Emmanuel Todd, La Défaite de l'Occident

Emmanuel Todd: La sconfitta dell’Occidente

Emmanuel Todd analizza dieci sorprese della guerra Russia-Ucraina, rivelando la resistenza ucraina, la resilienza russa e l'isolamento ideologico dell'Occidente.

Il 24 febbraio 2022, Vladimir Putin annunciò l’invasione russa dell’Ucraina, presentandola come una necessaria autodifesa contro l’espansione della NATO e la militarizzazione dell’Ucraina, considerata una minaccia esistenziale per la Russia. Il suo discorso, pacato e strutturato, indicava che la Russia agiva in quel momento perché deteneva una superiorità strategica, in particolare grazie ai missili ipersonici. Tuttavia, in Occidente prevalse una condanna immediata e un rifiuto di ogni discussione, con una visione di Putin come irrazionale e incomprensibile. Nell’introduzione al suo libro La Défaite de l’Occident [La sconfitta dell’Occidente, inedito in Italia], Emmanuel Todd sostiene che questa guerra ha rivelato una crisi più profonda all’interno dell’Occidente stesso, sempre più isolato ideologicamente e incapace di comprendere la Russia. Le sorprese emerse dal conflitto, come la resistenza ucraina, la resilienza economica russa e l’inadeguatezza delle sanzioni occidentali, sono sintomi di un declino occidentale, caratterizzato dalla perdita di coesione interna e dal distacco dalla realtà geopolitica globale.

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Le dieci sorprese della guerra

di Emmanuel Todd

Il 24 febbraio 2022, Vladimir Putin apparve sugli schermi televisivi di tutto il mondo. Annunciò l’ingresso delle truppe russe in Ucraina. Il suo discorso non verteva, fondamentalmente, né sull’Ucraina né sul diritto all’autodeterminazione delle popolazioni del Donbass. Si trattava di una sfida alla NATO. Putin spiegò perché non voleva che la Russia fosse colta di sorpresa come lo era stata nel 1941, aspettando troppo a lungo l’attacco inevitabile: «L’espansione continua delle infrastrutture dell’Alleanza Atlantica e la militarizzazione del territorio ucraino sono per noi inaccettabili». Una «linea rossa» era stata oltrepassata; non si trattava di lasciare che si sviluppasse in Ucraina un’«anti-Russia»; si trattava, insisteva, di un’azione di autodifesa.

Questo discorso, che affermava la validità storica e, per così dire, giuridica della sua decisione, lasciava trasparire con un realismo crudo un rapporto di forze tecniche a lui favorevole. Se era giunto il momento per la Russia di agire, era perché il possesso di missili ipersonici le conferiva una superiorità sul piano strategico. Il discorso di Putin, molto strutturato, molto pacato, sebbene tradisse una certa emozione, era perfettamente chiaro e, anche se non c’era obbligo di cedere, meritava comunque di essere discusso. Tuttavia, si impose subito la visione di un Putin incomprensibile e di russi incomprensibili o sottomessi o idioti. Ne conseguì un’assenza di dibattito che ha disonorato la democrazia occidentale: totale in due paesi, la Francia e il Regno Unito, parziale in Germania e negli Stati Uniti.

Come la maggior parte delle guerre, specialmente quelle mondiali, anche questa non si è svolta come previsto; ci ha già riservato molte sorprese. Ne ho contate dieci principali.

La prima è stata l’irruzione stessa della guerra in Europa, una vera guerra tra due Stati, evento inaudito per un continente che si credeva ormai stabilmente in una pace perpetua.

La seconda sorpresa riguarda i due avversari che questa guerra ha messo di fronte: gli Stati Uniti e la Russia. Da oltre un decennio, la Cina era stata indicata dagli Stati Uniti come il suo principale nemico. L’ostilità nei suoi confronti era, a Washington, bipartisan e senza dubbio l’unico punto su cui repubblicani e democratici riuscivano, negli ultimi anni, a concordare. Tuttavia, per interposta Ucraina, stiamo partecipando a uno scontro tra Stati Uniti e Russia.

La terza sorpresa: la resistenza militare dell’Ucraina. Tutti si aspettavano che sarebbe stata rapidamente schiacciata. Dopo aver costruito un’immagine infantile e esagerata di un Putin demoniaco, molti occidentali si rifiutarono di vedere che la Russia aveva inviato solo 100.000-120.000 uomini in Ucraina, un paese di 603.700 km². A titolo di confronto, nel 1968, per invadere la Cecoslovacchia, un paese di 127.900 km², l’URSS e i suoi satelliti del Patto di Varsavia ne inviarono 500.000.

Ma i più sorpresi furono gli stessi russi. Nella loro mente, come in quella della maggior parte degli occidentali informati e, in verità, nella realtà, l’Ucraina era quello che tecnicamente si chiama un failed state, uno Stato fallito. Dalla sua indipendenza, nel 1991, aveva forse perso 11 milioni di abitanti tra emigrazione e calo della natalità. Era dominata dagli oligarchi; la corruzione raggiungeva livelli insensati; il paese e i suoi abitanti sembravano in vendita. Alla vigilia della guerra, l’Ucraina era diventata la terra promessa della gestazione per altri (GPA) a basso costo.

Certo, l’Ucraina era stata equipaggiata con missili anticarro Javelin dalla NATO, disponeva fin dall’inizio della guerra di sistemi di osservazione e guida statunitensi, ma la feroce resistenza di un paese in decomposizione pone un problema storico. Nessuno poteva prevedere che avrebbe trovato nella guerra una ragione di vita, una giustificazione della propria esistenza.

La quarta sorpresa è stata la resistenza economica della Russia. Ci era stato detto che le sanzioni, in particolare l’esclusione delle banche russe dal sistema di scambi interbancari Swift, avrebbero messo in ginocchio il paese. Tuttavia, se alcuni spiriti curiosi, nel nostro personale politico e giornalistico, avessero letto il libro di David Teurtrie, Russie. Le retour de la puissance, pubblicato pochi mesi prima della guerra, ci saremmo risparmiati questa fede ridicola nella nostra onnipotenza finanziaria¹. Teurtrie mostra che i russi si erano adattati alle sanzioni del 2014 e si erano preparati per essere autonomi nel campo informatico e bancario. In questo libro scopriamo una Russia moderna e, ben lontana dall’autocrazia neostaliniana rigida che la stampa ci dipinge ogni giorno, capace di una grande flessibilità tecnica, economica e sociale – insomma, un avversario da prendere sul serio.

La quinta sorpresa: il crollo di ogni volontà europea. L’Europa era all’inizio il duo franco-tedesco, che, sin dalla crisi del 2007-2008, aveva certamente assunto i tratti di un matrimonio patriarcale, con una Germania in veste di sposo dominante che non ascoltava più ciò che la sua compagna aveva da dire. Ma anche sotto l’egemonia tedesca, si pensava che l’Europa mantenesse una certa autonomia. Tuttavia, nonostante alcune esitazioni all’inizio, oltre il Reno, tra cui quelle del cancelliere Scholz, l’Unione europea ha rapidamente rinunciato a ogni velleità di difendere i propri interessi; si è tagliata fuori dal suo partner energetico e, più in generale, commerciale russo, sanzionandosi sempre più duramente. La Germania ha accettato senza protestare il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream, che in parte assicuravano il suo approvvigionamento energetico, un atto terroristico diretto tanto contro di lei quanto contro la Russia, perpetrato dal suo “protettore” americano, associato per l’occasione alla Norvegia, un paese che non appartiene all’Unione. La Germania è riuscita persino a ignorare l’eccellente inchiesta di Seymour Hersh su questo incredibile evento, che metteva in discussione lo Stato che si presenta come il garante indispensabile dell’ordine internazionale. Ma abbiamo anche visto la Francia di Emmanuel Macron evaporare sulla scena internazionale, mentre la Polonia diventava il principale agente di Washington nell’Unione europea, succedendo in questo ruolo al Regno Unito, ormai esterno all’Unione per via del Brexit. Sul continente, complessivamente, all’asse Parigi-Berlino si è sostituito un asse Londra-Varsavia-Kiev pilotato da Washington. Questa scomparsa dell’Europa come attore geopolitico autonomo è sconcertante se si ricorda che, appena vent’anni fa, l’opposizione congiunta di Germania e Francia alla guerra in Iraq aveva portato a conferenze stampa comuni tra il cancelliere Schröder, il presidente Chirac e il presidente Putin.

La sesta sorpresa della guerra è stata l’emergere del Regno Unito come feroce avversario della Russia e come mosca cocchiera della NATO. Il Ministero della Difesa britannico (MoD), amplificato dalla stampa occidentale, è apparso immediatamente come uno dei commentatori più esagitati del conflitto, al punto da far sembrare i neoconservatori americani dei militaristi moderati. Il Regno Unito ha voluto essere il primo a inviare all’Ucraina missili a lunga gittata e carri armati pesanti.

Questo bellicismo ha colpito, in modo altrettanto curioso, la Scandinavia, che a lungo aveva avuto una natura pacifica e più incline alla neutralità che al combattimento. Troviamo quindi una settima sorpresa, anch’essa protestante e collegata all’irrequietezza britannica, nell’Europa del Nord. Norvegia e Danimarca sono diventate relé militari molto importanti per gli Stati Uniti, mentre la Finlandia e la Svezia, aderendo alla NATO, rivelano un nuovo interesse per la guerra, che esisteva già prima dell’invasione russa dell’Ucraina.

L’ottava sorpresa è la più… sorprendente. È venuta dagli Stati Uniti, la potenza militare dominante. Dopo una lenta crescita, la preoccupazione si è manifestata ufficialmente nel giugno 2023 in numerosi rapporti e articoli di cui il Pentagono era la fonte originaria: l’industria militare americana è carente; la superpotenza mondiale è incapace di assicurare l’approvvigionamento di munizioni – o di qualunque altra cosa – al suo protetto ucraino. È un fenomeno del tutto straordinario, considerando che alla vigilia della guerra i prodotti interni lordi (PIL) combinati di Russia e Bielorussia rappresentavano il 3,3% del PIL occidentale (Stati Uniti, Canada, Europa, Giappone, Corea). Questo 3,3% in grado di produrre più armi dell’intero mondo occidentale pone un doppio problema: prima di tutto all’esercito ucraino, che perde la guerra per mancanza di mezzi materiali; in secondo luogo alla regina delle scienze occidentali, l’economia politica, il cui carattere – osiamo dirlo – ingannevole è così svelato al mondo. Il concetto di prodotto interno lordo è obsoleto e dobbiamo ora riflettere sul rapporto tra l’economia politica neoliberale e la realtà.

La nona sorpresa riguarda la solitudine ideologica dell’Occidente e la sua ignoranza rispetto al proprio isolamento. Abituati a dettare i valori a cui il mondo deve conformarsi, gli occidentali si aspettavano, sinceramente e ingenuamente, che l’intero pianeta condividesse la loro indignazione nei confronti della Russia. Sono rimasti delusi. Superato il primo shock della guerra, si è visto emergere ovunque un sostegno sempre meno nascosto alla Russia. Era prevedibile che la Cina, indicata dagli americani come il prossimo nemico sulla loro lista, non sostenesse la NATO. Tuttavia, vale la pena notare che, da entrambe le sponde dell’Atlantico, i commentatori, accecati dal loro narcisismo ideologico, hanno per oltre un anno considerato seriamente che la Cina potesse non sostenere la Russia. Il rifiuto dell’India di schierarsi ha deluso ancor di più, probabilmente perché l’India è la più grande democrazia del mondo, e ciò sembrava in contrasto con l’idea di un fronte delle “democrazie liberali”. Ci si è consolati dicendo che ciò era dovuto al fatto che gran parte dell’equipaggiamento militare indiano era di origine sovietica. Per quanto riguarda l’Iran, che ha rapidamente fornito droni alla Russia, i commentatori non hanno colto l’importanza di questo avvicinamento. Abituati a mettere i due paesi nello stesso sacco, quello delle forze del male, i geopolitici dilettanti dei media avevano dimenticato quanto fosse inusuale questa alleanza. Storicamente, l’Iran aveva due nemici: l’Inghilterra, sostituita dagli Stati Uniti dopo la caduta dell’Impero britannico, e… la Russia. Questo cambiamento di fronte avrebbe dovuto allertare sull’entità del terremoto geopolitico in corso. La Turchia, membro della NATO, sembra sempre più impegnata in una relazione stretta con la Russia di Putin, una relazione che ora mescola una vera comprensione alla rivalità. Visto dall’Occidente, l’unica interpretazione possibile era che questi dittatori avessero evidentemente aspirazioni comuni. Tuttavia, da quando Erdogan è stato democraticamente rieletto nel maggio 2023, questa linea è diventata difficile da sostenere. In realtà, dopo un anno e mezzo di guerra, è l’intero mondo musulmano che sembra considerare la Russia come un partner piuttosto che un avversario. È sempre più chiaro che l’Arabia Saudita e la Russia si vedono a vicenda, per gestire la produzione e il prezzo del petrolio, come alleate economiche piuttosto che come avversarie ideologiche. Più in generale, giorno dopo giorno, la dinamica economica della guerra ha alimentato l’ostilità verso l’Occidente nei paesi in via di sviluppo, poiché questi soffrono delle conseguenze delle sanzioni.

La decima e ultima sorpresa si sta materializzando. È la sconfitta dell’Occidente. Si potrà essere sorpresi da tale affermazione, dato che la guerra non è ancora finita. Ma questa sconfitta è una certezza, perché l’Occidente si sta autodistruggendo piuttosto che essere attaccato dalla Russia.

Ampliamo la nostra prospettiva e sfuggiamo per un momento all’emozione suscitata legittimamente dalla violenza della guerra. Ci troviamo nell’era di una globalizzazione ormai compiuta, in entrambi i sensi del termine: massima e conclusa. Proviamo a avere una visione geopolitica: in realtà la Russia non è il problema principale. Troppo vasta per una popolazione in calo, sarebbe ben incapace di prendere il controllo del pianeta e non lo desidera affatto; è una potenza normale, la cui evoluzione non ha nulla di misterioso. Nessuna crisi russa destabilizza l’equilibrio mondiale. È piuttosto una crisi occidentale e, più specificamente, americana, terminale, a mettere in pericolo l’equilibrio globale. Le sue onde più periferiche sono andate a infrangersi contro un molo di resistenza russo, contro uno Stato-nazione classico e conservatore.

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Già il 3 marzo 2022, appena una settimana dopo l’inizio della guerra, John Mearsheimer, professore di geopolitica all’Università di Chicago, presentava un’analisi degli eventi in un video che fece il giro del mondo. Aveva l’interessante particolarità di essere molto compatibile con la visione di Vladimir Putin e di accettare l’assioma di un pensiero russo intelligente e comprensibile. Mearsheimer è ciò che in geopolitica si chiama un «realista», membro di una scuola di pensiero che concepisce le relazioni internazionali come una combinazione di rapporti di forza egoistici tra Stati-nazione. La sua analisi può essere riassunta così: la Russia ci ripeteva da anni che non avrebbe tollerato l’adesione dell’Ucraina alla NATO. Tuttavia, l’Ucraina, il cui esercito era stato preso in mano dai consiglieri militari dell’Alleanza, americani, britannici e polacchi, stava di fatto diventando membro della NATO. I russi hanno quindi fatto ciò che avevano annunciato, sono entrati in guerra. In fondo, la nostra sorpresa era la cosa più sorprendente.

Mearsheimer aggiungeva che la Russia avrebbe vinto la guerra, poiché per essa l’Ucraina rappresentava una questione esistenziale, mentre – sottinteso – non lo era per gli Stati Uniti; Washington giocava solo per guadagni marginali, a 8.000 chilometri di distanza. Ne deduceva che avremmo sbagliato a rallegrarci se i russi si fossero imbattuti in difficoltà militari, poiché queste li avrebbero inevitabilmente portati a investire maggiormente nella guerra. La posta in gioco essendo esistenziale per gli uni, ma non per gli altri, la Russia avrebbe prevalso.

Non si può che ammirare il coraggio intellettuale e sociale di Mearsheimer (è americano). La sua interpretazione, limpida, sviluppa una riflessione che aveva espresso nei suoi libri o in occasione dell’annessione della Crimea nel 2014. Tuttavia, presenta un difetto principale: permette di comprendere solo il comportamento dei russi. Come i nostri analisti televisivi, che hanno visto nell’atteggiamento di Putin solo una follia omicida, anche Mearsheimer vede nell’azione della NATO – degli americani, dei britannici, degli ucraini – soltanto irrazionalità e irresponsabilità. Sono d’accordo con lui, ma è un po’ riduttivo. Bisogna anche spiegare questa irrazionalità occidentale. Più grave, Mearsheimer non ha capito che le prestazioni militari dell’Ucraina hanno paradossalmente trascinato gli Stati Uniti in una trappola. Anche per loro, ormai, è diventata una questione di sopravvivenza, ben oltre i guadagni marginali possibili, una situazione pericolosa che li ha spinti a investire sempre di più nella guerra. Mi viene in mente l’immagine di un giocatore di poker trascinato da un amico a rilanciare continuamente, che finirà per andare “all in” con una coppia di due. Di fronte a lui, un giocatore di scacchi perplesso, ma che vince.

In questo libro, descriverò ovviamente e cercherò di comprendere ciò che sta accadendo in Ucraina, e avanzerò ipotesi su ciò che potrebbe accadere non solo in Europa ma anche nel mondo. Ho anche lo scopo di svelare il mistero fondamentale costituito dall’incomprensione reciproca dei due protagonisti: da un lato, un campo occidentale che pensa che Putin sia folle, e con lui la Russia; dall’altro, una Russia o un Mearsheimer che, in fondo, pensano che siano gli occidentali a essere pazzi.

Putin e Mearsheimer non appartengono allo stesso campo e probabilmente farebbero fatica a concordare su valori comuni. Tuttavia, le loro visioni risultano compatibili perché condividono la stessa rappresentazione elementare di un mondo costituito da Stati-nazione. Questi Stati-nazione, detentori al loro interno del monopolio della violenza legittima, assicurano la pace civile entro i propri confini. Possiamo quindi parlare di Stati weberiani. Ma sul piano internazionale, poiché sopravvivono in un ambiente dove contano solo i rapporti di forza, questi Stati si comportano come agenti hobbesiani².

Ciò che meglio definisce la concezione russa dello Stato-nazione è la nozione di sovranità, «intesa, ci insegna Tatiana Kastouéva-Jean, come la capacità dello Stato di definire in modo indipendente le proprie politiche interne ed estere, senza alcuna ingerenza o influenza esterna³». Questa nozione «ha acquisito un valore tutto particolare nel corso delle presidenze successive di Vladimir Putin». È «menzionata in molti documenti e discorsi ufficiali come il bene più prezioso che un paese possieda, qualunque sia il suo regime e le sue orientazioni politiche». È «un bene raro di cui dispongono solo pochi Stati, in primis gli Stati Uniti, la Cina e la Russia stessa. Al contrario, gli scritti e i discorsi più ufficiali menzionano con disprezzo la “vassallizzazione” dei paesi dell’Unione europea nei confronti di Washington o descrivono l’Ucraina come un “protettorato” americano».

Nel suo libro The Great Delusion, pubblicato nel 2018, Mearsheimer riflette anch’egli in termini di Stati-nazione e di sovranità. Per lui, lo Stato-nazione non è solo lo Stato o la nazione descritta in modo astratto⁴. È uno Stato e una nazione, certamente, ma radicati in una cultura e dotati di valori comuni. Questa visione, piuttosto tradizionale e che tiene conto dello spessore antropologico e storico del mondo, è presentata in questo libro con un tono assiomatico.

Il carattere distintivo di un assioma, o postulato, è che si possono dedurre dei teoremi da esso, ma esso stesso non è dimostrabile. Tuttavia, presenta un grado di verosimiglianza tale da essere considerato acquisito. Prendiamo il quinto postulato di Euclide: per un punto dato, si può far passare una sola parallela a una retta data. Non è dimostrabile, e le matematiche post-euclidee, con Riemann e Lobačevskij, sono partite da un assioma diverso. Tuttavia, per il senso comune, il quinto postulato di Euclide è molto convincente. Allo stesso modo, affermare che esistono Stati-nazione radicati in culture diverse costituisce un assioma che, sebbene presentato in modo piuttosto dogmatico da Mearsheimer, appare molto verosimile. Dopo tutto, il mondo emerso dalle grandi ondate di decolonizzazione della seconda metà del XX secolo si è organizzato in Stati che non potevano immaginare altro se non cercare di diventare delle nazioni. Basta guardare la composizione dell’ONU per convincersene.

Questo assioma pone un problema: acceca sia Mearsheimer sia i russi; li mette, rispetto ai governi occidentali, in una posizione di incomprensione simmetrica a quella degli occidentali nei confronti della Russia. Nel suo discorso di apertura della guerra del 24 febbraio 2022, Putin ha definito l’America e i suoi alleati come un «impero della menzogna», un’espressione che si discosta molto dal realismo strategico e che evoca piuttosto un avversario smarrito in uno stato psicologico mal definito. Quanto a Mearsheimer, ricordiamo che il suo libro si intitola The Great Delusion. Più forte del termine «illusione», Delusion evoca eventualmente la psicosi o la nevrosi. Il sottotitolo del libro è Liberal Dreams and International Realities. Il progetto americano di espansione «liberale» è presentato come un sogno e, di fronte a questo sogno, c’è una realtà di cui Mearsheimer si presenta come portavoce. Egli tratta i neoconservatori che hanno finito per dominare l’establishment geopolitico americano come noi trattiamo Putin: li psichiatrizza.

Ciò che Putin, praticante delle relazioni internazionali, intuisce con l’espressione «impero della menzogna» ma non riesce a definire completamente, e ciò che Mearsheimer, teorico delle relazioni internazionali, rifiuta completamente di vedere, è una verità molto semplice: in Occidente, lo Stato-nazione non esiste più.

In questo libro, proporrò una interpretazione per così dire post-euclidea della geopolitica mondiale. Non prenderò come acquisito l’assioma di un mondo di Stati-nazione. Utilizzerò invece l’ipotesi della loro scomparsa in Occidente per rendere comprensibile il comportamento degli occidentali.

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Il concetto di Stato-nazione presuppone l’appartenenza delle diverse componenti della popolazione di un territorio a una cultura comune, all’interno di un sistema politico che può essere indifferentemente democratico, oligarchico, autoritario o totalitario. Per essere applicabile, richiede anche che il territorio in questione goda di un grado minimo di autonomia economica; questa autonomia non esclude, ovviamente, gli scambi commerciali, ma questi devono, nel medio o lungo periodo, essere più o meno bilanciati. Un deficit sistematico rende il concetto di Stato-nazione obsoleto, poiché l’entità territoriale considerata può sopravvivere solo grazie alla percezione di un tributo o di una rendita proveniente dall’esterno, senza alcuna contropartita. Solo questo criterio ci consente di affermare, prima ancora dell’analisi approfondita nei capitoli 4-10, che la Francia, il Regno Unito e gli Stati Uniti, il cui commercio estero non è più mai bilanciato, ma sempre in deficit, non sono più completamente degli Stati-nazione.

Uno Stato-nazione che funzioni correttamente presuppone, inoltre, una specifica struttura sociale, che includa una classe media come centro di gravità, quindi più di una semplice buona intesa tra l’élite dirigente e le masse popolari. Siamo ancora più concreti e inseriamo i gruppi sociali nello spazio geografico. Nella storia delle società umane, le classi medie animano, insieme ad altri gruppi, una rete urbana. È grazie a una gerarchia urbana concreta, popolata da una classe media istruita e differenziata, che può emergere lo Stato, sistema nervoso della nazione. Vedremo quanto lo sviluppo tardivo, travagliato e tragico delle classi medie urbane in Europa orientale sia un fattore centrale per spiegare la sua storia fino alla guerra in Ucraina. Vedremo anche come la distruzione delle classi medie abbia contribuito alla disintegrazione dello Stato-nazione americano.

L’idea che uno Stato-nazione possa funzionare solo grazie a classi medie forti, che alimentano e nutrono lo Stato, richiama fortemente la Polis equilibrata di Aristotele. Ecco come egli parla delle classi medie nella sua Politica:

«Ma il legislatore deve sempre fare spazio, nella sua costituzione, alla classe media: se stabilisce leggi oligarchiche, non perderà di vista la classe media; se le sue leggi sono democratiche, deve guadagnarsela con le sue leggi. Ovunque la classe media superi numericamente i due estremi insieme o uno dei due da solo, ci sarà un governo stabile. Non c’è infatti da temere che i ricchi si uniscano ai poveri contro la classe media: nessuno dei due gruppi accetterà di essere schiavo dell’altro e, se cercano una forma di governo che serva meglio l’interesse comune, non ne troveranno una migliore di questa, poiché non sopporterebbero, a causa della loro reciproca diffidenza, di comandare a turno; ovunque, infatti, colui che ispira più fiducia è l’arbitro; e l’arbitro qui è colui che ha una posizione intermedia⁵».

Proseguiamo, senza aspirare ad alcuna originalità, il nostro inventario dei concetti la cui articolazione consente l’esistenza stessa dello Stato-nazione. Senza una coscienza nazionale, per definizione, non esiste più lo Stato-nazione, ma qui sfioriamo la tautologia.

Nel caso dell’Unione europea, un superamento della nazione è abbastanza facile da accettare, poiché è al centro stesso del progetto, anche se la forma che ha assunto non è quella che era stata prevista. Ciò che è curioso è la pretesa delle élite europee di far coesistere il superamento della nazione e la sua persistenza. Nel caso degli Stati Uniti, non è ufficialmente previsto alcun superamento della nazione. Tuttavia, come vedremo, il sistema americano, pur essendo riuscito a sottomettere l’Europa, soffre spontaneamente dello stesso male: la scomparsa di una cultura nazionale condivisa sia dalle masse sia dalle classi dirigenti. L’implosione, avvenuta gradualmente, della cultura WASP (bianca, anglosassone e protestante) a partire dagli anni ‘60 ha creato un impero privo di un centro e di un progetto, un organismo essenzialmente militare diretto da un gruppo senza cultura (nel senso antropologico del termine) che non ha più come valori fondamentali altro che la potenza e la violenza. Questo gruppo è generalmente designato con l’espressione “neocon”. È piuttosto ristretto, ma si muove all’interno di una classe superiore atomizzata, priva di norme comuni, e ha una grande capacità di creare disordine geopolitico e storico.

L’evoluzione sociale dei paesi occidentali ha indotto un rapporto difficile delle élite con la realtà. Tuttavia, non ci si può limitare a classificare le azioni “post-nazionali” come folli o incomprensibili; questi fenomeni hanno una loro logica. Si tratta di un mondo diverso, di un nuovo spazio mentale che dobbiamo definire, studiare e comprendere.

Torniamo a Mearsheimer e al suo video fondamentale del 3 marzo 2022. In esso, egli prevedeva, come già detto, una inevitabile vittoria dei russi, poiché per loro la questione ucraina era esistenziale, mentre non lo era per gli Stati Uniti. Ma se ci liberiamo dall’idea che gli Stati Uniti siano uno Stato-nazione e accettiamo che il sistema americano sia diventato qualcosa di totalmente diverso; che il livello di vita degli americani dipende da importazioni che le esportazioni non riescono più a coprire; che l’America non ha più una classe dirigente nazionale nel senso classico; che non ha nemmeno più una cultura centrale ben definita, ma che esiste una gigantesca macchina statale e militare, altre ipotesi diventano plausibili, oltre al semplice ritiro di uno Stato-nazione che accetterebbe, dopo i suoi ritiri dal Vietnam, dall’Iraq e dall’Afghanistan, una nuova sconfitta in Ucraina, per interposta Ucraina.

Bisogna forse vedere negli Stati Uniti, più che uno Stato-nazione, uno Stato imperiale? Molti l’hanno fatto. Gli stessi russi non si privano di questa lettura. Ciò che chiamano “Occidente collettivo”, in cui gli europei non sono che vassalli, è una sorta di sistema imperiale pluralistico. Tuttavia, l’uso del concetto di impero richiede il rispetto di certi criteri: un centro dominante e una periferia dominata. Questo centro è supposto possedere una cultura comune delle élite e una vita intellettuale ragionevole. Ma non è più così negli Stati Uniti.

Possiamo allora parlare di uno Stato “basso-imperiale”? Il parallelo tra gli Stati Uniti e la Roma antica è affascinante. Avendo tentato questa via nel mio libro Après l’empire, osservavo che Roma, rendendosi padrona dell’intero bacino mediterraneo e improvvisando una sorta di prima globalizzazione, aveva anch’essa liquidato la propria classe media⁶. L’afflusso massiccio in Italia di grano, prodotti manifatturati e schiavi aveva distrutto la piccola agricoltura e l’artigianato, in un modo che ricorda la scomparsa della classe operaia americana sotto la pressione dei prodotti cinesi. In entrambi i casi, forzando un po’ la realtà, si può dire che sia emersa una società polarizzata tra una plebe economicamente inutile e una plutocrazia predatrice. La via di una lunga decadenza era tracciata e, nonostante alcuni sussulti, inevitabile.

Tuttavia, il termine “basso-imperiale” non è del tutto soddisfacente a causa della novità di molti elementi attuali: l’esistenza di Internet, la velocità delle evoluzioni (incomparabile con il passato) e la presenza intorno agli Stati Uniti di nazioni gigantesche come la Russia e la Cina (l’Impero romano non aveva vicini comparabili; a parte la lontana Persia, era, per così dire, solo nel suo mondo). Infine, una differenza fondamentale: il Basso Impero vide l’affermarsi del cristianesimo. Una delle caratteristiche essenziali della nostra epoca è la scomparsa totale del substrato cristiano, un fenomeno storico cruciale che, per inciso, spiega la dissoluzione delle classi dirigenti americane. Ci ritorneremo più avanti: il protestantesimo, che in buona parte aveva contribuito alla forza economica dell’Occidente, è morto. Questo fenomeno, tanto massiccio quanto invisibile, vertiginoso non appena vi si riflette, sarà uno degli elementi chiave, se non la chiave decisiva, per spiegare le attuali turbolenze mondiali.

Per tornare al nostro tentativo di classificazione, sarei tentato di parlare, a proposito degli Stati Uniti e delle loro dipendenze, di uno Stato post-imperiale: se l’America conserva la macchina militare dell’impero, non ha più al suo centro una cultura che porti con sé intelligenza, ed è per questo che si dedica in pratica ad azioni sconsiderate e contraddittorie, come un’espansione diplomatica e militare in una fase di massiccia contrazione della sua base industriale, sapendo che «guerra moderna senza industria» è un ossimoro.

Osservo fin dal 2002 (anno di Après l’empire) l’evoluzione degli Stati Uniti. Allora speravo che potessero ritornare a una forma di grande Stato-nazione, quale erano nella loro fase imperiale positiva tra il 1945 e il 1990, di fronte all’URSS. Oggi, dovendo prendere atto della morte del protestantesimo, devo ammettere che questa rinascita è impossibile, il che non fa altro che verificare un fenomeno storico piuttosto generale: l’irreversibilità della maggior parte dei processi fondamentali. Questo principio si applica qui a diversi campi essenziali: alla sequenza «fase nazionale, poi imperiale, poi post-imperiale»; all’estinzione religiosa, che ha finito per portare alla scomparsa della moralità sociale e del senso di appartenenza collettiva; a un processo di espansione geografica centrifuga combinato con una disintegrazione del nucleo originario del sistema. L’aumento della mortalità negli Stati Uniti, specificamente negli stati interni repubblicani o trumpiani, mentre centinaia di miliardi di dollari vengono inviati a Kiev, è caratteristico di questo processo.

In La Chute finale (1976) e in Après l’empire (2002) (due libri che speculavano su futuri crolli sistemici), avevo usato rappresentazioni “razionalizzanti” della storia umana e dell’attività degli Stati⁷. In Après l’empire, ad esempio, interpretavo l’agitazione diplomatica e militare degli Stati Uniti come un “micromilitarismo teatrale”, una postura volta a dare, a costi ragionevoli, l’impressione che l’America fosse ancora indispensabile al mondo dopo la caduta dell’Unione Sovietica. In fondo, era una supposizione di potere razionale. In questo libro, terrò ovviamente conto degli elementi che rientrano nella geopolitica classica: livello di vita, forza del dollaro, meccanismi di sfruttamento, rapporti di forza militari oggettivi, un universo che è più o meno razionale in superficie. La questione del livello di vita americano e del rischio che potrebbe correre in caso di crollo sistemico sarà molto presente. Tuttavia, abbandonerò l’ipotesi esclusiva di una ragione razionale e proporrò una visione ampliata della geopolitica e della storia, che integri meglio ciò che nell’uomo è assolutamente irrazionale, in particolare i suoi bisogni spirituali.

I capitoli che seguono tratteranno quindi anche della matrice religiosa delle società, delle soluzioni che l’uomo ha cercato di trovare al mistero della propria condizione e alla sua difficoltà di essere accettata; delle tribolazioni che può provocare la disgregazione finale della matrice religiosa cristiana in Occidente e, in particolare, della sua variante protestante. Non tutto ciò che ne deriva sarà presentato come negativo, e questo libro non è un’opera di pessimismo radicale. Tuttavia, vedremo emergere un “nichilismo” che ci occuperà a lungo. Ciò che chiamerò “stato religioso zero” produrrà, nei casi peggiori, una divinizzazione del vuoto.

Utilizzerò il termine “nichilismo” in un’accezione che non è necessariamente la più comune e che ricorderà piuttosto – non a caso – il nichilismo russo del XIX secolo. È su una base nichilista che America e Ucraina si sono associate, anche se questi due nichilismi derivano da dinamiche concrete piuttosto diverse. Il nichilismo, così come lo intendo io, ha due dimensioni fondamentali. La più visibile è quella fisica: una pulsione di distruzione delle cose e delle persone, una nozione talvolta molto utile quando si studia la guerra. La seconda dimensione è concettuale, ma non meno essenziale, soprattutto quando si riflette sul destino delle società e sulla reversibilità o meno del loro declino: il nichilismo tende irresistibilmente a distruggere la nozione stessa di verità, a impedire qualsiasi descrizione ragionevole del mondo. Questa seconda dimensione si avvicina, in qualche modo, all’accezione più comune del termine, che lo definisce come un amorale che deriva da un’assenza di valori. Avendo un temperamento scientifico, faccio fatica a distinguere tra le coppie concettuali bene/male e vero/falso; ai miei occhi, questi due binomi sono spesso intrecciati.

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Così si trovano di fronte due mentalità. Da un lato, il realismo strategico degli Stati-nazione, dall’altro, la mentalità post-imperiale, emanazione di un impero in disintegrazione. Nessuna delle due coglie l’intera realtà, poiché la prima non ha compreso che l’Occidente non è più costituito da Stati-nazione, ma è diventato qualcos’altro; e la seconda è diventata impermeabile all’idea di sovranità nazionale. Tuttavia, le prese sulla realtà dell’una e dell’altra non sono equivalenti, e l’asimmetria gioca a favore della Russia.

Come ha mostrato Adam Ferguson, uno degli illuministi scozzesi, nel suo Essay on the History of Civil Society (1767), i gruppi umani non esistono in sé, ma sempre in rapporto ad altri gruppi umani equivalenti. Anche sull’isola più minuscola e remota, spiega, purché abitata, si troveranno sempre due gruppi umani che si fronteggiano. La pluralità dei sistemi sociali è consustanziale all’umanità, e questi sistemi si organizzano gli uni contro gli altri. «I titoli di concittadini e compatrioti», scrive Ferguson, «se non si opponessero a quelli di straniero e allogeno […] cadrebbero in disuso e perderebbero il loro significato. Amiamo gli individui per le loro qualità personali; ma amiamo la nostra patria in quanto essa è una parte nelle divisioni dell’umanità […]⁸».

L’emergere della Francia e dell’Inghilterra ne offre una splendida illustrazione. Durante il Medioevo, queste due entità statali della valle della Senna si definirono l’una contro l’altra. In seguito, per noi francesi, l’avversario sostitutivo fu la Germania, principale rivale anche dell’Inghilterra alla vigilia della guerra del 1914.

Una delle tesi chiave di Ferguson è che la moralità interna di una società è legata alla sua immoralità esterna. È l’ostilità verso un altro gruppo che crea la solidarietà all’interno del proprio. «Senza la rivalità tra le nazioni e la pratica della guerra», scrive, «la stessa società civile avrebbe difficilmente potuto trovare un obiettivo o una forma⁹». E precisa che «[è] vano sperare di dare alla moltitudine di un popolo un senso di unione in assenza di ostilità verso coloro che gli si oppongono. Se, d’un tratto, si spegnesse l’emulazione che è alimentata dall’estraneo, probabilmente si spezzerebbero o indebolirebbero i legami sociali interni e si chiuderebbero le scene più animate dell’attività e delle virtù nazionali¹⁰».

L’attuale sistema occidentale aspira a rappresentare la totalità del mondo e non riconosce più l’esistenza di un “altro”. Ma la lezione di Ferguson è che se non si riconosce più l’esistenza di un “altro” legittimo, si smette di esistere. La forza della Russia, al contrario, risiede nel pensare in termini di sovranità e di equivalenza delle nazioni: tenendo conto dell’esistenza di forze ostili, può garantire la propria coesione sociale.

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Il paradosso di questo libro è che, partendo da un’azione militare della Russia, ci condurrà alla crisi dell’Occidente. L’analisi della dinamica sociale russa degli anni 1990-2022, con cui inizierò, si rivelerà semplice e facile. Le traiettorie dell’Ucraina e delle ex democrazie popolari, pur essendo a loro modo paradossali, non appariranno comunque molto complicate. Al contrario, l’esame dell’Europa, del Regno Unito e ancor più degli Stati Uniti sarà un esercizio intellettuale più difficile. Dovremo confrontarci con illusioni, riflessi e miraggi prima di penetrare nella realtà di ciò che sempre più somiglia a un buco nero: oltre alla spirale discendente dell’Europa, troveremo, nel Regno Unito e negli Stati Uniti, squilibri interni di tale portata da costituire minacce alla stabilità globale.

Ultimo paradosso: dovremo ammettere che la guerra, esperienza di violenza e sofferenza, regno della stupidità e dell’errore, è anche un banco di prova della realtà. La guerra ci fa passare dall’altra parte dello specchio, in un mondo in cui l’ideologia, le illusioni statistiche, le carenze dei media e le menzogne degli Stati, senza dimenticare i deliri complottisti, perdono progressivamente il loro potere. Una verità semplice emergerà: la crisi occidentale è il motore della storia che stiamo vivendo. Alcuni lo sapevano già. Al termine della guerra, nessuno potrà più negarlo.

NOTE

¹ David Teurtrie, Russie. Le retour de la puissance, Dunod, 2021.
² Weber definisce lo Stato come il detentore del monopolio della violenza legittima; Hobbes descrive lo stato di natura come una guerra di tutti contro tutti.
³ Tatiana Kastouéva-Jean, «La sovranità nazionale nella visione russa», Revue Défense nationale, n. 848, marzo 2022, pp. 26-31.
⁴ Pubblicato da Yale University Press: non siamo quindi alla periferia del sistema americano.
⁵ Aristotele, Politica, Les Belles Lettres, 1989, vol. II, p. 174.
⁶ Emmanuel Todd, Après l’empire. Essai sur la décomposition du système américain, Gallimard, 2002; riedizione «Folio actuel», con una postfazione inedita dell’autore, 2004, pp. 94-95.
⁷ Emmanuel Todd, La Chute finale. Essai sur la décomposition della sfera sovietica, Robert Laffont, 1976; nuova edizione ampliata, 1990.
⁸ Adam Ferguson, An Essay on the History of Civil Society, Cambridge University Press, 1996, p. 25.
⁹ Ibid., p. 28.
¹⁰ Ibid., p. 29.

Dall’introduzione a Emmanuel Todd, La Défaite de l’Occident [La sconfitta dell’Occidente], Paris, Gallimard, gennaio 2024. Inedito in Italia

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