La mattina in cui Jack Kerouac arrivò a Città del Messico nel maggio 1952, trovò William Burroughs immerso in un caos creativo che rispecchiava la natura del romanzo su cui stava lavorando, Queer. Questo libro, considerato uno dei più strani di Burroughs, esplora temi di omosessualità, desiderio e alienazione, intrecciando elementi autobiografici e surrealismo. Nonostante fosse stato scritto nel 1952, Queer fu pubblicato solo nel 1985, rivelando un’opera complessa e sfuggente, caratterizzata da un mix di realismo e fantasia grottesca, che anticipava le tematiche più estreme del suo successivo Pasto nudo.
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«La terrificante conclusione»
La mattina del giorno in cui Jack Kerouac arrivò al 210 di calle Orizaba, il primo sabato del mese di maggio del 1952, le señoras per strada cuocevano tortillas e la radio trasmetteva la musica di Perez Prado. Per ironia, le sonorità della big band del Re del Mambo cubano, in seguito soprannominato il Glenn Miller messicano, rappresentavano una musica d’atmosfera fin troppo blanda per la scena che Kerouac si trovò davanti nell’appartamento numero 5, dove il suo amico William Burroughs gli apparve, in quel mattino di maggio, «come un genio folle in un appartamento pieno di spazzatura»: «Stava scrivendo. Aveva un aspetto feroce, però gli occhi erano innocenti, azzurri e bellissimi».1 La descrizione di Kerouac, quell’immagine di Burroughs pazzo furioso in mezzo al caos e insieme figura di stupefacente purezza, riproduce con esattezza la «simultanea doppia esposizione» degli autoritratti che Burroughs fa di sé nel romanzo a cui sta lavorando – «Era una faccia devastata, viziosa e vecchia,» ci viene detto di William Lee «ma gli occhi verde chiaro erano sognanti e innocenti» – e al tempo stesso suggerisce sia la natura paradossale di quel romanzo sia le circostanze in cui venne scritto.
Poiché non ci sono libri «normali» nell’opera di William Burroughs – al punto che ognuno di essi potrebbe intitolarsi Queer –, il suo secondo romanzo risulta perversamente tipico ed è coerente con il significato che assume il titolo, inteso come sostantivo (sinonimo di omosessuale, usato in senso dispregiativo o con fierezza), come aggettivo (strano, fasullo, dubbio) e come verbo (contrariare, snervare, mandare all’aria). Senza dubbio tutto di questo libro sconcerta, dalla sua realizzazione, nel 1952, alla pubblicazione, avvenuta nel 1985, e alla reputazione raggiunta venticinque anni dopo. Rigorosamente personale ma anche vivacemente politico, racconta una storia in apparenza realistica che si abbandona alle più sfrenate fantasie, e ha uno stile talmente ibrido che è difficile capire se si debba reagire con una risata o con sgomento. Un libro strano davvero, al tempo stesso rivelatore e imperscrutabile, un precoce imbarazzo autobiografico che Burroughs lasciò incompleto, un segreto rimasto sepolto per trent’anni, un lavoro raffazzonato e insieme un assaggio di quello che sarebbe seguito – appetitoso aperitivo del nauseante Naked Lunch [Pasto nudo]. Strano in tutti i sensi.
Perché Queer differisce in modo così netto da Junky [La scimmia sulla schiena], il romanzo d’esordio che Burroughs aveva scritto subito prima (pubblicato nel 1953 con il titolo Junkie), e perché venne dato alle stampe solo trent’anni più tardi? Dove si collochi nel percorso letterario dell’autore e quanto appartenga alla storia della scrittura omosessuale; e perché rimanga unico, fra le opere di Burroughs, per la sua drammatizzazione del desiderio, e contemporaneamente sia noto soprattutto per una morte che non vi viene neppure descritta – sono solo alcuni degli enigmi che pone. Chiarirne i precedenti storici è ancora più complicato perché esistono due versioni del testo – il manoscritto del 1952 e il libro pubblicato trentatré anni più tardi. La presente edizione si basa su entrambi i testi per ripresentarlo, nel venticinquesimo anniversario dalla sua prima pubblicazione, nella speranza di comprendere l’essenza di questo romanzo esile e sfuggente e di rivelarlo in una luce nuova.
La vivida descrizione di Burroughs fatta da Kerouac all’inizio di maggio del 1952 coglie l’estrema ambiguità della situazione. È trascorso soltanto un mese da quando Ace Books ha formalmente accettato il primo romanzo, che allora si intitolava ancora Junk, e per la prima volta, all’età di trentotto anni, Burroughs immaginava consapevolmente un futuro letterario. Senza dissimulare la gioia, nelle lettere scritte in quell’aprile all’improvviso parla di «noi autori» e «noi scrittori», e dice a Allen Ginsberg, che all’epoca era il suo agente, di conservare le loro lettere per «un nostro libro da scrivere fra un po’, quando avrò una rep.».2 Si noti il «quando» al posto del se… D’altra parte, però, ogni lettera scritta durante quell’anno reca sulla busta un falso mittente, perché Burroughs vuole sottrarsi agli occhi indiscreti della polizia messicana: l’intrusione di Kerouac nella scrittura di Queer seguiva di appena otto mesi la sera fatale in cui Burroughs conficcò per errore un proiettile della sua Star .380 automatica nella fronte della moglie. Il vero bersaglio, un bicchiere, rotolò sul pavimento senza rompersi passando accanto a un tavolo su cui stavano quattro bottiglie vuote di gin Oso Negro. Quell’atto di ubriaca follia avrebbe gettato una lunga ombra nera su qualsiasi successo Burroughs potesse ottenere come scrittore in Messico e in Sudamerica, a Tangeri, Parigi, Londra, New York, e sulla sua ultima casa a Lawrence, Kansas.
Il colpo di pistola che uccise Joan Vollmer incombe sulla leggenda di Burroughs e della cerchia Beat per ovvie ragioni, ma il collegamento fra quella morte e il secondo romanzo affiorò soltanto nel 1985, grazie ad alcune righe spesso citate, come del resto tutto quello che Burroughs ha scritto: «il libro è motivato e plasmato da un evento che non viene mai menzionato, che è anzi evitato con cura: l’uccisione accidentale di mia moglie Joan con un colpo di pistola, avvenuta nel settembre del 1951» e «Sono obbligato a giungere alla terrificante conclusione che senza la morte di Joan non sarei mai diventato uno scrittore…». Rivelazione resa ancora più stupefacente dalla riluttanza a parlare con franchezza dell’episodio che Burroughs ha mostrato in tutti quegli anni, queste righe scritte nell’Introduzione del 1985 (si veda l’Appendice) pongono il romanzo in una luce abbagliante. In quanto cronaca traumatica della realtà, la rivelazione ottiene inoltre l’effetto perverso di inserire il libro in un contesto talmente drammatico da oscurare sia la finzione narrativa sia eventuali altre realtà che vi siano nascoste.
Quel colpo di pistola fu il punto di svolta nella vita di Burroughs, e Queer l’altrettanto decisiva svolta nella sua scrittura. Tuttavia è possibile, e persino necessario, separare la vita dalla scrittura. Innanzitutto in Queer il racconto della morte di Joan non è «evitato con cura»: il colpo di pistola rimane fuori dalla cronologia narrativa della versione romanzata di fatti autobiografici, che si conclude alla fine dell’estate del 1951. Senza l’Introduzione di Burroughs ben pochi sarebbero stati in grado di fare il collegamento. Inoltre Burroughs ha fornito una spiegazione molto diversa del motivo per cui il suo secondo romanzo era così radicalmente diverso dal primo sebbene fossero stati scritti l’uno di seguito all’altro – perché soltanto in Queer troviamo i passaggi comico-grotteschi che sono tipicamente burroughsiani e che in Pasto nudo diventano protagonisti. «Naturalmente la differenza è lampante» spiega l’autore: Junky tratta dell’assuefazione, Queer dell’astinenza, e «durante l’astinenza [il tossicomane] può sentire il bisogno coatto di un pubblico, ed è chiaramente questo che Lee cerca in Allerton … Così si inventa un modo frenetico di attirare l’attenzione che chiama “i numeri”». Questa semplice spiegazione è complicata dallo strano rifiuto di Burroughs di operare una distinzione fra sé e il suo personaggio, o fra gli eventi accaduti nel 1951 e la loro versione romanzata del 1952, ma offre quantomeno il vantaggio di essere precisa in relazione al soggetto dei due romanzi e coerente con l’idea che ne aveva l’autore ai tempi in cui i libri vennero scritti.
«Quel particolare caos che c’è nei sogni»
Dopo il trasferimento, nell’autunno del 1949, di tutta la famiglia – la moglie Joan, la figlia di lei, Julie, e il loro figlio Billy – dal Sud del Texas a Città del Messico, Burroughs cominciò a scrivere Junk all’inizio del 1950 e per la fine dell’anno aveva completato una prima stesura (su cui continuò a lavorare nei due anni successivi). Quando, verso la fine di marzo del 1952, annunciò di aver cominciato a scrivere il seguito, ancora senza titolo, descrisse a Kerouac la differenza principale fra i due libri, cioè il passaggio dalla prima alla terza persona della voce narrante, in questi termini: «La prima parte è con la roba, la seconda senza». Considerare Junky e Queer come capitoli consecutivi della vita di Burroughs, ciascuno dei quali documenta una delle sue identità edonistiche e di fuorilegge, basterebbe a spiegare perché nel primo libro William Lee è calmo e distaccato, e narra gli eventi con ironia tagliente e concreta, mentre nel secondo è «disintegrato, disperatamente bisognoso di contatto, del tutto insicuro di sé e dei propri obiettivi» come dichiara Burroughs nella sua Introduzione del 1985. Ma questo sembra anche mescolare la scrittura con le circostanze in cui viene prodotta – Burroughs aveva ripreso a drogarsi durante tutto il tempo che impiegò a scrivere Queer – e non spiega la rapida disintegrazione del romanzo stesso. Infatti Queer comincia, come Junky, documentando con realismo una scena sociale – «Il giro dei tizi barbuti non aveva mai frequentato lo Ship Ahoy» è un parallelo diretto con «I tossici intellettualoidi e bebop non si facevano vedere mai sulla 103esima» – ma collassa in episodi frammentati e sgangherate fantasie e di colpo si interrompe.
I semi della disintegrazione sono di fatto presenti già nell’incipit. Burroughs attacca senza preamboli, in medias res («Lee rivolse la sua attenzione a un giovane ebreo che si chiamava Carl Steinberg») e subito ci disorienta con una notazione sulla nazionalità («Carl era nato a Monaco e cresciuto a Baltimora») e il luogo dove si svolge la narrazione, perché non risulta affatto chiaro che la scena è ambientata a Città del Messico: il «parco di Amsterdam Avenue» accanto a cui passa Lee non solo evoca la città olandese, ma probabilmente induce molti lettori nordamericani a pensare all’Upper West Side di Manhattan. Il fatto che Burroughs stia descrivendo il Parque México, intorno a cui corre la calle Amsterdam dalla forma ellittica, non serve a introdurre un elemento di realismo, perché Lee va subito a sedersi «su una panchina di cemento lavorato in modo da sembrare legno» – un pezzo d’arredo surreale e improbabile, a dispetto del fatto che nel Parque México esistono davvero panchine così.3
Le prime pagine si limitano ad ambientare la scena e cominciano a mostrare la sconcertante diversità fra la rappresentazione, in Queer e in Junky, di persone e luoghi realmente esistenti. Identificare Hal Chase in Winston Moor o Frank Jeffries in Tom Williams, o dire che il Lola era il Tato’s Bar, vicino al Mexico City College di San Luis Potosí numero 154, o che lo Ship Ahoy era il Bounty Bar and Grill all’angolo fra Monterrey e Chihuahua, proprio sotto l’appartamento in cui venne uccisa Joan – una simile ricerca delle fonti ci racconta ben poco di Queer. La cosa interessante del Rathskeller, dove Lee incontra Winston Moor, non è che i suoi orologi a cucù confermano che il locale si ispira al Ku Ku Restaurant di calle Coahuila e avenida de los Insurgentes (in effetti Burroughs scrisse «KuKu clocks» nel dattiloscritto): quel che conta è il fatto che gli orologi e «le teste di cervo tarlate» danno al locale «una tetra, incongrua aria tirolese» e che questa strana dislocazione caratterizza tutti i luoghi e i personaggi di Queer.
Per un romanzo breve che all’inizio è ambientato in una zona ristretta di una sola città, il cast di personaggi e l’elenco di luoghi lontani sono notevoli ed eterogenei. Si parla di Oklahoma City, Uruguay, Salt Lake City, Zihuatanejo, Francoforte, del confine fra Texas e Messico, di Dallas, Perù, Russia, Scozia, Cuba, Amazzonia, Roma, Alaska, Veracruz, Baghdad, Praga, Ubangi Superiore, Tanhajaro, Zambesi, Timbuctù, Dakar, Marrakesh, Morelia, Bogotá, Barcellona, Polonia, Budapest, Tibet, Canada, ecc. Lee non mangia mai cibo messicano, cena all’American K.C. Steak House, in un ristorante russo e in uno cinese, e quando va al cinema è per vedere un film francese ispirato a un mito greco (Orphée di Cocteau). E così, Jorge García-Robles è assolutamente corretto nell’affermare che «se esiste un “romanzo messicano” nell’opera di Burroughs, questo è Queer»,4 ma in tal modo non coglie nel segno – come se si dicesse che Burroughs sembra essere entrato ben poco in relazione con il Messico e la sua cultura. L’unico riferimento letterario, all’autore irlandese Frank Harris, non fa che sottolineare la questione.
«Il Messico è sinistro, tetro e caotico, quel particolare caos che c’è nei sogni» scrive Burroughs a Kerouac nel maggio del 1951 per informarlo, e la Città del Messico di Queer non è per niente una città «realista». Il Cuba, «un bar che sembrava la scenografia di un balletto surrealista» decorato da sirene androgine e pesci «inquietanti», mette in evidenza la sensazione che vi sia davvero qualche cosa di surreale e ambiguo e inquietante sotto il realismo apparente del libro. Quando Lee e il suo ritroso amante, Allerton, arrivano in Ecuador, la dimensione onirica prende il sopravvento e l’«atmosfera da incubo» si realizza subito nel racconto di Lee sugli effetti del peyote, dove rivela «che esisteva una vita sotterranea a lui negata». Qui i fiumi sono abitati da «mostri innominabili» che evocano le «oscenità innominabili» raffigurate sulle antiche ceramiche chimú, ed è la stessa ripetizione della frase a suggerire che questo luogo spaventoso, la «Terra Dove Tutto È Consentito» («Uomini che si trasformano in enormi centopiedi»), è un territorio dove vengono agiti gli orrori interiori. Il mostruoso paesaggio sudamericano emerge da precedenti turbamenti metafisici, come quando Lee appare «curiosamente spettrale, quasi gli si potesse vedere attraverso» o quando Winston Moor «Emanava un debole, verdastro vapore di decadimento» o Allerton stava parlando «con una voce acuta e sottile, la voce irreale e incorporea di un bambino piccolo» e Lee allunga verso di lui «dita ectoplasmatiche» e «pollici fantasmatici».
Se la narrazione realistica sembra sgretolarsi e farsi ovunque metaforica, lo stesso si può dire di Lee, che come un giocattolo parlante a molla caricato troppo ripete le stesse battute alla lettera o con minime varianti («Siediti sul tuo culo, o su ciò che ne resta dopo quattro anni in Marina»). La narrazione cruda e spoglia è sopraffatta dalle storie sempre più estreme che Lee racconta, come ne è sopraffatto lui stesso, man mano che svanisce la linea di demarcazione fra imitare le voci ed esserne posseduto. Anziché cercare di intrattenere e sedurre Allerton con le sue storie, Lee finisce letteralmente per parlare da invasato: il suo numero più lungo «gli stava uscendo come sotto dettatura» e prosegue anche in mancanza di un pubblico. Lee crolla perché il suo desiderio per Allerton lo fa cadere letteralmente a pezzi. Di conseguenza Queer è saturo delle sue fantasie di fusione carnale e di immagini ricorrenti di dolore e amputazione. Per quanto il parallelismo con il mito di Orfeo sia suggestivo – nella versione di Ovidio (ma non in quella di Cocteau) il poeta è fatto a brandelli perché, dopo la morte della moglie Euridice, rinuncia all’amore per le donne e concupisce i ragazzi –, il parallelismo fra il destino di Lee e la narrazione di Burroughs dimostra la forza sempre più destabilizzante del desiderio al livello della scrittura stessa.
Dal canto suo Burroughs sembra non vedere la contraddizione insita nel progetto di scrivere, come spiega a Kerouac alla fine di marzo del 1952, «un romanzo queer usando lo stesso metodo narrativo straight impiegato in Junk». Si potrebbe dire che proprio nell’incapacità di riproporre quel metodo Queer diventa ciò che è; accolta questa definizione, possiamo cominciare a capire in che modo le sue pecche siano foriere dei grandi successi futuri. Vale a dire che da un lato Queer non è abbastanza romanzesco, ma visto dalla prospettiva della meta che Burroughs avrebbe raggiunto – il caotico mosaico di Pasto nudo (1959) – era la forma narrativa stessa che nel 1952 tratteneva la scrittura. In un certo senso Queer è più ossessivo e più inquietante di Pasto nudo, dove l’intento satirico è esplicito e il lettore si smarrisce dentro l’immaginario più oscuro dell’autore, invece di diventare l’inorridito testimone dello straziante collasso psichico del suo alter ego. Che le origini di Pasto nudo risiedano nei cedimenti di Queer appare chiaramente nel momento in cui Lee tenta il primo approccio con Allerton, salutandolo con un gesto insieme cordiale e disinvolto: «ecco emergere invece un ghigno di nuda libidine, distorta dal dolore e dall’odio del suo corpo mortificato e, in doppia esposizione simultanea, un dolce sorriso infantile pieno di simpatia e fiducia, spaventosamente inopportuno e fuori luogo, mutilato, senza speranza». Per un caso che in realtà non è stato un caso, la lettura sbagliata di naked lust («nuda libidine») nel manoscritto di Queer, nel 1953, fornisce a Burroughs il titolo Naked Lunch.5 Ma se lo sgretolamento di Queer anticipa la svolta del capolavoro di Burroughs, allora possiamo anche riconoscere meglio la queerness di Pasto nudo, malgrado la sua reputazione di libro sulla droga, scritto – come Queer – sulla spinta sia del desiderio sia dell’uso di droghe. Evitando conclusioni affrettate, occorre tener presente che nella primavera del 1952 Burroughs ospitava in casa sua Jack Kerouac, poiché l’incontro fra i due scrittori rivela molte cose sulle forze che spronavano alla creazione e allo stesso tempo boicottavano il romanzo di Burroughs.
Il 10 maggio Kerouac scrive a Ginsberg che, trovata una nuova macchina da scrivere, lui e Burroughs hanno «ripreso a lavorare ai rispettivi libri», riferendosi a Queer (titolo già suggerito da Kerouac prima del suo arrivo in Messico) e a Il dottor Sax.6 Che Kerouac abbia scritto Sax durante i due mesi di convivenza con Burroughs è risaputo; ma non è stata considerata la precisa e profonda influenza che i due scrittori esercitarono l’uno sull’altro durante questo periodo cruciale dei rispettivi percorsi letterari. Il romanzo di Kerouac mostra molteplici tracce – nel tema, nelle allusioni e in frasi specifiche – del fatto che stesse leggendo il manoscritto di Burroughs.7 Da parte sua Burroughs a metà maggio riferisce a Ginsberg che il lavoro di Kerouac «si è sviluppato in maniera incredibile» e benché non sia chiaro se avesse letto qualcosa di Il dottor Sax, sappiamo con certezza che aveva letto il manoscritto definitivo che Kerouac aveva portato con sé in Messico: Visioni di Cody, e ne era stato «molto colpito». Già in aprile aveva preso visione di alcuni estratti, paragonandoli a Finnegans Wake di Joyce. Paragone appropriato, perché all’epoca Kerouac era al massimo della sua potenza e sicurezza di scrittore sperimentale. Fu nel maggio del 1952 che per la prima volta Kerouac diede la definizione della sua tecnica a schizzi (in seguito praticata come «prosa spontanea»), e all’inizio di giugno – ispirato dai dischi di Stan Getz, Charlie Parker e Miles Davis ascoltati insieme a Burroughs – aveva inventato la definizione wild form per descrivere i propri metodi jazzistici di improvvisazione compositiva ed esibizione nelle performance. È possibile che la passione per la sperimentazione formale espressa da Kerouac in Cody e Sax avesse influenzato Queer. Se non altro potrebbe aver spinto Burroughs a preoccuparsi meno dell’imprecisione formale del suo nuovo lavoro. In ogni caso sono le differenze fra i due scrittori che ci dicono di più sul conto di Queer.
A metà maggio Kerouac aveva descritto i suoi metodi spontanei di scrittura come il medium perfetto, dicendo a Ginsberg che l’improvvisazione «non sbaglia mai, è perfetta in sé».8 Quando, una settimana più tardi, Burroughs scrisse a sua volta a Ginsberg, parlò del suo lavoro in termini fondamentalmente diversi: «La scrittura deve sempre rimanere un tentativo: La Cosa in sé, il processo a livello sub-verbale, continua a eludere lo scrittore. Per me non c’è ancora un medium adeguato, a meno di inventarlo». Inizialmente Queer aveva ricalcato la narrazione autobiografica e la struttura realista di Junky. Ma la differenza tra il bisogno, che può essere appagato, o placato nel senso dell’astinenza del tossicomane, e il desiderio, che è sempre un tentativo destinato al fallimento («[Lee] Sentì il dolore lacerante del desiderio senza limiti»), è la ragione per cui un metodo straight, una camicia di forza realistica, con Queer non avrebbe funzionato. Capovolgendo la versione del passaggio da Junk a Queer, sarebbe più veritiero dire che Burroughs ha scritto la prima parte «senza desiderio», la seconda «con».
«Una sorta di spedizione sociologica»
Se all’epoca la collisione fra il soggetto e il metodo sfuggì all’attenzione, il dato più strano dell’Introduzione di Burroughs, scritta trent’anni dopo il libro, rimane la sua reticenza a considerare Queer un romanzo omosessuale. Benché avesse conosciuto il desiderio omosessuale molto prima di diventare tossicomane, la pubblicazione tardiva del suo secondo romanzo non contribuì a mettere l’identità omosessuale allo stesso livello di quella di drogato. Forse è stato diplomatico da parte sua non svelare la realtà autobiografica adombrata dal corteggiamento di Gene Allerton da parte di William Lee – il corteggiamento, a Città del Messico, di Lewis Marker, uno studente di ventun anni –, eppure l’insistenza sul fatto che «non è il contatto sessuale quello che [Lee] sta davvero cercando» e che «non aveva niente a che vedere con l’individuo Allerton» stranamente separa la storia dalle sue origini reali. Eppure fin dall’inizio, dalla prima volta che ne parlò a Ginsberg, Burroughs inquadrò il suo romanzo in questo contesto, non soltanto identificando in quella relazione il suo tema centrale, ma anche polemizzando con il libro di Donald Webster Cory da poco pubblicato, The Homosexual in America (1951). Dopo il celebre «Rapporto Kinsey», Il comportamento sessuale dell’uomo (1948), il libro di Cory rappresenta lo studio più influente sull’argomento e ci fornisce con precisione il contesto utile a riflettere sull’omosessualità del secondo romanzo di Burroughs.
The Homosexual in America sosteneva una posizione politica che Burroughs nella sua lettera a Ginsberg irride. Ma lo scrittore non dice che avallava l’esistenza di una tradizione letteraria omosessuale, e poiché Queer stava per entrare a farne parte, Bur-roughs deve certamente aver letto la tesi di Cory con interesse. Risalendo all’inizio della storia della letteratura, Cory osserva che «Il Satyricon di Petronio è il più antico romanzo esistente» e che «ciò conferisce all’omosessuale l’onore di essere il protagonista del primo romanzo sopravvissuto al tempo».9 Burroughs non ha mai fatto un collegamento simile, però non può essere una mera coincidenza se anni dopo identificò ripetutamente la sua trilogia degli anni Cinquanta – Junky, Queer e Le lettere dello yage (1963) – con la tradizione picaresca, facendola risalire a Petronio. Ma nello specifico colpisce quanto poco avesse da dire Burroughs sul contesto letterario contemporaneo presentato da Cory.
Nelle sue lettere del periodo in cui scriveva Queer, Burroughs accenna a Jean Genet e a Gore Vidal, mentre nel Prologo di Junky, anch’esso scritto nell’estate del 1952, elenca fra le proprie letture adolescenziali Gide e Wilde. Ma le poche parole che dedica, agli inizi di aprile, a Il giudizio di Paride di Vidal, da poco pubblicato, non lasciano trapelare che abbia trovato qualcosa di interessante nel più celebre romanzo di Vidal sull’esperienza omosessuale, La città perversa (1948).10 Del resto La città perversa occupa il posto che merita, insieme ad altri romanzi postbellici come Quatrefoil di James Barr (1950) e il magnifico Finistère di Fritz Peters (1951) – entrambi discussi da Cory –, in una tradizione letteraria gay in cui Queer non si inserisce. Né sembra utile fare paragoni fra Queer e le storie berlinesi di Isherwood o quelle di Firbank, o Riflessi in un occhio d’oro (1941) di Carson McCullers, Altre voci, altre stanze (1948) di Truman Capote, La galleria (1947) di John Horne Burns. E nemmeno serve confrontarlo con l’opera di Genet, sessualmente esplicita e intensamente lirica (oggetto del celebre studio sartriano Santo Genet). La foresta della notte (1936) di Djuna Barnes – molto ammirata da Burroughs – e Poveri perversi (1933) di Charles Henri Ford e Parker Tyler sarebbero stati di maggior interesse, sia per le sperimentazioni stilistiche sia per i temi sessuali.11 In realtà nello studio di Cory il collegamento più significativo per Burroughs potrebbe essere stato suscitato da un libro uscito nel 1944 e che lui aveva letto «per vedere com’è disfarsi con l’alcol»:12 Giorni perduti di Charles Jackson.
Il romanzo d’esordio di Jackson fu un best seller nazionale, e per certi aspetti modellò l’approccio di Burroughs alla scrittura di Junky, se non di Queer. All’inizio della storia lo scrittore-protagonista Don Birnam visita un bar del Greenwich Village come «uno spettatore che fa una specie di spedizione sociologica», assaporando la sensazione di «poter essere invisibile, la figura uscita dal mito».13 L’idea di Birnam di una obiettiva ricerca letteraria – a cui fa eco il fatto che il romanzo viene accolto come uno studio clinico – si avvicina per approssimazione sia all’approccio semisociologico di Burroughs alla scrittura di Junky, sia alla condizione di cronista virtualmente assente, un hombre invisible, di Lee. E il risultato della visita di Birnam – l’umiliazione di essere scoperto a rubare una borsetta, un gesto gratuito – precorre sia l’ignominia degli sforzi criminali falliti di Burroughs sia il masochismo del suo personaggio. La vera importanza del romanzo di Jackson tuttavia risiede nel destino che toccò all’autore sulla scia del successo. Un anno dopo la pubblicazione, Giorni perduti diventò un successo hollywoodiano che nel 1945 ottenne diverse nomination all’Oscar, assegnato al regista Billy Wilder e al protagonista Ray Milland. Come nel caso di altri adattamenti cinematografici di successo, la versione hollywoodiana ha usurpato il posto del libro nella memoria culturale. Forse non molti sanno che nell’Epilogo del libro Birnam non mostra il minimo rimorso e che il suo alcolismo non era una fuga dal blocco dello scrittore ma dal trauma dell’omosessualità repressa.14 Burroughs può aver trovato rozzi l’analisi psicologica di Jackson e il cliché dello scrittore fallito, ma nel rifiuto di Birnam di una redenzione morale potrebbe aver visto un esempio di sfida capace di ispirarlo.
Per Jackson la censura cinematografica di Giorni perduti ha rappresentato l’inizio della fine, e il suo secondo romanzo, Il crollo del marito (1946), altro modello di caso clinico, si è focalizzato sul senso di colpa causato dal desiderio omosessuale. Il romanzo non ha retto bene al passare del tempo, tuttavia lo scarso successo all’epoca della pubblicazione dava la misura dei rischi che si correvano affrontando un tema che nessun finale hollywoodiano avrebbe potuto edulcorare. In effetti la questione del modo in cui si concludevano i romanzi omosessuali era uno degli argomenti centrali del lavoro di Cory, e Burroughs deve certamente aver pensato a questa tesi del «finale tragico» apparentemente obbligatorio. Appena tre settimane dopo aver accennato al fatto di aver cominciato a scrivere Queer e a leggere The Homosexual in America, commenta: «Fra l’altro, non ho deciso il finale del secondo romanzo». Nel libro, Cory sosteneva che molti scrittori omosessuali si purificano infliggendo «punizioni ai loro alter ego», usando «i loro libri per “assolversi” dalla colpa, e che il pubblico dei lettori diventa confessore involontario o psicoanalista a buon mercato».15 Nell’anno in cui l’American Psychiatric Association include l’omosessualità fra le malattie mentali (verrà cancellata dal suo Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders soltanto vent’anni più tardi), questa dev’essere stata una risposta sorprendente alla domanda iniziale di Cory: «Che ruolo svolge la rappresentazione dell’omosessualità nella narrativa?». La risposta di Burroughs e la sua idea sul finale misero in moto la mutevole percezione del «pubblico dei lettori» del suo nuovo lavoro.
Nel marzo del 1952 i lettori di Burroughs sarebbero stati i fruitori della letteratura di intrattenimento identificata con Ace Books; l’autore stesso ritiene che Queer sia «più vendibile di Junk, e più affascinante per un pubblico più vasto. È, in effetti, più sensazionale». In seguito avrebbe sempre sostenuto che Ace lo rifiutò perché era troppo sensazionale: «Dicevano che se l’avessimo pubblicato sarei finito in galera».16 E benché non vi siano prove a sostegno di questa versione, non c’è bisogno di ricordare che i primi anni Cinquanta erano un momento sicuramente pericoloso per dare alle stampe un romanzo intitolato Queer. Per quanto Burroughs rifiutasse le posizioni politiche di Cory – e sebbene Cory non potesse certo apprezzare il romanzo di Burroughs –, la politicizzazione degli atti più privati era esattamente il contesto che rendeva il libro di Cory così attuale.
«Desideri imperiosi»
Quella non era soltanto l’epoca del maccartismo e della guerra in Corea, ma anche dell’allontanamento dei gay dagli impieghi governativi e della paura di una cospirazione da parte di una presunta élite omosessuale, nonché della demonizzazione dell’omosessualità in quanto contagio virale antiamericano e minaccia alla salute del corpo politico. Un rapporto del Senato del 1950 ammoniva: «Basta un omosessuale a contaminare un intero ufficio governativo».17 Lee osserva: «Dicono che stanno espellendo tutti i froci dal Dipartimento di Stato», e Burroughs avrebbe potuto trovare statistiche recenti già pronte per lui nel libro di Cory (novantuno licenziati su ventitremila dipendenti). Avrebbe trovato anche uno studio attento alle implicazioni del gergo omosessuale – che comprendeva un appello a sostituire termini come fairy e fag con gay – e sicuramente ha notato che Cory considera «l’impatto stesso delle parole: sono un omosessuale, sono un frocio, sono un invertito»,18 riportando in Queer la propria versione parodistica dell’impatto delle etichette verbali: «quando quella parola perniciosa lasciò un marchio a fuoco sul mio cervello vacillante: omosessuale. Ero un omosessuale».
Burroughs non accenna a niente di tutto ciò nella sua lettera a Ginsberg, e anzi fustiga Cory per la sua posizione apparentemente liberal sulla tolleranza: «Sufficiente a dare il voltastomaco. Questo individuo dichiara che un omosessuale impara l’umiltà, impara a offrire l’altra guancia, e a ricambiare l’odio con l’amore». In Queer Burroughs capovolge il messaggio e si vendica di Cory facendo raccontare a Lee la storia di Bobo – «Fu … [lui] a insegnarmi che avevo il dovere di vivere portando con fierezza il mio fardello sotto gli occhi del mondo, di vincere il pregiudizio e l’ignoranza e l’odio con la consapevolezza, la sincerità e l’amore» –, il quale viene ripagato finendo letteralmente sbudellato in un incidente alla Isadora Duncan: «Era a bordo della Hispano-Suiza del Duc de Ventre quando le sue emorroidi pendule volarono fuori dalla macchina e si avvolsero intorno a uno dei pneumatici posteriori». Mentre l’analisi politica di Cory auspicava la «solidarietà» omosessuale con «tutti gli sfortunati, i disprezzati, gli oppressi della terra», in Queer William Lee dimostra proprio l’opposto di tale «spirito democratico» fra vittime.19
Malgrado Queer sia stato presentato e letto come confessione intima e personale – «il cuore di Burroughs messo a nudo» secondo la fascetta scritta da Ginsberg nel 1985 –, la posta politica in gioco all’epoca in cui venne scritto è chiarita dal libro di Cory. L’Introduzione dello stesso Burroughs, del 1985, enfatizza la vita privata mancando di riconoscere la più ampia storia nazionale, ma dal punto di vista storico questa è una falsa contrapposizione poiché è precisamente la politicizzazione del privato ciò che ha definito la cultura della guerra fredda. Questo dovrebbe farci riconoscere non solo la sorprendente densità del romanzo omosessuale di Burroughs in una prospettiva politica, ma il collegamento che suggerisce ripetutamente fra il mondo intimo del desiderio individuale e una narrativa globale del potere. Benché Lee dica scherzando: «non sono qui per psicoanalizzare Cesare», un’analisi dell’impero è esattamente quello che la sua storia porta alla luce, più esplicitamente che mai quando il suo autore tiene una conferenza in cui equipara i due fronti della guerra fredda usando il termine burroughsiano essenziale: «il Controllo. Il super-io, il centro di controllo, incancrenito e forsennato». L’ironia è duplice in quanto la critica di Lee è sinceramente autolacerante, considerata la fantasia sempre più disperata di controllare Allerton, ma il punto politico è che un omosessuale – il nemico patologicamente abietto per definizione nell’ambito della guerra fredda americana – faccia una diagnosi della psiche imperiale di Washington. E l’omosessuale di Burroughs non è un qualsiasi gay vagamente ostile, è, alla lettera, un gay armato (con una Colt Frontier) e con una propensione a premere il grilletto: «E se qualche moralista figlio di puttana cercherà di interferire lo ripescheranno nel fiume».
Lee fantastica di un imperialismo brutale che nega ogni traccia del liberalismo compassionevole ed egualitario di Cory: si notino i ripetuti riferimenti a Napoleone, all’antica Roma e alla colonizzazione tedesca dell’Africa o a quella inglese dell’Arabia, e al torturatore che «Ha fatto un lavoro eccellente con i rossi a Barcellona e con la Gestapo in Polonia»; lo scherno offensivo che riserva a Simón Bolívar, l’eroe anticolonialista del continente sudamericano, definendolo «Il Liberatore Sciocco», e, ovviamente, la forza muscolare dei «miei bei dollari americani». Lee capovolge l’argomentazione e cerca di rovesciare la posizione demonizzata dell’omosessuale nell’America della guerra fredda identificandosi completamente con il potere americano al suo apice demoniaco. Dalla disumanizzazione razziale («Non è neanche questione di essere omosessuali» dice scherzando sul sesso con i ragazzi messicani, come un ignorante reazionario del Sud degli Stati Uniti) alle battutacce a spese dei poveri (assumendosi la propria identità di aristocratico come uno degli «adepti»), alla derisione degli omosessuali effeminati («checche isteriche»), al vituperare gli ebrei sotto la maschera del rispetto («Le femmine – cioè le fanciulle ebree, devo stare attento a non espormi a un’accusa di antisemitismo – hanno fatto lo spogliarello con gli intestini dei romani»), Lee simultaneamente rifiuta la propria condizione di vittima e rivela quanto possa essere malvagio l’americano malvagio.
Queer non sarebbe così inquietante se potessimo definirlo parodia, o satira, invece sembra più un esorcismo – meglio fuori che dentro – di tutte le voci che abitano la mente di Burroughs, demoni ereditati per censo e per cultura. Ciò che rende ancora più straordinario l’odioso razzismo e imperialismo delle perverse battute di Lee è il contrasto con Junky, dove Lee non ha mai comportamenti analoghi. Nel 1953 il romanzo pubblicato da Ace Books sarebbe potuto passare per una Vera Confessione pulp agli occhi della maggior parte dei lettori, ma è difficile immaginare che non ne sarebbero rimasti disgustati, se fosse stato pubblicato allora. Non tanto per il tema dell’omosessualità – non è sessualmente più esplicito di Junky –, quanto per il suo violento, insistito attacco a binomi essenziali come salute e malattia, Occidente e Oriente, mondo libero e fascismo. Queer confermava la logica omofobica del rapporto del Senato del 1950 – un romanzo omosessuale come questo può contaminare la Library of Congress (che naturalmente oggi ne possiede una copia) – e al contempo si guadagnava la chiosa che Burroughs aveva dato al libro omofilo di Cory: sufficiente a dare il voltastomaco. Non c’è da stupirsi se, come il suo autore, Queer ha sempre occupato un posto marginale nelle storie della letteratura gay e dei queer studies.20
L’aggressione isterica che Lee rivolge all’esterno compensa chiaramente la femminilizzazione dell’omosessualità dell’epoca, e l’umiliante frustrazione della caccia a Marker. Ma la fantasia di Lee di controllare l’amante tradisce anche il timore di Burroughs rispetto alla forza del proprio desiderio. Secondo le parole di Cory, l’invertito lotta «per trovare una soluzione al mistero dei desideri imperiosi che lo scuotono».21 Le fantasie di Lee di ridurre altri in schiavitù – espresse nel modo più crudo nel numero del Concessionario di schiavi che vende ragazzi come se fossero automobili usate – tradiscono la sua convinzione di essere schiavo del desiderio sessuale. Ma certo il romanzo «funziona» ancora oggi per noi perché Lee è un prigioniero dell’amore e non una vittima dell’omofobia storicamente contingente. Per dirla in altro modo, non è necessario essere omosessuali, o aver vissuto negli anni Cinquanta, per riconoscere in Queer un’anatomia del desiderio (perlomeno maschile) straordinariamente cupa e irresistibile. È paradossale, ma la ragione del potere politico corrosivo di questo romanzo e della sua potenza emotiva dipende dal fatto che Burroughs l’ha scritto spinto dal desiderio per un lettore, per un pubblico composto da un solo uomo – dichiarando esplicitamente, nell’ottobre del 1952: «Ho scritto Queer per Marker». L’omosessualità di Queer, in breve, non risiede nei fatti che sono alla base della versione romanzata, ma nella scrittura dietro il testo.
«Certi vizi, quando ti abbandonano, ti sventrano»
Quando Burroughs cominciò il secondo romanzo sapeva che l’argomento centrale sarebbe stato la sua relazione con Lewis Marker. A giudicare dal libro quel rapporto era finito con un disastroso fallimento. Però Burroughs non aveva cominciato il romanzo guardando al passato, tutt’altro. «Il ragazzo con cui sono andato in Ecuador» scriveva a Ginsberg nel novembre del 1951 «è ancora nei paraggi e magari ci potrebbe tornare con me. Ora che l’ho conosciuto meglio mi piace di più». Marker nel gennaio del 1952 sarebbe tornato nella sua città natale, Jacksonville, in Florida, ma la situazione in marzo era ancora questa. Burroughs disse a Ginsberg che dedicava Queer a «A.L.M. (Adelbert Lewis Marker)» e ripeté che voleva tornare con lui in Ecuador.22 La scrittura del secondo romanzo non riguardava soltanto una relazione finita, ma faceva parte di una relazione che nel presente sembrava ancora densa di promesse. Era a questo che Burroughs si riferiva dicendo di non avere ancora deciso come concludere il romanzo: «Può darsi che la fine non sia ancora giunta». Tuttavia, quando Kerouac arrivò in Messico, all’inizio di maggio, la situazione aveva subito un cambiamento drastico. «Marker ha scritto che non viene con me in S.A.» comunica Burroughs a Ginsberg il 22 aprile. «Sono ferito, sono deluso. Proverò a fargli cambiare idea ma non so». Provò a fargli cambiare idea scrivendogli, mandandogli lettere per settimane di seguito, malgrado non ricevesse mai risposta. «Gli ho scritto cinque o sei lettere» rivelò a Ginsberg all’inizio di giugno «con fantasie e numeri nella mia vena migliore, ma lui non risponde».
Si trattava delle fantasie e dei numeri che Lee racconta ad Allerton? Poiché le lettere a Marker non sono giunte fino a noi, è impossibile stabilirlo. Comunque, se il manoscritto di Queer era in uno stadio avanzato quando Burroughs seppe che Marker lo aveva lasciato, quasi sicuramente il numero del Concessionario di schiavi fu aggiunto durante quella terza settimana di aprile ed è difficile immaginare che non avesse mandato quella fantasia di desiderio sessuale proprio alla persona che desiderava e sulla quale voleva così disperatamente fare colpo. Per dirla in un altro modo, il numero che Lee fa in Queer era stato scritto per Marker. Le mancate risposte alle sue lettere durante i mesi di aprile, maggio e giugno sicuramente contribuirono alla struttura sempre più frammentata e al tono sempre più coercitivo dei numeri di Lee. Alla fine di maggio, quando Ginsberg accusò Burroughs di comportarsi come il capitano Achab, nel folle inseguimento della sua balena bianca, e di voler usare la «magia nera», Burroughs non provò neppure a negarlo: «Certo che ricorro alla magia nera. La magia nera è sempre un tentativo di forzare l’amore, a cui ci si rivolge quando non ci sono altre risorse».
Se per riconquistare Marker ormai Burroughs si affidava alle lettere che gli scriveva, non può essere un caso che la lettera in cui riferisce la notizia traumatica dell’abbandono di Marker (22 aprile 1952) segnali un distacco drammatico anche nella sua scrittura. Quasi di colpo e per la prima volta, Burroughs passa allo stile febbrile, stravagante e comico-grottesco dei numeri. Un motivo per chiedere a Ginsberg di conservare le lettere, che non erano soltanto la corrispondenza di uno scrittore, ma parte cruciale della sua opera. Attraverso le lettere i numeri davano voce alle fantasie; nel 1955, riflettendo sulla forma, Burroughs li avrebbe definiti epistolari, perché «il pubblico ne è parte integrante».23 Generando aneddoti sempre-più-scandalosi per catturare il lettore, l’urgenza del desiderio non corrisposto rivela a sua volta proprio la pulsione di controllo – in tutte le dimensioni psicologiche e politiche. E conferma che Queer è la fonte segreta della scrittura di Pasto nudo, i cui numeri ancora una volta sarebbero stati scritti e inviati per desiderio di e dipendenza da un amante assente, Allen Ginsberg. È molto diverso dal dire che Burroughs mandava parti del suo lavoro agli amici, cosa che molti autori fanno: diremo piuttosto che la sua forma peculiare e il suo virtuosismo erano prodotti da lettere alimentate dal desiderio e che la sua pratica di scrittura al tempo stesso si nutriva di e generava materiale di un tipo specifico, altamente performativo. Questa genesi condivisa trova conferma nella ricomparsa in Pasto nudo di alcuni personaggi di Queer – compresi il «grande uomo di spettacolo» Tetrazzini e Dutton Buco Secco dal numero del Petroliere24 – e specialmente nella ripetizione dell’eviscerazione che si verifica sulla Hispano-Suiza del Duc de Ventre, producendo un «risucchio raccapricciante». Questo «risucchio (slup)»25 è il suono stesso del numero in quanto fantasia di desiderio divorante, che emerge come una sorta di mostruosa estensione del lapsus freudiano (in inglese slip). Queer potrebbe sembrare dolce paragonato al festino venefico di Pasto nudo, ma la violenza e le immagini passano direttamente dall’uno all’altro, come nella poesia che Burroughs scrisse per Marker nel giugno del 1952 mentre lavorava alla sezione finale del romanzo: «Si snodano le viscere, si torcono. / “Ho fame” / Certi vizi, quando ti abbandonano, ti sventrano / Come le pallottole dum-dum».
Questa immagine richiama inevitabilmente il colpo di pistola che uccise Joan Vollmer, e diventa impossibile escludere l’impatto della sua morte sulla scrittura di Queer. Infatti Lee che racconta le sue storie e compie patetici gesti da macho – come staccare la testa di un topo sparandogli («Se gli andavi ancora più vicino il topo ti otturava la canna») – è il ritratto umiliante di un uomo che parla parla ma non ha davvero le palle e rievoca così la situazione creatasi quella notte fatale del settembre 1951, in cui pare che Joan avesse provocato il marito mettendo in dubbio pubblicamente la sua abilità di tiratore. Il disgusto di sé nell’autoritratto di Burroughs è pervaso dal ricordo della morte e dal masochismo del desiderio. «Joan gli manca tremendamente,» osservava Kerouac nel maggio 1952 «vive dentro di lui come una vibrante follia».26 Ma resta il fatto che il contenuto specifico e la funzione dei numeri di Lee in Queer non possono essere giustificati dall’uccisione di Joan più di quanto li giustifichino gli effetti della lunga astinenza. E avendo implorato le domande all’inizio, le risposte parziali dello stesso Burroughs sul perché avesse scritto Queer dovrebbero spingerci a ricostruire la storia del manoscritto, e vedere che cosa è successo fra la sua genesi, nel marzo del 1952 e la sua pubblicazione, nel novembre del 1985.
«Non ho scoperto il Segreto»
La stesura di Queer segue un percorso tutto sommato lineare.27 Burroughs comincia a scrivere a metà marzo, entro il 26 aprile ha già un dattiloscritto di venticinque pagine e settanta pagine scritte a mano e il 14 maggio ne manda a Ginsberg cinquantanove dattiloscritte. Consapevole dei «punti deboli»,28 apporta immediatamente alcune correzioni minori e una settimana dopo promette di inviare «un nuovo dattiloscritto completamente revisionato delle sessanta pagine, che sostituisce il MS nelle tue mani», cosa che fa, dopo una pausa all’inizio di giugno, il 15 di quel mese. Poi Burroughs comincia «le sezioni S.A. di Queer» e completa altre venticinque pagine dattiloscritte entro la prima settimana di luglio. Tuttavia né le vicissitudini della vita né quelle del manoscritto furono altrettanto semplici.
Per cominciare, durante quasi tutto questo periodo Kerouac abitava con Burroughs e lo esasperava fumando erba e non pagando mai la sua parte di spese. Nel frattempo Burroughs aveva ricominciato a farsi di eroina e doveva presentarsi ogni lunedì alle otto del mattino alla prigione di Lecumberri, in attesa che l’interminabile inchiesta sulla morte di Joan facesse il suo corso. A partire dalla fine di aprile c’era stato l’abbandono di Marker. Per quanto riguardava il nuovo romanzo, Burroughs lavorava ossessionato da una scadenza per soddisfare le pretese di A.A. Wyn della Ace Books, che teneva in sospeso la pubblicazione di Junky ed era ansioso di vedere il manoscritto del secondo romanzo, pensando di pubblicarlo insieme al primo. Il manoscritto del 14 maggio recava il titolo «JUNK OR QUEER», scritto da Kerouac, coerentemente con la sua convinzione che «nel titolo devono essere indicati tutti e due» per raddoppiare la capacità attrattiva del libro.29 Però Burroughs lavorò a Queer senza sapere se Ace lo avrebbe pubblicato insieme a Junky o separatamente o se non lo avrebbe pubblicato; e la pausa dell’inizio di giugno era dovuta al fatto che «stava aspettando di sapere che cosa voleva Wyn». Non era nemmeno sicuro che Wyn gli avrebbe lasciato finire il libro in terza persona: «Perché diavolo non si dovrebbe poter cambiare persona nel bel mezzo di un libro?» protestò con Ginsberg in una lettera del 26 aprile. «Non è mai stato fatto, d’accordo, e allora facciamolo. Comunque io lo metterò in terza persona. Se vogliono cambiare va bene, ma penso che sarebbe una perdita considerevole». La «questione della persona è un capolavoro di confusione» protestò Burroughs, e quando sperimentò i cambiamenti il risultato fu davvero un piccolo capolavoro di confusione: «Mi sono tenuto lontano dallo Ship Ahoy per dare ad Allerton il tempo di dimenticare la cattiva impressione che aveva (sic) indubbiamente fatto su di lui».30
Il destino del romanzo fu deciso a metà giugno, quando Ginsberg riferì: «A Wyn non piace Queer».31 Ritenendo che fosse comunque ancora vendibile, incoraggia Burroughs a continuare a scrivere e il 6 luglio Burroughs gli manda i capitoli sudamericani, dopo di che smette di lavorare al libro. Quindi il manoscritto si interrompe al momento dell’incontro non conclusivo con il dottor Cotter nella giungla intorno a Puyo, dopo l’infruttuosa ricerca della misteriosa droga yage e quando la relazione con Allerton non è ancora risolta. In circostanze diverse Burroughs avrebbe potuto scrivere di più – anche solo per soddisfare le richieste di Ace, come aveva fatto con Junky –, eppure sarebbe sbagliato dire che Queer è un romanzo incompiuto nel senso tradizionale del termine.
Il fatto che il suo secondo romanzo – un romanzo breve, in realtà – sia significativamente più breve di Junky (che non è un libro lungo) apre la strada a In cerca dello yage dell’anno seguente, una costante riduzione che sottolinea le crescenti difficoltà di Burroughs a utilizzare una convenzionale struttura narrativa lineare.32 Quella che per la maggior parte dei romanzieri sarebbe una crisi, per lui si rivela una formazione sperimentale. Al contempo è certamente significativo che Burroughs, mentre lavorava a Queer e sviluppava i suoi numeri, si esercitasse anche in brevi racconti, scrivendone tre che in seguito sarebbero stati rivisti e intitolati The Finger, Driving Lesson e Dream of the Penal Colony. Ogni storia autobiografica è legata a Queer da alcune frasi precise e dal tema del desiderio autodistruttivo che sfocia nella frustrazione e nel fallimento. Lo scenario di Penal Colony è particolarmente rivelatore: quando il ragazzo che Lee cerca di sedurre tronca la relazione, Lee è disperato perché non ha «scoperto il Segreto».33 A un certo livello i molti riferimenti alla segretezza che si trovano in Queer – gli agenti russi e il controspionaggio in Germania, le spie inglesi in Medio Oriente, le ricerche, durante la guerra fredda, sul «controllo del pensiero» e sulle droghe per ottenere le confessioni – sono un’estensione del suo dramma personale, e lo stesso vale per la scena finale con il dottor Cotter, che evidenzia la disperazione di Lee nella sua ricerca dello yage: Cotter «Aveva accesso ai segreti del brujo, Lee no». In altre parole, la scena potrebbe non essere un finale arbitrario e brusco come sembra, e trova persino un’eco nella pregnante conclusione di Burroughs della Premessa a Junky: «Non esiste chiave, non esiste segreto in possesso di qualcuno e che possano esserti ceduti». Il contesto implica che si tratti della dura lezione della «equazione della droga», ma in realtà riassume la verità emotiva della storia del desiderio omosessuale di Lee.
Burroughs scrisse la Premessa a Junky nell’agosto del 1952, ma cominciò a idearla il 6 luglio (lo stesso giorno in cui inviò a Ginsberg le ultime venticinque pagine di Queer), mentre lavorava sia all’Introduzione a Junky, sia ad altre quaranta pagine chieste da A.A. Wyn, che finalmente gli aveva fatto avere il contratto di pubblicazione. A metà giugno Ginsberg si era offerto di occuparsi personalmente del montaggio della parte aggiunta. «Vogliono qualcosa ambientato in Messico, omosessualità non in primo piano … Userò parti di Queer in Junk più alcune lettere, per metterlo insieme»),34 ma fu Burroughs a fare il lavoro, e aggiunse alla parte centrale del manoscritto di trentotto pagine, spedite per rispettare la scadenza del 15 agosto, venti pagine tolte dai primi due capitoli di Queer (così com’era stato concepito) leggermente rivisti e con uno spostamento dalla terza alla prima persona. Burroughs incluse le due pagine e mezzo d’apertura e le ultime dieci pagine del primo capitolo, più le ultime due e mezzo del secondo capitolo. Eliminò inoltre due pagine dal terzo capitolo (la scena del Chimu Bar) e due passaggi che seguono (uno sul peyote e uno sullo yage).35 In tutto eliminò più di seimila parole, oltre un terzo del manoscritto del 14 maggio e circa un quinto del materiale complessivo, per poter dare a Junky la lunghezza pretesa da Ace Books. In breve, Burroughs aveva appena finito di scrivere il suo secondo romanzo e gli imperativi economici dell’editoria lo costringevano ad abbandonarlo e a sventrarlo per completare il primo. I tagli operati durante quell’estate del 1952 avrebbero esercitato un effetto profondo sul libro pubblicato nel 1985. Ma che cosa era successo durante quei trent’anni?
Alla fine di agosto del 1953 Burroughs arrivò a New York dopo sette mesi passati nella giungla sudamericana in cerca dello yage e qualche settimana di sosta a Città del Messico. Nell’appartamento del Lower East Side di Ginsberg i due lavorarono insieme sui manoscritti di Queer e In cerca dello yage36 e in novembre Alene Lee (che appare in I sotterranei di Kerouac come Mardou Fox) li batté entrambi a macchina su carta filigranata con la scritta «Featherweight Onion Skin». Curiosamente, malgrado la pubblicazione, quell’estate, di Junkie: Confessions of an Unredeemed Drug Addict (con lo pseudonimo William Lee), da parte di Ace Books, Burroughs sembrava aver deciso che Queer fosse ancora un progetto realizzabile. A dire il vero nei quattro anni successivi Ginsberg avrebbe fatto avere alcune copie del testo a persone quali Kenneth Rexroth e Malcolm Cowley, presentandolo come parte centrale di una trilogia diffusa con il titolo Pasto nudo. Agli inizi del 1958 l’Olympia Press – che l’anno seguente avrebbe pubblicato il libro che noi oggi conosciamo come Pasto nudo – mostrò interesse per Queer e Yage, ma non se ne fece niente. Quando Pasto nudo apparve, però, la posizione di Burroughs era decisamente cambiata: «Le Lettere dello yage a tutti i costi,» scriveva a Ginsberg nell’ottobre del 1959 «Queer invece non voglio assolutamente che venga pubblicato adesso. Non rappresenta quello che faccio in questo periodo e non è di nessun interesse, se non in quanto povero schizzo giovanile dell’artista – e quindi mi oppongo». Nei successivi venticinque anni, ogniqualvolta un intervistatore gli chiedeva di Queer, Burroughs ripeteva lo stesso giudizio: lo considerava «Un libro alquanto dilettantesco».37 Fino al febbraio del 1984 sostenne che non aveva alcun desiderio di vederlo pubblicato: «È come portare alla luce i fatti della scuola secondaria di qualcuno».38 Che cosa era successo dunque per fargli cambiare idea?
Nel 1984 il cosiddetto archivio di Vaduz – una gigantesca collezione di manoscritti che dieci anni prima Burroughs aveva venduto a Roberto Altman, finanziere del Liechtenstein, per ricavarne denaro di cui aveva disperato bisogno – venne acquistato e trasferito in America (dove dal 2006 è ospitato nella Berg Collection della New York Public Library) dal collezionista Robert H. Jackson. Come conferma il catalogo originale preparato da Barry Miles, l’archivio conteneva un manoscritto quasi completo di Queer, l’unico che sembrava sopravvissuto. Almeno fino a questo punto dunque non c’era alcun manoscritto pronto e disponibile per la pubblicazione, nemmeno se Burroughs avesse voluto farlo. Nel frattempo, nell’estate del 1984 lasciò il suo editore di sempre, Richard Seaver, e l’agente letterario Peter Matson, quando Andrew Wylie riuscì a ottenere un accordo dalla Viking-Penguin per la pubblicazione di sette titoli per la cifra di 200.000 dollari. Se negli anni Cinquanta per Burroughs la scrittura di Queer aveva rappresentato un punto di svolta – i numeri alimentati dal desiderio, basati sulle lettere, che indicavano la strada oltre la narrativa straight e verso Pasto nudo –, ora, trent’anni dopo, dalla pubblicazione di quel romanzo dipendeva un contratto che garantiva allo scrittore la sicurezza economica per tutta la vita e plasmava il resto della sua carriera. Come osserva il biografo Ted Morgan: «Un pezzo forte dell’accordo era il romanzo inedito Queer». «Lavoro con William da venticinque anni» si racconta che Seaver abbia detto a Wylie «e so che non vuole pubblicare Queer».39 Invece Wylie riuscì dove Seaver aveva fallito e il 23 novembre 1984 il «New York Times» annunciò il contratto con la casa editrice, dando grande risalto all’imminente pubblicazione di Queer. Quel giorno mi trovavo a Lawrence, Kansas, per intervistare Burroughs. Nervoso per quella mia prima visita allo scrittore leggendario, gli chiesi di Queer e ricevetti la risposta che dava sempre – che si trattava di un «viaggio, la forma più antica di narrativa, che risale a Petronio» ma all’epoca era «il libro che nessuno voleva toccare… dicono che non lo posso pubblicare… finirei in galera». La conversazione si spostò su altri argomenti. Oggi è evidente che ero totalmente all’oscuro della lunga storia del romanzo, o di che cosa potesse voler dire editarne il manoscritto, e naturalmente non avevo idea del dolore di un libro – «Doloroso al punto che ho difficoltà a leggerlo, figuriamoci a scriverne» – che Burroughs si accingeva ad affrontare cominciando a scrivere l’Introduzione e, insieme a James Grauerholz, compagno e assistente di lunga data, rimettendo mano al suo secondo romanzo, da tanto tempo perduto.
«La natura elusiva dell’ignoto»
Malgrado tutte le ovvie differenze, quando si parla della pubblicazione di Queer balza all’occhio una perversa simmetria fra le circostanze del 1952 e quelle del 1985. Se un tempo Burroughs aveva dovuto dipendere da Ginsberg, agente letterario dilettante, e, in quanto autore sconosciuto, era alla mercé di un editore commerciale, ora trattava con uno dei maggiori agenti e una delle maggiori case editrici di New York, eppure il romanzo era ancora decisamente condizionato da fattori economici. Le decisioni salienti erano determinate dai tagli operati sul testo trent’anni prima. Il sacrificio a favore di Junky era stato tale che per realizzare un libro di lunghezza adeguata si imponeva l’integrazione di un’uguale quantità di pagine. E così il romanzo venne incorniciato da una lunga Introduzione e dall’aggiunta di «Ritorno a Città del Messico» come Epilogo.
L’Introduzione di Burroughs è abbastanza affascinante di per sé da meritare un’analisi esauriente, anche se vi sono due elementi che spiccano subito. Per prima cosa c’è del materiale che non è entrato nella versione finale e comprende pagine su Allerton e Denton Welch e il loro legame. Lo scrittore inglese viene visto «quasi come un sosia di Allerton» ed entrambi sono descritti come «lettore fantasma e collaboratore», l’uno ritenuto l’ispiratore di Queer e l’altro, trent’anni più tardi, di Strade morte.40 Vi è inoltre un’allusione interessante a Il serpente piumato di D.H. Lawrence (1926) e la sorpresa di Burroughs che «questo meraviglioso e magico» resoconto del Messico non lo avesse particolarmente colpito all’epoca in cui scriveva Junky e Queer. Inoltre una buona metà della sezione iniziale dell’Introduzione, con la descrizione della vita a Città del Messico, è stata presa integralmente dalle lettere di Burroughs (tre scritte fra settembre e dicembre del 1949, tre da gennaio a maggio del 1950, una nel maggio del 1951), il che spiega sia alcune strane anomalie (quando dice «Da soli si viveva bene con due dollari al giorno» sta scrivendo a Kerouac), sia perché il materiale sembri coevo alla narrazione, più che un resoconto fatto in un tempo successivo. Quest’ultimo punto è il più significativo, poiché si scopre che queste pagine introduttive erano in verità l’abbozzo di un nuovo primo capitolo del romanzo. È uno dei molti tentativi di ricostruire Queer: altri tre capitoli vennero abbozzati per riempire buchi nella narrazione, un’ulteriore selezione delle lettere di Burroughs (a partire dal 1952) fu montata e una versione complessiva del romanzo venne riscritta in prima persona. Benché James Grauerholz avesse certamente ragione a rifiutarsi di seguire questi esperimenti editoriali, essi tuttavia riflettono in modo preciso i problemi posti dal manoscritto sul quale lui e Burroughs dovevano lavorare – vicenda ulteriormente complicata dai cambiamenti di persona, dall’uso delle lettere e dallo sventramento effettuato per rimpolpare Junky. Alla fine l’edizione del 1985 comprendeva l’inserimento di materiale epistolare, alcune sezioni di collegamento, brevi ampliamenti e la necessaria riorganizzazione (dettagliata nelle note),41 ma l’aggiunta più cospicua fu l’Epilogo «Ritorno a Città del Messico», una scelta paradossale ma ispirata.
Malgrado l’inspiegabile passaggio dalla terza alla prima persona, l’Epilogo sembra la continuazione naturale della narrazione principale di Queer. In realtà proveniva da un manoscritto non ancora utilizzato che nelle intenzioni avrebbe dovuto concludere Yage e fu scritto nel luglio del 1953 durante la sosta di Burroughs a Città del Messico, mentre era en route per New York.42 Quella che sembra una descrizione del ritorno di Lee in Messico dopo il viaggio con Allerton, basata su eventi accaduti alla fine dell’estate del 1951, è in realtà una descrizione del ritorno di Burroughs, avvenuto due anni dopo. Ciò spiega a sua volta alcune anomalie, come l’ansia di Lee all’aeroporto di Città del Messico – conseguenza della posizione legale di Burroughs dopo l’uccisione di Joan. E tuttavia «Ritorno a Città del Messico» appartiene a Queer più che a In cerca dello yage non solo come conclusione del resoconto d’ambientazione messicana e per il ritorno di Allerton ma, soprattutto, per il numero che lo conclude. Qui il sogno di Lee del minaccioso Cercatore condensa l’incubo in agguato del desiderio, mentre la condizione di chi è posseduto dal desiderio e dalla scrittura è sottolineata dalla frase con cui dichiara che in Queer ha «la sensazione di essere stato scritto». L’eco dei numeri non è una coincidenza, ed è perfettamente logico che questo numero in particolare sia costellato da frasi prese dall’arcana storia d’amore e possessione di F. Scott Fitzgerald A Short Trip Home, che Burroughs aveva già utilizzato in Queer e che dà all’Epilogo il suo raccapricciante lirismo.43 Questa lugubre tonalità viene resa nel meraviglioso adattamento operistico di Queer di Erling Wold (2000) grazie al recitativo lento e a bassa voce, ma il paragone più vicino alla svolta sinistra che Burroughs dà al tema del mal d’amore potrebbe essere la ballata di Roy Orbison In Dreams, eseguita con la sincronizzazione labiale da Dean Stockwell con effetti da incubo nel film Velluto blu di David Lynch. Il Cercatore è l’Uomo della Sabbia noir di Burroughs, una creatura onirica, un finale perfetto per Queer.44
Rimane un’ultima sorpresa riguardo alla pubblicazione del 1985: il manoscritto di Queer su cui era basata la versione data alle stampe è l’originale non revisionato che Burroughs mandò a Ginsberg il 14 maggio del 1952. Ciò risulta chiaro non solo dalla lunghezza e dalle evidenti imperfezioni – è scritto su sei tipi diversi di carta con quasi tutte le pagine coperte di correzioni fatte a mano o battute a macchina –, ma anche dai riferimenti che si trovano nelle lettere dello stesso periodo. Da allora soltanto una delle tre pagine mancanti dal primo manoscritto è ricomparsa – la conclusione del capitolo perduto di «Panama» era stata archiviata in modo errato nella Berg Collection –, mentre ulteriori ricerche hanno consentito soltanto di localizzare frammenti dei due manoscritti successivi di Queer. Benché Burroughs avesse detto a Ginsberg di aver rivisto la prima stesura «aggiungendo, tagliando e modificando», le tre pagine sopravvissute della seconda stesura (una alla Columbia University e due alla Stanford) mostrano soltanto interventi minori.45 Allo stesso modo la sequenza di cinque pagine all’inizio della terza e definitiva stesura ordinatamente battuta a macchina da Alene Lee nel 1953 (anch’esse alla Stanford University) rivelano solo piccoli cambiamenti. Che Burroughs e Ginsberg abbiano fatto interventi importanti nel 1953 è improbabile, ma rimane incerto. Questa nuova edizione di Queer si basa quindi sostanzialmente sulle stesse fonti utilizzate per l’edizione del 1985, e, considerato il rigore dell’editing fatto da James Grauerholz all’epoca, le differenze più significative non sono riscontrabili nel testo quanto nella sua presentazione. Ho colto l’opportunità, che venticinque anni orsono Grauerholz aveva considerato prematura, di rendere visibile la storia del libro e di renderne esplicito il processo editoriale. Ciò detto, l’editing è un atto interpretativo, e la mia comprensione di Queer si riflette nei cambiamenti che sono stati fatti – o non sono stati fatti – per questa nuova edizione.
Innanzitutto ho preservato qualche asperità, e non ho accettato un certo numero di piccolissime correzioni che, pur recando l’imprimatur dell’autore, mi sembrava migliorassero la forma più del necessario. In secondo luogo, oltre a rivedere l’Epilogo e cambiarne il titolo (ora «Due anni dopo. Ritorno a Città del Messico») e a ricreare il settimo capitolo, «Panama», ho fatto parecchi brevi inserimenti di materiale che in precedenza non era stato utilizzato o non era disponibile – all’incirca cinquecento parole nelle note e poco più di mille all’interno del testo. Il grosso degli inserimenti è stato determinato da decisioni prese sul materiale spostato nel 1952 da Queer a Junky. Una cannibalizzazione che ebbe l’effetto di rendere Queer ancora più peculiare perché Burroughs aveva eliminato ogni sovrapposizione, lasciando soltanto quello che mai sarebbe potuto essere considerato la «Seconda Parte» del primo romanzo. Fra le varie opzioni per restituire a Queer ciò che era stato tagliato a beneficio di Junky, sembrava imperativo reinserire una sola sezione, la visita di Lee al Chimu Bar, che si adatta meglio al secondo romanzo. Il fatto che questo materiale oggi compaia sia in Junky sia in Queer, benché bizzarro, non è che un’estensione logica dell’impressionante fluidità testuale e delle circostanze estreme che hanno caratterizzato la prima trilogia burroughsiana. Il mio intento, nel rivedere i tre testi, è stato quello di chiarirne la genesi e ripresentarli con l’attenzione e la cura che meritano, non di riscrivere il passato o pretendere di sistemare ogni cosa. In effetti a tale proposito la decisione fondamentale è stata quella di resistere alla tentazione di reintegrare le due pagine e mezzo con cui Queer cominciava originariamente. «Una mattina d’aprile Lee si svegliò in preda a un po’ di malessere» è uno strano passaggio in Junky, cruciale per l’interpretazione di Queer – poiché spiegherebbe il comportamento di Lee quale conseguenza fisiologica e psicologica dell’astinenza da sostanze stupefacenti – ed è per questa ragione, anziché nonostante questa ragione, che quelle due pagine e mezzo sono state lasciate fuori. Spiegare a chiare lettere tutto ciò che rende il romanzo tanto misterioso e inquietante sarebbe stato, in primo luogo, un tradimento del suo titolo. Nel 1952 Burroughs rivolgeva critiche pesanti al saggio di Donald Webster Cory, ma a sua volta si sarebbe potuto chiedere: «È forse nella natura elusiva dell’ignoto, che si potrà trovare l’origine e il significato della parola Queer?».46
Oliver Harris
Novembre 2009
NOTE
1. Jack Kerouac, Selected Letters, 1940-1956, a cura di Ann Charters, Viking, New York, 1995, p. 352 [trad. it. parziale di Silvia Piraccini, Lettere dalla Beat Generation: 1941-1956, Mondadori, Milano, 1997].
2. Dove non viene altrimenti specificato tutte le citazioni delle lettere di Burroughs sono tratte da The Letters of William S. Burroughs, 1945-1959, a cura di Oliver Harris, Viking, New York, 1993.
3. Il parco è intitolato a José de San Martín, il generale argentino il cui storico incontro del 1822 con Simón Bolívar viene commemorato nel monumento La Rotonda, che Lee descrive a Guayaquil.
4. Jorge García-Robles, La bala perdida: William S. Burroughs en México (1949-1952), Ediciones del Milenio, México, D.F., 1995, p. 91.
5. Sulle origini del titolo si veda, sotto, la nota riferita alla p. 77, e il mio saggio «The Beginnings of Naked Lunch, an Endless Novel», in Naked Lunch@50: Anniversary Essays, Southern Illinois University Press, Carbondale, 2009, pp. 14-25.
6. Agli inizi di aprile Burroughs scriveva a Kerouac: «Credo che il titolo Queer per la seconda parte sia eccezionale. Persino sconcertante». Il ventidue del mese chiarisce il suo pensiero sul termine queer quando reagisce con sdegno alla provocazione di Carl Solomon, che all’epoca lavorava per A.A. Wyn, suo zio, alla Ace Books, secondo cui il romanzo avrebbe dovuto intitolarsi Fag («finocchio»). Si veda Burroughs, Letters, cit., pp. 119-21.
7. Fra gli esempi della presenza di Queer in Il dottor Sax (1959) vi sono i riferimenti a Isadora Duncan, al brandy Napoleon e ai centopiedi chimú, le frasi «chiavo-veggente» e «le sibilanti leggermente blese»; e analogie fra il «malvagio Gidean» di Kerouac e il numero del Concessionario di schiavi, nonché fra il Lee di Burroughs e Sax che «assomigliava un po’ a Bull Hubbard (alto, magro, sincero, strano)».
8. Kerouac, Letters, cit., p. 356.
9. Donald Webster Cory, The Homosexual in America, Greenberg, New York, 1951, p. 167. Cory è lo pseudonimo di Edward Sagarin.
10. Questo sorprende, in effetti, non tanto per i parallelismi biografici fra Burroughs e Vidal – gay americani aristocratici che frequentarono lo stesso liceo (Los Alamos Ranch School) e che scrissero perlopiù dall’Europa, espatriati –, ma per le similitudini fra i loro primi lavori. Come Queer, La città perversa descrive dettagliatamente una serie di ambientazioni e sottoculture gay; come Queer, è ambientato in Messico (Yucatán e Mérida); e la presentazione di Vidal di un’ossessione sessuale che anela all’androgino platonico, la «scoperta di un gemello», trova eco nelle fantasie di fusione fisica con Allerton di Lee, ancora più ossessive e narcisistiche.
11. L’ambientazione nel Greenwich Village e la scrittura a quattro mani di Poveri perversi di Charles Henry Ford e Parker Tyler risuona nella collaborazione fra Burroughs e Kerouac per la scrittura di And the Hippos Were Boiled in Their Tanks, nel 1945 [trad. it. E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche, Adelphi, Milano, 2011].
12. Allen Ginsberg, The Book of Martyrdom and Artifice, Da Capo, Cambridge, MA, 2006, p. 78. Nell’ottobre del 1944 Burroughs incluse Jackson in una lista di letture che comprendeva altri libri di argomento omosessuale come Viaggio inaugurale (1943) di Denton Welch e The Brick Foxhole (1945) di Richard Brooks, che divenne un film con il titolo Odio implacabile (1947), dove però il tema originale dell’omofobia è sostituito da quello dell’antisemitismo. Kerouac cita il romanzo di Jackson in And the Hippos Were Boiled in Their Tanks, Grove, New York, 2008, p. 177 [trad. it. cit., p. 150].
13. Charles Jackson, The Lost Weekend, Penguin, London, 1989, pp. 32, 38 [trad. it. Giorni perduti, Longanesi, Milano, 1946].
14. Burroughs sarebbe certamente rimasto colpito dalla coincidenza che ciò che aveva traumatizzato Birnam – la scoperta di una lettera d’amore adolescenziale: «roba da culto degli eroi, ma piuttosto appassionata» (p. 86) – echeggiava il diario delle nostalgie omosessuali che aveva tenuto a Los Alamos e la cui rivelazione pubblica, come sostenne sempre, gli aveva impedito di scrivere per anni.
15. Cory, op. cit., pp. 176, 172.
16. Burroughs (1981), in Burroughs Live: The Collected Interviews of William S. Burroughs 1960-1997, a cura di Sylvère Lotringer, Semiotext(e), Los Angeles, 2001, p. 520; cfr. anche pp. 246, 597.
17. Citato da John D’Emilio in Sexual Politics, Sexual Communities, University of Chicago Press, Chicago, 1983, p. 37.
18. Cory, op. cit., p. 150.
19. Ibid., p. 152.
20. Su questo argomento si veda Jamie Russell, Queer Burroughs, Palgrave, New York, 2001. Sulla risposta critica a Queer, si veda il mio William Burroughs and the Secret of Fascination, Southern Illinois University Press, Carbondale, 2003, pp. 78-132.
21. Cory, op. cit., p. 153.
22. La criptica dedica pensata da Burroughs per Queer venne invece utilizzata in Junkie per l’edizione dell’aprile del 1953 – una decisione che getta luce sia sulla relazione dell’autore con Marker sia sulle sue aspettative riguardo alla pubblicazione di Queer. La dedica («A A.L.M.») venne eliminata dalla nuova edizione del libro, con il titolo Junky, del 1977.
23. William S. Burroughs, Interzone, Viking, New York, 1989, p. 127 [trad. it. Interzona, SugarCo, Milano, 1991].
24. Il numero del Petroliere si ispira all’esperienza fatta da Burroughs con i trivellatori texani e impiega pittoreschi aneddoti sentiti dall’amico Kells Elvins, compreso quello che si riferisce a un certo David Harold «Buco Secco» Bird. Per questo e altri importanti collegamenti fra la vita di Burroughs e Queer si veda Rob Johnson, The Lost Years of William S. Burroughs: Beats in South Texas, Texas A&M University Press, College Station, 2006, pp. 93-99.
25. Nei manoscritti Burroughs scrive il termine in tre modi diversi: «slup», «shlup» e «schlup». Nel brano del Duc de Ventre di Queer, lo spelling è «slup» e «slupping», ripreso per questa edizione e modificato nel 1985 con «shlup» – e nel passaggio equivalente di Pasto nudo, «schlup» e «schlupping». Nella lettera del 24 giugno 1954 Burroughs fa riferimento ai numeri «shlup» nell’azione in corso. Nella sua lettera del 22 aprile 1952 manda a Ginsberg un bacio «sluppy», suggerendo così che all’epoca di Queer la grafia preferita era questa.
26. Kerouac, Letters, cit., p. 353.
27. La complicazione è la «sezione messicana» che Burroughs scrisse nella primavera del 1951 per aggiungerla al manoscritto di Junk e che riguardava la «relazione fra droga e sesso»; non sappiamo da cosa fosse composta o se alcune sue parti finirono in Queer e/o in Junky.
28. Burroughs a Ginsberg, 15 maggio 1952 (Ginsberg Collection, Columbia University), riga che non compare nella versione pubblicata.
29. Kerouac, Letters, cit., p. 353.
30. In «Allen Ginsberg Papers», Stanford University, Correspondence 1, Box 2, Folder 42.
31. The Letters of Allen Ginsberg, a cura di Bill Morgan, Da Capo, Philadelphia, PA, 2008, p. 77.
32. Il manoscritto di Junk del 1950 consta all’incirca di 38.000 parole, l’edizione del 1953 di 47.000 parole. Il manoscritto completo di Queer è di 31.000 parole, il manoscritto Yage più completo è di 20.000 parole e la prima edizione di In cerca dello yage di 12.000.
33. Burroughs, Interzone, cit., p. 45.
34. Ginsberg, Letters, cit., p. 77.
35. Si veda Junky: The Definitive Text of «Junk», Penguin, New York, 2003, pp. 105-16, 93-94, 117-19, 122-23, 127.
36. Per quanto riguarda la storia del manoscritto e della revisione di Yage si veda la mia Introduzione a The Yage Letters Redux, City Lights, San Francisco, 2006 [trad. it. Le lettere dello yage, Adelphi, Milano, 2010] .
37. Burroughs (1974), in Burroughs Live, cit., p. 272.
38. Burroughs (1984), ibid., p. 597.
39. Ted Morgan, Literary Outlaw: The Life and Times of William S. Burroughs, Henry Holt, New York, 1988, pp. 596-99 [trad. it. Fuorilegge della letteratura: la vita e i tempi di William Burroughs, SugarCo, Milano, 1991].
40. Materiale editoriale di Queer del 1985, «William S. Burroughs Papers», Folio 3, Berg Collection, New York Public Library.
41. Le note in fondo al libro documentano la storia e l’uso dei manoscritti, più che rilevare le differenze fra le due edizioni. Descrivono dettagliatamente tutti gli inserimenti significativi nell’edizione del 1985 che in questa non sono stati mantenuti. Dal punto di vista del testo del 1985 (a parte cambiamenti di grafia e di punteggiatura e pochissime correzioni), in circa un centinaio di casi è stato preferito il manoscritto originale e/o sono stati eliminati piccoli inserimenti fatti nel 1985.
42. Per un resoconto dettagliato si veda la mia Introduzione a Everything Lost: The Latin American Notebook of William S. Burroughs, Ohio State University Press, Columbus, 2008.
43. Burroughs utilizza A Short Trip Home per la descrizione di Winston Moor; si veda la nota su queste righe nella presente edizione, pp. 193-94.
44. Allerton torna come uno spettro dannato in tutta l’opera di Burroughs, dalla sua apparizione come «phantom» in The Soft Machine, Olympia, Paris, 1961, p. 173 [trad. it. La macchina morbida, Adelphi, Milano, 2003], a due sogni di My Education, Viking, New York, 1995, pp. 93, 114.
45. Si veda l’elenco dei manoscritti nelle note in fondo al libro.
46. Cory, op. cit., p. 22.
Fonte: Introduzione a William S. Burroughs, Queer, Adelphi, 1998