Anacoluto

Durante un comizio, un candidato, preoccupato del fenomeno dell’astensionismo, disse: «Quelli che non votano, è a loro che mi rivolgo» […]

Durante un comizio, un candidato, preoccupato del fenomeno dell’astensionismo, disse: «Quelli che non votano, è a loro che mi rivolgo» meritandosi con questo anacoluto una bocciatura in italiano e, mi auguro, anche alle urne. Che cos’è l’anacoluto? È un modo di costruire un periodo senza rispettare i nessi sintattici e deriva dal greco anakóluthos, che non segue, sconnesso. Anacoluto vuol dire, in parole povere, iniziare il discorso con un soggetto e proseguire con un altro. È una specie di deragliamento del pensiero, come è capitato a un presentatore televisivo che disse: «Io, quando mangio la maionese, mi viene l’acquolina in bocca». Dov’è il deragliamento? Nel fatto che si comincia la frase col soggetto io e poi, invece di assegnargli, come sarebbe suo diritto, un predicato verbale, si infila un altro binario mentale (mi viene l’acquolina in bocca) e il povero io rimane solo come un orfanello.

Una associazione per gli interscambi Italia-Usa, annuncia un seminario a Milano, aggiungendo: «Chi volesse presentare una relazione, se perverrà entro il 15 aprile e se sarà ritenuta valida, sarà pubblicata gratuitamente negli atti del seminario». Dubbio legittimo: chi verrà pubblicato gratuitamente, la relazione oppure la persona autrice della relazione? Per fugare tale dubbio bastava scrivere «Chi volesse presentare una relazione, se questa perverrà entro il 15 aprile e se sarà ritenuta valida, la vedrà pubblicata gratuitamente, eccetera».

Tuttavia l’anacoluto non è sempre da condannare. Esso può avere una giustificazione psicologica quando la rottura del filo del discorso avviene sotto l’urgere di una emozione, cosa frequente nel linguaggio familiare e popolare, dove il sentimento prevale sulla razionalità. E ha una giustificazione artistica quando lo scrittore, per dare un palpito di spontaneità alla frase, deliberatamente disobbedisce ai precetti della logica. Quando Giovanni Pascoli, cacciato dalla casa natale dopo l’assassinio del padre, scrive nella poesia Romagna «Io, la mia patria or è dove si vive», sentiamo che il poeta ha felicemente condensato nell’anacoluto, così simile a un singhiozzo, lo strazio di quei giorni. La differenza tra il candidato onorevole, il presentatore televisivo e il Pascoli è che i primi due non sanno di violare la regola, il poeta lo sa. Ma la viola per ottenere un particolare effetto stilistico. Se nel tribunale penale la premeditazione è un’aggravante, nel tribunale letterario essa non solo estingue la colpa, ma la trasforma in uno strumento d’arte.

Cesare Marchi, In punta di lingua. Divagazioni curiosità aneddoti sull’italiano scritto e parlato, Rizzoli, 1992

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