Il caos
Può un uomo collocarsi fuori dalla sua storia (anche se sa che questa storia è un’illusione dell’ottica umana, e l’ha fatta diventare luogo della sua coscienza, con tutti i doveri che tale operazione implica)? No, non lo può. Questo uscire dalla storia, adottando una falsa e bugiarda ottica di postero o di cherubino, è un atto caro ai reazionari, e i giornali di destra son pieni di scrittori che si prestano a simili ascesi, atte a soddisfare il bisogno spiritualistico dei piccoli borghesi (che, sia pure inconsapevolmente, son essi i nefandi “materialisti”, oggetto del loro odio).
Dunque, se un uomo non può uscire dal giro storico in cui è incastrato, con tutta la sua coscienza, non può giudicare sub specie aeternitatis gli avvenimenti storici della sua epoca. Se lo fa è un ipocrita.
L’uomo che raggiunge la luna e ci cammina sopra è indubbiamente un grande fatto storico. Come mai non interessa realmente quasi nessuno? Come mai è divenuto un oggetto quasi esteriore di semplice curiosità e di bisogno di essere pari con l’informazione? Io in questi giorni sto lavorando a un film [Medea]: non sono dunque solo: passo l’intera giornata con almeno una sessantina di persone che lavorano con me, tutto il giorno vicini: inoltre, lavorando all’aperto (in questi giorni, a Grado) vedo dozzine e dozzine di altre persone, comparse, curiosi, guardiani, carabinieri, proprietari dei luoghi dove giro, amici che capitano lì a trovarmi, ecc. ecc’. Vivo, insomma, per almeno quattordici ore di seguito in piazza. Ebbene, in tutti questi giorni, mai nessuno che abbia parlato della conquista della luna: e quando dico mai, intendo proprio dire letteralmente mai. Io stesso alla mattina spesso dimentico di comprare i giornali, e, per quel che riguarda la luna, leggo solo i grossi fastidiosi titoli. La stampa stessa mi pare impegnata in una impresa enfatica. Essa infatti gonfia gli avvenimenti, come per un dovere, una deliberazione aprioristica: andare sulla luna è enorme, facciamo dunque titoli e articoli enormi. Eppure si sente che, di tale enormità, non c’è richiesta.
Andate un po’, a vedere se i titoli della partita di calcio Milan-Manchester e gli annessi paginoni erano irrichiesti! Certo è ingiusto che la partita Milan-Manchester susciti un maggiore interesse reale che la conquista della luna: che sommuova in modo più reale i sentimenti. Ma è un fatto.
Perché gli uomini (almeno in Italia) – me compreso, del resto – provano questa resistenza a lasciarsi implicare sentimentalmente, e quindi con la passione che crea le identificazioni, dall’impresa dell’Apollo?
Quanto a me, alcune ragioni le so: mi infastidisce, tanto per cominciare, il nome “Apollo”, ridicolo e retorico residuo umanistico – pesantemente ipocrita – a fare da “segno” a un oggetto prodotto dalla più avanzata civiltà tecnologica: provo una strana antipatia per i tre astronauti, tipi di uomini medi e perfetti, esempio di come si deve essere, inestetici ma funzionali, privi di fantasia e passione, ma spietatamente pratici e obbedienti – assolutamente privi di ogni capacità critica e autocritica, veri uomini del potere: sento una sgradevole repulsione per il background piccolo-borghese di questi tre uomini, quei figlietti biondi, così carini e già così contrassegnati dal loro futuro completamente condizionato, quelle tre mogli che giocano con tanto spudorato candore il ruolo che viene loro richiesto: Penelopi, sì. Penelopi fedeli e un po’ brusche, che sanno ridurre tutto, al momento opportuno, al caffè e alle tartine da offrire (con in cuore la qualunquistica e rassicurante speranza che il loro uomo ritorni e smetta di fare l’eroe) alle vicine di casa: detesto poi tutta l’ufficialità americana che c’è intorno all’impresa, con in testa quell’Agnew… Sono, tutte queste, idiosincrasie mie, di intellettuale eternamente scontento, viziato da un buon gusto che non ha più senso, amareggiato delle sue illusioni politiche irrealizzate?
Non lo credo. Ciò che in me è cosciente, opera a livello semi-incosciente o incosciente del tutto, anche nella massa dei cittadini italiani. (Ma in Tanzania, per esempio, Paese tipico del Terzo Mondo, i giornali dedicano alle imprese spaziali poche righe, mentre mettono in prima pagina, a grossi caratteri, le notizie che riguardano la loro vita nazionale così acerba e particolaristica). Ciò che rende resistenti ad amare l’impresa lunare è che essa è una impresa del Potere. E non intendo solo dire del Potere capitalistico, ma anche del Potere sovietico. Le imprese spettacolari del Potere tendono a ridurci a uno stato infantile. Il Potere compie (finanziandole) le più grandi imprese, e noi tutti lì a bocca aperta ad ammirare. È chiaro che non vogliamo tornare troppo bambini, che non vogliamo essere ridotti eternamente allo stato di figli. Perciò detestiamo anche tutti i mascheramenti del paternalismo più feroce della storia (perché indubbiamente il più potente): la falsa democrazia, la demagogia populistica, il sentimentalismo famigliare, la spaventosa retorica dell’obbedienza.
Devo aggiungere ancora un’osservazione. Fingiamo di essere vissuti negli anni dell’impresa che tutti i giornali di questi tempi ricordano: il viaggio di Colombo verso le Indie e il suo sbarco in America. È una finzione, che propongo, il che implica il giudicare ipoteticamente quell’avvenimento con la nostra mentalità – almeno liberale e illuministica – o almeno dotata di quell’umorismo che era privilegio delle élites – oppure dei poeti, come Cervantes o l’Ariosto.
L’impresa di Colombo, che è poi diventata un’impresa dell’umanità, era, in quel momento, una impresa della monarchia spagnola: era cioè finanziata dal Potere. Dunque la grande impresa “umana” di Colombo non è stata, nel momento storico in cui si è attuata, che il “via” a una serie di atroci imprese colonialistiche. Ma mentre, nel caso di Colombo, c’è evidentemente una dissociazione tra l’uomo singolo, o eroe, Colombo, e il Potere finanziatore – dissociazione che sdoppia il fatto bruto: da una parte la grande impresa umana, dall’altra la feroce impresa commerciale e colonialistica – nel caso degli astronauti, questa dissociazione non c’è. L’eroe di questa impresa non è l’astronauta – che è in sostanza un semplice robot – ma la tecnica (non dico Von Braun, ma la tecnica). Non c’è più dissociazione, dunque, perché la tecnica non è la moderna personificazione di Colombo, che approfitta del finanziamento del Potere, per compiere, quasi su un piano metastorico, la sua scoperta, ma è l’aspetto operativo e pragmatico stesso del Potere.
Dunque, la conquista della luna non è una impresa umana che alla fine scavalcherà e supererà il potere storico e particolaristico che l’ha finanziata: ma sarà un dato permanente e inscindibile del Potere. Perciò quello che accadrà in seguito alla conquista della luna ci è estraneo, perché estraneo ci è l’operare del Potere, con le sue finalità militari ed economiche che ci coinvolgono passivamente, e quindi con violenza.
E c’è ancora un’ultima osservazione da fare – e il lettore mi perdoni se insisto su un argomento che dico non essere interessante – mentre, in realtà, intendo dire che il suo interesse è altro da quello che la stampa vorrebbe farci credere (cioè un enorme carosello televisivo, che fa la réclame del tipo di vita medio americano e delle spese militari). Più volte ho tentato in questa rubrica [si riferisce a un testo della rubrica dell’11 gennaio 1969] di rivalutare la parola “umanità” – scaduta durante un ventennio di giusta ma moralistica polemica marxista contro l’umanitarismo. È chiaro che la storia non sarà d’ora in avanti più storia di nazioni, cioè di poteri nazionali: ma sarà storia dell’intera umanità, unificata e omologata dalla civiltà industriale e tecnologica – tanto per dirla con la massima semplicità. Il Potere da nazionale tende a diventare transnazionale: restando potere, cioè, nella fattispecie, facendo sua la conquista della luna. La conquista della luna è dunque già statisticamente (oltre che col senno del poi del finto postero) una impresa della umanità: ma perché divenga veramente tale occorre che tale umanità sia libera. Parlo da utopista, lo so. Ma o essere utopisti o sparire.
Fonte: Tempo, n. 32 a. XXXI, 9 agosto 1969