Il governo Meloni si sta rivelando una farsa tragicomica, con ministri che accumulano gaffe su gaffe, trasformando il Paese in un cabaret di dilettanti allo sbaraglio. Salvini si preoccupa più delle panzanelle che dei disastri nazionali, mentre Nordio giustifica le sue stupidaggini con l’alcol, citando Churchill come se bastasse a coprire la sua mediocrità. La Meloni? Pensa di fare la storia, ma sta solo scrivendo il copione di un’avanspettacolo di basso livello. Il complotto giudiziario? Inutile. Questi si rovinano da soli. Non sono fascisti, sono solo una barzelletta vivente.
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Sembra ieri che Sallusti denunciava un complotto giudiziario per rovesciare il governo di Giorgia Meloni indagando la sorella Arianna. E invece il governo traballa per il B-movie Boccia-Sangiuliano, la cui gravità è inferiore solo alla comicità. Ma che conferma una cosa molto seria: questi non sono fascisti, sono ridicoli. Più che un esecutivo, pare un concorso di cabaret. La Meloni dice con aria grave: “Niente passi falsi, stiamo facendo la storia”. Sì, ma dell’avanspettacolo. Come quando telefonava a due comici russi scambiandoli per l’ambasciatore del Catonga o accoglieva col tappeto rosso Chico Forti scambiandolo per il Papa. Salvini, con l’Italia paralizzata dai ritardi di treni, aerei e traghetti, posta il suo faccione accanto a un piatto di panzanelle. Lollo, quando almeno era ancora cognato, parlava di “sostituzione etnica” e dei poveri che “mangiano meglio dei ricchi”, fermava i treni in ritardo in aperta campagna perché “si è sempre fatto così”, è la regola. Calderoli si convince che Cosa Nostra lo voglia morto perché ha ricevuto una “lettera anonima”, ma firmata (sic) “Siamo la mafia” (quindi è la mafia, sicuro). Urso lascia le accise sulla benzina che doveva abolire, anzi cancella lo sconto di Draghi, così i carburanti rincarano, ma lui spiega che “al netto delle accise costano meno che nel resto d’Europa” (e grazie al cazzo). La Santanchè, per risolvere il suo conflitto d’interessi fra Turismo e Twiga, gira le azioni al fidanzato, il celebre “Dimitri Miesko Leopoldo Kunz d’Asburgo-Lorena”, subito diffidato dai 516 eredi della casa d’Austria.
Nordio svela che “i veri mafiosi non parlano al telefono” un attimo prima che Messina Denaro venga arrestato perché non riesce a staccarsi dal cellulare; poi incontra una giornalista di Sky e le chiede uno spritz; infine trinca nella masseria di Vespa e spiega che “il vino può essere un alibi per le eventuali sciocchezze che dico”, ma sia chiaro: “Bevo perché lo faceva il mio mito, che è Churchill” (fortuna che non è Baudelaire). La Russa spiega che in via Rasella i partigiani non uccisero nazifascisti, ma “una banda musicale di semipensionati” (i Pooh o i Cugini di Campagna). Piantedosi chiama i migranti superstiti della strage di Cutro “carichi residuali” (tipo cassa di patate). Toti, reduce dagli arresti domiciliari, debutta come editorialista del Giornale, tanto lì c’è Sallusti e nessuno ci fa caso. Pozzolo va al veglione di Capodanno con un pistolino carico, che centra in pieno la gamba di un poveraccio, perché è “minacciato dagli ayatollah iraniani” (dopo Rushdie, lui). E via cialtroneggiando. Pare che, nell’ultima riunione della congiura anti-Meloni, il Soviet Supremo delle Toghe Rosse si sia subito sciolto con la seguente motivazione: “Non c’è bisogno di noi, fanno tutto loro”.
Il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2024