“Sardegna come un’infanzia” di Elio Vittorini è un reportage che si trasforma in diario intimo, narrando un viaggio nell’isola sarda attraverso una proiezione memoriale e sensoriale. La Sardegna, descritta come un Eden primordiale, diventa per Vittorini una terra mitica che risveglia ricordi d’infanzia e riflessioni sulla propria identità e condizione umana. Il racconto è punteggiato da meditazioni socio-esistenziali, senza trascurare riferimenti storici e culturali, come il lavoro nelle miniere di Iglesias o la visita alla Caprera di Garibaldi. Il linguaggio è lirico e visivo, denso di suggestioni stilistiche e plastiche.
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di Raffaele Crovi
Dei due testi che compongono Sardegna come un’infanzia la parte che in origine si chiamò «Quaderno sardo» e poi «Viaggio in Sardegna» (nell’edizione Fratelli Parenti del ’36) fu scritta nell’autunno del ’32 e «Nei Morlacchi», la parte ora in appendice, nell’edizione definitiva del libro, fu scritta nell’autunno del ’33. Il primo testo, nella edizione definiva del ’52, è stato sottoposto a capillare revisione stilistica. Io non analizzerò le varianti (è compito dei filologi); la mia didascalia critica fa riferimento all’edizione del ’52; per me, dei testi vittoriniani valgono le versioni definitive predisposte dall’autore.
Sardegna come un’infanzia ha suggerito ai critici un raffronto con Sea and Sardinia (del 1921) di D.H. Lawrence (di cui Vittorini tradusse alcuni testi narrativi); il confronto mi pare improprio: nel ’30 Vittorini non aveva ancora «scoperto» Lawrence (al quale Vittorini non ha mai dedicato note critiche e che ha giudicato sbrigativamente un’impressionista, più «profeta che scrittore»); cominciò a tradurlo (su commissione) e di lui disse che «traducendo ho imparato a detestare questo balbuziente scrittore» (lettera ad Antonini del 20 luglio ’33). Se un confronto (stilistico e tematico) deve proprio essere studiato (dai futuri giovani critici) suggerisco di farlo con la raccolta di poesie Acqua e terre di Salvatore Quasimodo (pubblicata nel ’30) che Vittorini lesse con interesse attribuendole buon credito; e non andrà trascurata la suggestione stilistica (per una sensitività tutta visiva) operata su Vittorini dalla narrativa di Comisso o dalla pittura di De Pisis (e Raffaella Rodondi ha acutamente affermato che il testo è «denso di riferimenti all’Anabasi e al tempo stesso pervaso di un’“aura” comissiana»).
L’incipit di Sardegna come un’infanzia è questo: «Io so cosa vuol dire essere felice nella vita – e la bontà dell’esistenza, il gusto dell’ora che passa e delle cose che si hanno intorno, pur senza muoversi, la bontà di amarle, le cose, fumando, e una donna in esse. Conosco la gioiti di un pomeriggio d’estate a leggere un libro d’avventure cannibalesche seminudo in una chaiselongue davanti a una casa di collina che guardi il mare. E molte altre gioie insieme; di stare in un giardino in agguato e ascoltare che il vento muove le foglie appena (le più alte) di un albero; o in una sabbia sentirsi screpolare e crollare infinita esistenza di sabbia; o nel mondo popolato di galli levarsi prima dell’alba e nuotare, solo in tutta l’acqua del mondo, presso a una spiaggia rosa. E io non so cosa passa sul mio volto in quelle mie felicità, quando sento che si sta così bene a vivere: non so se una dolcezza assonnata o piuttosto sorriso. Ma quanto desiderio d’avere cose! Non soltanto mare o soltanto sole e non soltanto una donna e il cuore di lei sotto le labbra. Terre anche! Isole» (SI).
E il viaggio in quest’isola, la Sardegna, è per lo scrittore un’«indimenticabile vita, come un’infanzia. E della mia infanzia fa parte ormai, di quel nulla, di quella favola». La visitazione dell’isola avviene per terra e per mare, per auto e per nave («questo è bello: avere una nave quasi per conto proprio e nello stesso tempo essere soggetti alle soste, agli approdi, ai veri e propri scopi di una vera navigazione»). Il viaggio si svolge da Terranova all’altopiano di Gallura, da Tempio all’altopiano di Anglona, da Castelsardo a Sennori, da Sassari a Macomer, da Nuoro a Oliena, da Abbasanta a Oristano, da Arborea a Iglesias, da Cagliari a Sant’Antioco, da Carloforte a Bosa, da Alghero a Porto Torres, da Palau all’Isola di Caprera, con rientro finale a Terranova. Vittorini riscopre, in Sardegna, una realtà ancestrale, un mondo mitico, come Robert Flaherty nei suoi documentari cinematografici: «ogni cosa nella Sardegna» scrive Vittorini «diventa immemoriale e rimonta alla creazione della terra». Sardegna come Eden, Sardegna come terra di Robinson, Sardegna alla fine come mondo: «Là è il mare […] Disabitato come la luce del Primo Giorno»; «Ad ogni tetto ch’egli mostra, la soddisfazione fatale, assoluta, d’un Robinson sfavilla dai suoi occhi»; «campanili ora slanciati, ora rotondi ma tronchi come minareti di Persia, ora a molti piani, con balconate di ferro battuto, proprio come le torri delle chiese messicane». La realtà, nella narrazione di Vittorini, ha una continua proiezione memoriale, e la proiezione nella memoria diventa anche indagine nella identità psichica dell’autore (Vittorini aveva letto Dino Campana, non lo ha mai citato, ma è uno degli autori antologizzati in Scrittori nuovi; il viaggio in Sardegna è un viaggio orfico alla Campana); il viaggio nella civiltà e nella propria identità suggerisce poi meditazioni socio-esistenziali: «Il segreto sarebbe di lottare per resistenza, ma senza lasciarsi occupare, dentro, dalla lotta, dall’idealismo di essa […] Altrimenti c’è assai più vera vita in un inerte ruminio». Sardegna come un’infanzia è un reportage che si trasforma via via in un diario intimo. I riferimenti storici e socioeconomici sono limitati, ma non assenti: «ad Iglesias dove i sardi lavorano nelle miniere […] ho visto il nulla della fatica quotidiana. Fatica che serve a un tozzo di pane e tozzo di pane che serve alla fatica. Come di schiavi in una cava cartaginese» (e Vittorini paragonava spesso il suo lavoro di traduttore a quello di un minatore).
Non mancano, infine, le note di costume, come quella suggerita dalla visita dell’isola di Caprera: «Una strana isola Caprera coi suoi pinastri selvatici. Al sole della tempesta, andiamo veloci nella brughiera, poi attraverso un bosco nell’aroma delle fronde infradiciate, al di sopra delle quali palpitano l’ali d’un gabbiano. In radura scorgiamo il gruppo felice delle casette che si fabbricò Garibaldi. Bianche e rustiche, qualcuna di legno, tutte basse a pianterreno, elevate intorno a un patio. Casette così poteva sognarle un bambino, ai tempi che si leggeva Giulio Verne. Fabbricate pensando alle farfalle ch’entreranno dall’orto accanto nelle stanze, mentre la felice famiglia è a tavola. Curioso Garibaldi! Non fu retorica ritirarsi qui, da Cincinnato. Forse non ci pensò nemmeno alla vignetta famosa dei testi di storia patria. Altro che! Venne a farsi re in Sardegna, anche lui come Brancaleone Doria e il Della Gherardesca, alla stessa stregua di sovranità del doganiere che vidi, ieri l’altro, sulla spiaggia d’Oristano. E c’era il piacere d un ragazzo, in lui, che gioca a Robinson. L’aratro, il banco da falegname, la barca: tutto questo fa pensare all’aperta gioia dei quattordici anni. E certe piccole cose nelle stanze: un paracamino fatto con illustrazioni di riviste inglesi, un veliero in bottiglia, un pappagallo impagliato» (SI). Quel che colpisce, tuttavia, di Sardegna come un infanzia è il suo linguaggio, insieme plastico e lirico, creazione inconfondibile dell’estro vittoriniano: il Limbara «crepita, si sfalda nel sole»; Gallura «con le sue cateratte di granito»; «Nell’aria ce n’è l’odore: del sole. Di fuoco puro, privo di ogni acredine di combustibile. E di pietra secca. Ma di brughiera anche. E di spoglie di serpi. Odore di Sardegna»; «Due uomini a cavallo, armati di fucile, passano rasenti alla macchina e uno guarda quasi dentro, con un volto da cimbro che cerchi qualche barba di senatore romano da tirare, ma vedo che alle spalle ha una piccola femminile compagna che col braccio gli cinge la vita. Delicata e viva cintura. E con questo contatto d’amplesso egli cavalca, oscuramente occupato dal pensiero della sua alcova». La prosa-versificata o il poemetto in prosa Nei Morlacchi non fa che confermare, con i suoi lampeggiamenti visivi simbolici, questo lirismo plastico.
Raffaele Crovi, Il lungo viaggio di Vittorini. Una biografia critica, Marsilio, 1998