Con l’8 settembre 1943 gli ebrei italiani, già duramente colpiti dalla legislazione razzista messa in atto a partire dall’autunno 1938 dal regime monarchico fascista, vengono direttamente coinvolti dalla macchina concentrazionaria nazionalsocialista. Obiettivo privilegiato dei nazisti è Roma, dove da secoli vive la più consistente comunità ebraica d’Italia. Il 28 settembre il presidente della Comunità romana, Ugo Foà, e quello dell’Unione delle Comunità israelitiche d’Italia, Guido Almansi, vengono convocati, tramite la polizia italiana, nell’ufficio del maggiore SS Herbert Kappler, dal 1936 a Roma in qualità di addetto di polizia presso l’ambasciata tedesca di Roma. Kappler, nel frattempo diventato responsabile della sede romana della Sipo, la polizia di sicurezza nel cui ambito opera la Gestapo, pretende dai due esponenti la consegna di 50 chili d’oro entro 36 ore, minacciando in caso contrario di deportare 200 ebrei in Germania. Almansi e Foà tentano vanamente di trovare una qualche difesa presso le autorità di polizia italiane e poi, vista l’inutilità dei loro sforzi, si accingono a organizzare la raccolta. Grazie ai contributi delle famiglie della comunità ed anche di non pochi cattolici la quantità pretesa viene messa insieme in gran fretta. La Santa Sede fa sapere, in via confidenziale, di essere disposta a prestare quanto dovesse mancare, che sarà poi rimborsato dalla Comunità quando sarà in grado di farlo. L’offerta è gradita, ma non sarà necessario farvi ricorso. Giunto il momento della consegna, Almansi e Foà chiedono vi assista, come garante, il commissario di PS Gennaro Cappa. Ricevuto l’oro, Kappler lo farà recapitare di lì a qualche giorno al suo superiore diretto, Ernst Kaltenbrunner, che aveva sostituito Reinhard Heydrich alla guida dell’ufficio centrale per la sicurezza del Reich (RSHA). Nonostante le loro richieste fossero state esaudite, il 29 settembre, appena 24 ore dopo aver ricevuto l’oro, un gruppo di militi della SS fa irruzione nei locali della Comunità e preleva documenti di vario genere, schedari e il denaro contante che vi era custodito. Due settimane dopo, il 13 ottobre, analoga sorte tocca alle biblioteche della Comunità e del Collegio rabbinico: una squadra di SS fa man bassa di libri antichi e preziosi, che di lì a poco sarebbero stati spediti per treno a Monaco di Baviera. Avrebbero riempito ben due carri merci! Inutile l’intervento della Comunità presso il ministero della Pubblica Istruzione, che venne messo al corrente del fatto che i volumi sottratti erano “pregevolissimo materiale archivistico (manoscritti, incunaboli, soncinati, stampe orientali del 500, interessanti esemplari di libri ebraici, ecc.) del quale, ove le disposizioni delle autorità tedesche, che evidentemente intendono asportare tutto il prezioso materiale archivistico in Germania, fossero attuate, l’Italia verrebbe ad essere privata”. I funzionari del ministero fanno orecchio da mercante.
Ma nuvole ben più tempestose si stavano addensando: all’inizio di ottobre era giunto nella capitale un gruppo d’intervento (Einsatzkommando) della SS, forte in tutto di una decina di persone poste sotto la guida dal capitano della SS e della polizia (Hauptsturmführer) Theodor Dannecker. Stretto collaboratore del capo dell’ufficio IV B 4 (Questioni riguardanti gli ebrei) all’Interno dell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich (Reichssicherheitshauptamt, abbreviato RSHA), Adolf Eichmann, Dannecker aveva in precedenza operato nella Francia occupata, dove dall’autunno 1940 fino al settembre 1942 aveva organizzato la deportazione degli ebrei francesi, ed ora era stato inviato a Roma per avviare la deportazione di quelli italiani, in attesa che anche nei territori nominalmente controllati dalla RSI mussoliniana si strutturasse, come negli altri paesi europei occupati dalla Wehrmacht, una succursale del RSHA (per l’Italia sarebbe stata aperta a Verona il successivo 30 gennaio). L’Hauptsturmführer Dannecker ha una considerevole esperienza, ma nulla sa di Italia e di Roma; può tuttavia giovarsi dell’ampia
schedatura degli ebrei residenti (italiani e non) che l’Italia monarchico-fascista aveva attuato dal 1938 in poi, nonché della collaborazione fraterna di una squadra di agenti della questura romana (al comando del commissario di PS Cappa, lo stesso a cui la Comunità aveva chiesto di fare da garante nella consegna dell’oro!), che gli prepara un indirizzario completo dei ebrei romani.
I trecentosessantacinque poliziotti tedeschi, in parte della Sipo, in parte della polizia militare (la Wehrmacht non prese perciò alcuna distanza dal rastrellamento, vi collaborò al contrario in modo attivo), in parte della polizia dell’ordine Orpo, che si scatenano all’alba del 16 sanno quindi perfettamente dove andare. La grande razzia comincia attorno alle 5,30. Le SS entrano di casa in casa arrestando intere famiglie in gran parte sorprese ancora nel sonno. Quando le porte non vengono subito aperte le abbattono col calcio dei fucili o le forzano con leve di ferro. Tutte le persone prelevate sono raccolte provvisoriamente in uno spiazzo che si trova poco al di là dello storico Portico d’Ottavia, attorno ai resti del Teatro di Marcello. La maggior parte degli arrestati sono adulti, spesso anziani e assai più spesso vecchi. Molte le donne, i ragazzi, i fanciulli. Non viene fatta nessuna eccezione né per persone malate o impedite, né per le donne in stato interessante, né per quelle che avevano bimbi ancora lattanti. Nessun quartiere della città è risparmiato. In quelli di Trastevere, Monteverde e Testaccio, i più prossimi all’ex Ghetto, si verifica il maggior numero di arresti. Alle ore 14 la grande razzia è terminata. I catturati sono 1259: 363 uomini, 689 donne, 207 bambini.Tutti sono provvisoriamente sistemati nei locali del Collegio Militare, il vasto e massiccio edificio in Via della Lungara, dominato dal Gianicolo. Gli uomini separati dalle donne e dai bambini.
All’alba di domenica, dopo un esame minuzioso delle carte di identità e di altri documenti, vengono liberati i coniugi e i figli di matrimonio misto, i coinquilini e il personale di servizio non ebrei che al momento della retata si erano trovati nelle case dei ricercati. In tutto 237 persone. Dei 1022 rimasti, una sola persona non è ebrea. È una donna che per non abbandonare un orfano ebreo ammalato che era stato affidato alle sue cure non ha l’animo di dichiararsi non ebrea e preferisce seguire la sua sorte. Né il bimbo né la sua protettrice sarebbero più tornati.
All’alba di lunedì 18 ottobre i prigionieri sono trasferiti su autocarri dal Collegio Militare allo scalo merci della stazione ferroviaria Tiburtina. Su un binario morto si trovava da alcuni giorni un convoglio composto da 18 carri bestiame. Gli arrestati vengono tutti stipati nei vagoni: 50 o 60 su ogni carro, in uno spazio insufficiente. Prima che il convoglio si muovesse avrebbero dovuto attendere 6 ore. Alle ore 23 di venerdì 22 ottobre, dopo un viaggio di 6 giorni e 6 notti, il treno arriva al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. A nessuno è permesso scendere fino al giorno successivo, 23 ottobre. I vagoni rimangono sigillati e sotto scorta per tutta la notte.
Una volta che agli ebrei romani, stravolti dalla fatica e tormentati da fame, sete, sporcizia accumulata durante il viaggio è concesso di scendere comincia la selezione: 839 (l’82%!) sono destinati alla camera a gas ed eliminati immediatamente (tra loro, naturalmente gli anziani, i bambini, quasi tutte le donne). Gli altri 183 vengono utilizzati come lavoratori schiavi. Alla liberazione del campo solo 17 sarebbero stati ancora in vita, tra loro una sola donna (delle 50 risparmiate al momento della selezione). Il rastrellamento del 16 ottobre avviene praticamente sotto gli occhi del Vaticano; di lì a poche ore l’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede Ernst von Weizsäcker è convocato presso la Segreteria di Stato il cui titolare, cardinale Maglione, gli chiede “di voler intervenire a favore di quei poveretti”, chiarendo che “la Santa Sede non vorrebbe essere messa nella necessità di dire la sua parola di disapprovazione”.
Effettivamente, di pubbliche parole di disapprovazione non ne sarebbero proprio state pronunciate; nell’edizione del 25/26 ottobre l’Osservatore Romano avrebbe accennato in modo molto ma molto vago alla deportazione degli ebrei romani (in gran parte già uccisi ad Auschwitz 48 ore prima). Il segnale è colto da von Weizsäcker, che il 28 telegrafa a Berlino come si possa “ritenere che la questione spiacevole per il buon accordo tedesco-vaticano sia liquidata”. Liquidata come la grande maggioranza dei deportati! Naturalmente, la decisione della Curia romana di non condannare apertamente la razzia nulla toglie alla solidarietà mostrata nei confronti degli ebrei braccati da parte di molti cittadini romani di differente fede, di religiosi cattolici, di chiese e di conventi, solidarietà che per molti volle dire una concreta possibilità di salvarsi, rappresenta però una pesante responsabilità storica e morale che non è lecito né opportuno sottacere.
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IL RAPPORTO DI KAPPLER AL GENERALE WOLFF
Ecco quanto Herbert Kappler scrisse al generale Karl Wolff, rappresentante personale di Himmler in Italia.
«Oggi è stata iniziata e conclusa l’azione antiebraica seguendo un piano preparato a tavolino che consentisse di sfruttare al meglio la situazione. Sono state messe in azione tutte le forze a disposizione della polizia di sicurezza e di ordine. Tenuto conto della nostra assoluta sfiducia nella polizia italiana per una simile azione, non è stato possibile chiamarla a partecipare. Perciò sono stati possibili singoli arresti con 26 azioni di quartiere in immediata successione. Non è stato possibile isolare completamente le strade, sia per tener conto del noto carattere di Città Aperta, e soprattutto anche per l’insufficiente quantità di poliziotti tedeschi, in tutto 365. Malgrado ciò, nel corso delazione che durò dalle 5.30 fino alle 14.00 vennero arrestati in abitazioni ebree 1259 individui, e accompagnati nel centro di raccolta della Scuola Militare. Dopo la liberazione dei meticci e degli stranieri (compreso un cittadino vaticano), delle famiglie di matrimoni misti compreso il coniuge ebreo, del personale di casa ariano e dei subaffittuari, restarono detenuti 1007 Giudei.
Trasporto fissato per lunedì 18 ottobre ore 9. Accompagnamento di 30 uomini della polizia di ordine.
Comportamento della popolazione italiana chiaramente di resistenza passiva, che in un gran numero di casi singoli si è mutata in prestazioni di aiuto attivo.
Per es. in un caso, i poliziotti vennero fermati alla porta di un’abitazione da un fascista in camicia nera, con un documento ufficiale il quale senza dubbio si era sostituito nella abitazione ebrea usandola come propria un’ora prima dell’arrivo delle forze tedesche.
Si poterono osservare chiaramente anche dei tentativi di nascondere gli ebrei in abitazioni vicine, all’irrompere delle nostre unità, ed è comprensibile che, in parecchi casi, questi tentativi abbiano avuto successo. Durante l’azione non è apparso segno di partecipazione della parte antisemita della popolazione: ma solo una massa amorfa che in qualche caso singolo ha anche cercato di tener lontane le nostre squadre dagli ebrei.
In nessun caso si è fatto uso di armi da fuoco.»
(Dal rapporto ufficiale sulla razzia di Roma a firma Kappler inviato via radio il 16 ottobre 1943 al generale delle SS Wolff)
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Nessuna pietà per i malati, per gli anziani e per i bambini
In via Brescia al n. 29 i tedeschi si avvicinano al letto dove giace Sofia Soria vedova Tabet, puntandole un’arma per sollecitarla ad alzarsi.
La donna, che ha 92 anni, muore per lo spavento. Le SS tornano due giorni dopo al suo funerale, sperando di arrestare i famigliari.
Giulio Anau ricorda che un parente, Beniamino Philipson, è prelevato nella sua abitazione di via Flavia 84 sulla sedia a rotelle di invalido, perché da molti anni colpito da morbo di Parkinson, “tra la indignazione dei presenti impotenti tuttavia di fronte ai mitra spianati”.
In via Adalberto, non lontano da piazza Bologna, le SS non trovano nessuno: solo un bimbo di quattro anni – Ennio Lanternai – che dorme nel letto dei nonni in quel momento assenti. Le SS lo prendono, il bambino si sveglia spaventato e comincia a piangere.
Intanto rientra la nonna che era scesa un momento per comprare qualcosa. Prendono lei e il nipotino.
Settimio Calò si salva. Anche lui era uscito di casa per fare la fila per le sigarette, ma quando torna nella sua casa, non trova più nessuno. Né la moglie né i dieci figli, il più grande dei quali aveva 21 anni e il più piccolo, Samuele, ancora lattante, 4 mesi. «Mi gettai contro le porte – racconta – volevo unirmi agli altri, non capivo più niente… poi mi sedetti a terra e cominciai a piangere.
Ho vissuto solo perché ho sempre sperato di riaverne almeno uno, magari Samuele. Rimasi vivo io solo e vorrei essere morto».
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La sopravvissuta
La testimonianza di Settimia Spizzichino, unica donna sopravvissuta
Delle cinquanta donne destinate al lavoro una sola sopravvive: Settimia Spizzichino. Allora ha 22 anni ed è presa con la madre e due sorelle in via della Reginella. Solo il padre si salva dalla retata. Sulla sorte delle 49 compagne che non sono più tornate la Spizzichino pensa che “la neve, i lavori pesanti, la cattiva alimentazione, tutto ha contribuito alla decimazione”. Settimia si è salvata perché era stata avviata ad un “blocco di esperimenti” e “fu aiutata da una infermiera di buon cuore”.
Quando viene liberata ha 24 anni e pesa 30 chili. È persuasa che quello che l’ha aiutata a resistere è stato soprattutto il pensiero che doveva tornare per raccontare.
Fonte: Bruno Mantelli, l’Unitá, 16 ottobre 2001