgoglio e le stregonerie dei dotti, di quelli che san leggere e scrivere e servirsi a tempo del latino dei decreti e della scrittura, contro le ingiustizie dei signori che han fatto la legge e l’adoperano secondo i loro fini e il loro capriccio; e questa battaglia egli la combatte senz’altra arma che le sue idee chiare e non artefatte, la sua fiducia tetragona nel trionfo del bene, la forza sana delle sue braccia e delle sue spalle addestrate da sempre alla dura fatica: è la figura più lieta e franca, la più cordiale e convincente che il Manzoni abbia saputo inventare. E poi c’è Lucia, in cui la fede ha creato una sensibilità più alta, più delicata e sottile; un pudore, una ritrosia, una superiore gentilezza d’affetti, che reca con sé una luce ineffabile e la proietta su tutte le cose e persone con cui si incontra. Una creatura che non sembra di questa terra, e pur rimane una contadina, con il suo modo di sentire semplice e quadrato, ben circoscritto in una precisa misura di tempi e di luoghi e di educazione. Intorno ai due protagonisti brulica tutto un mondo di umili: contadini, artigiani, barcaioli, barocciai1, povera gente tormentata dall’ingiustizia degli uomini e dalla crudeltà della sorte, ma non distorta e soffocata, tuttavia umana e solidale: sempre pronta al bene nei pensieri e nelle opere. E c’è la vita del villaggio, con i suoi interni squallidi e le sue magre cene e i suoi focolari spenti; e la chiesetta, la canonica, il convento dei cappuccini; e le campagne bruciate dalla siccità, devastate dalle invasioni soldatesche, spopolate dall’epidemia; e le lunghe strade che corrono il mondo pieno di sorprese e di malincontri; e le osterie; e infine anche la città, ma come la vede il contadino, stupenda e vasta, ma irta di insidie e di tranelli, la città del popolo, stremata e atterrita dal contagio, ovvero eccitata e fremente nei giorni di gazzarra. E nello sfondo, il paesaggio familiare di Lombardia, con i suoi cieli, i suoi monti, le sue acque, la sua mite luce autunnale.
Questo fondo popolano tiene una parte grande, più grande che a volte non si pensi, e predominante, nella struttura del romanzo. Anche il quadro storico, in cui tutta la vicenda s’inserisce, non tocca se non di passata gli eventi politici, diplomatici, bellici, quelli insomma che formano essenzialmente e quasi esclusivamente la trama di una storia nel senso corrente del termine, e si specifica piuttosto in una serie di quadri d’ambiente e di costume, per cui si delinea, non il corso solenne dei fatti, sì il colore, la fisionomia minuta e variegata di un’epoca. E quando un avvenimento di vasta portata – il malgoverno spagnolo, la carestia, la guerra, la peste – penetra nel racconto, è visto non in una considerazione astratta e disinteressata da storico professionale, bensì in quanto aderisce alla vita degli umili, li agita, li fa soffrire, reca un improvviso sconquasso nelle loro abitudini e nelle loro coscienze.
Naturalmente, in quella rappresentazione vasta e complessa di un periodo storico visto nei suoi riflessi umani e quotidiani, debbono penetrare anche i grandi, i personaggi illustri, i rappresentanti dei ceti e degli ordini privilegiati; ma vi entrano, come è giusto, in funzione subordinata: o per antitesi, come le ombre che hanno il compito di delimitare e porre in rilievo le zone di luce; ovvero come elementi di sostegno e di conforto del concetto che regola la rappresentazione nel suo complesso, in quanto si tratti di potenti che s’adeguano al mondo degli umili e si mettono al loro servizio. Forse soltanto a proposito dei personaggi di quest’ultimo tipo (il Cardinale, fra Cristoforo, per certi aspetti anche l’Innominato, con la sua vicenda esemplare e lievemente stilizzata) è lecito parlare di un residuo irrisolto di intenzioni moralistiche (quasi un’eco e un riflesso della splendida oratoria dei predicatori francesi del gran secolo, trasferita su un piano di persuasione popolare e raccontata): solo la sapienza e la discrezione infinita dell’artista, e il freno dell’ironia, riescono quasi sempre a salvarli, trattenendoli in un difficile equilibrio sull’orlo dell’oleografia. Ma quanto agli altri personaggi, che abbiamo detto antitetici, sono proprio quelli in cui il lievito polemico opera più direttamente e in modo più palese, sia che incarnino gli aspetti ridicoli, tronfi, artefatti, barocchi, le forme vuote di una civiltà pomposa e puntigliosa; o sia che impersonino i malvagi, i violenti che ignorano il timor di Dio, gli esclusi per i quali è pressoché impossibile ogni redenzione, prostrati nel fango della loro viltà, della loro abiezione, dei loro delitti; e qui la polemica stimola, e non impaccia, la libertà della fantasia, l’orrore o il disprezzo si mutano in drammatica perplessità e aiutano a penetrare più a fondo, onde la grandezza del male è sentita in termini di tragedia, investita dalla commozione, riscattata dalla pietà del poeta (storia di Gertrude, morte di don Rodrigo), e il comico non ha nulla di piccolo e di caricaturale, anzi si distende in pagine luminose, che sono tra le più ilari e cordiali ed umane del romanzo (don Abbondio, don Ferrante, donna Prassede).
Un alto sentimento religioso circola in ogni parte di quel mondo, penetra in ogni vicenda, sfiora anche i personaggi più tristi e i più vili. L’intervento di Dio negli accadimenti piccoli e grandi è in ogni momento così forte che ti sembra di poterlo toccare con mano: è una presenza paterna, amorosa e severa, che palpita in ogni cosa; e il poeta l’avverte, con la fede semplice e intatta dei suoi contadini, della povera gente: «quel che Dio vuole. Lui sa quel che fa; c’è anche per noi»; «lasciamo fare a Quel lassù»; «tiriamo avanti con fede, e Dio ci aiuterà». E in questo mondo basso, più triste che lieto, l’opera di Dio la senti soprattutto nelle tribolazioni, negli affanni, e in quegli spiragli di luce che s’aprono improvvisi in mezzo alle tenebre dell’angoscia e chiudono le porte alla disperazione. La «provvida sventura» del coro d’Ermengarda, il «Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola» dell’ode napoleonica, sono anche il filo conduttore, la trama segreta del romanzo, ma espressi in termini più semplici, familiari, popolari. È il tema che palpita nelle parole di fra Cristoforo ai due sposi finalmente ricongiunti: «Ringraziate il Cielo che v’ha condotti a questo stato, non per mezzo dell’allegrezze turbolente e passeggere, ma co’ travagli e tra le miserie, per disporvi a un’allegrezza raccolta e tranquilla». Ed era già nella chiusa dell’addio ai monti: «chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande». E ritornerà anche nelle meditate conclusioni, in cui Lucia e Renzo condenseranno alla fine il frutto e il «sugo» di tutta la loro esperienza. Il pessimismo cristiano dell’Adelchi s’è schiarito e intenerito in questo dono di fiducia e di attesa in questa luce di «allegrezza raccolta e tranquilla».
Questa morale, con quel che comporta di rassegnato e di umbratile, è il limite in cui si appuntano le differenze e le riserve dei lettori più restii (suonava ostica già a qualche democratico dell’Ottocento, che l’applicava con visione alquanto miope alla lotta politica in corso, e vi fiutava un invito, tutt’altro che conforme ai sentimenti dello scrittore, alla rassegnazione e alla non-violenza di fronte all’Austria e al clericalismo retrivo). Limite, ad ogni modo, come s’è già detto, d’ambiente e di situazione storica, d’ideologia storicamente condizionata, insomma, non di arte. Perché la moralità non si sovrappone al racconto, ma lo compenetra e l’illumina dal di dentro: la senti anche nei paesaggi e negli oggetti e nelle peripezie più naturali (nel gran notturno drammatico e musicale del capitolo VIII, nella fuga di Renzo da Milano all’Adda, nella descrizione dell’afa e del temporale che mette fine al contagio), ma appunto la senti come un elemento e una luce delle cose e degli avvenimenti, una nota che li completa, e li arricchisce. La sua funzione è, non di fine, bensì di strumento, che fa più penetrante ed intensa l’analisi psicologica e asseconda la ricerca del naturale, del concreto, del vero, nella scelta degli oggetti e nel modo di rappresentarli.
Parallela alla novità del contenuto, si accampa l’altra, forse anche più vistosa, della forma e del linguaggio, quell’incomparabile apporto di invenzioni verbali e stilistiche, per cui col romanzo manzoniano nasce la letteratura moderna d’Italia; e tale novità della forma deriva anch’essa, riprendendo in modi di gran lunga più maturi e concreti le esigenze della generazione dei Verri e del Parini, dallo stesso fondo morale e polemico: come la vita «non è già destinata ad essere un peso per molti e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego», così anche la letteratura non può proporsi «soltanto per fine di divertire quella classe d’uomini che non fa quasi altro che divertirsi» non può ridursi a privilegio di una minoranza. Anche qui al senno dei posteri, con tutto il tesoro delle successive esperienze letterarie europee e anche italiane, riesce abbastanza facile scorgere certi limiti e timidezze del realismo manzoniano; ma sarebbe stolto rifiutarsi di vedere l’enorme importanza di quella svolta storica. Sta di fatto che solo con molto stento, e con alterne fasi di superficiale adesione e di ripiegamenti involutivi, la cultura italiana è giunta a prendere coscienza della sua portata e a maturarne i frutti; né l’efficacia esemplare di quell’insegnamento può dirsi a tutt’oggi veramente esaurita.
FONTE: Natalino Sapegno, Ritratto di Manzoni ed altri saggi, Bari, Laterza, 1961, pp. 144 sgg.
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NOTE
1. I barocciai erano conducenti di barocci, ossia carri trainati da animali, spesso cavalli o buoi, utilizzati per trasportare merci o persone nelle campagne e nei piccoli paesi. Erano figure comuni nella vita quotidiana del passato, soprattutto in un’epoca in cui i mezzi di trasporto motorizzati non esistevano ancora. Nei Promessi Sposi, Manzoni descrive il mondo degli umili, tra cui anche i barocciai, che rappresentano la classe lavoratrice, impegnata nelle attività semplici ma essenziali per il sostentamento delle comunità rurali.