Martin Heidegger

Umberto Galimberti: Martin Heidegger

Ho scritto un libro su Heidegger perché Heidegger è stato senz’altro il più grande filosofo del secolo scorso. Lo testimoniano […]

Ho scritto un libro su Heidegger perché Heidegger è stato senz’altro il più grande filosofo del secolo scorso. Lo testimoniano le migliaia di saggi che sono stati scritti su di lui in tutte le lingue: francese, italiano, spagnolo, americano, giapponese. E allora, qualche ragione per cui tutti si sono rivolti a Heidegger o per accusarlo, o per confutarlo, o per utilizzarlo, interloquire con lui vuol dire che effettivamente il suo pensiero è stato un pensiero decisivo.

E cosa pensa Heidegger? Pensa che a partire da Platone, tutta la filosofia non ha fatto altro che preoccuparsi di salvare le cose del mondo e metterle a disposizione dell’uomo. E questa dimensione lui la chiama metafisica. La metafisica è appunto la storia del pensiero occidentale a partire da Platone, e con Platone occorre fare i conti, perché, come dice Whitehead, tutta la filosofia può essere considerata semplicemente un grande commento a Platone. E l’intento di Platone era, detta in greco, sōzein ta phainomena, salvare i fenomeni, salvare le cose del mondo dalla possibile rapina del nulla.

Per questa ragione Platone organizza la visione del mondo su due scenari: uno scenario di eternità che richiama l’Iperuranio, dove ci sono le idee, e uno scenario del mondo sensibile, dove le cose imitano le idee. Potrebbe sembrare un discorso difficile, ma non lo è tanto: per dire che questo terreno è triangolare o che questo tavolo è rettangolare, io devo avere l’idea di rettangolo e l’idea di triangolo. Perché se non ho queste idee, come faccio a dire che è triangolare o che è rettangolare?

Allora, il mondo è una copia del mondo delle idee, e il mondo delle idee non è il mondo sensibile, dove ci sono le cose, ma è un mondo sovraceleste che lui chiama Iperuranio, al di là del cielo, dove un giorno l’anima, che ha conosciuto tutte le idee, abitava. E a seguito di una caduta è stata imprigionata nel corpo, per cui noi oggi conosciamo le cose grazie ai sensi. Però Platone interessava una cosa molto importante: da questo punto di vista non ha tutti i torti, noi non possiamo fidarci dei sensi per costruire un sapere universale valido per tutti.

Perché, se dovessimo misurare la temperatura di qualsiasi ambiente, e dovessimo riferirci ai sensi di coloro che sono in questo ambiente, avremmo tante temperature quanti sono i nostri corpi. Per cui, per raggiungere un pensiero, una conoscenza universale e valida per tutti, abbiamo bisogno non tanto delle informazioni corporee quanto delle idee, che Platone colloca sopra il cielo, e oggi noi potremmo dire i costrutti della mente. Per cui bisogna pensare attraverso numeri, idee, misure, quantità, qualità, pesi. Ecco, queste sono le configurazioni con cui Platone organizza ciò che d’ora innanzi si chiamerà metafisica.

Perché metafisica? Perché le idee sono al di là del mondo fisico. “Meta” vuol dire “al di là del mondo fisico”. Di per sé la parola “metafisica” nasce da un caso particolare: nella biblioteca di Alessandria, i libri di metafisica di Aristotele venivano dopo quelli di fisica. E allora “metafisica” significa “quelli dopo la fisica”. È una denominazione semplicemente di catalogo bibliotecario. Poi la parola ha assunto un significato molto più potente e molto più significativo. Metafisica è pensare che c’è un al di là, dove ci sono le idee, che sono il modello, la misura, la regola per leggere le cose.

Questo Platone, il quale ha inventato l’anima. L’anima non appartiene alla cultura giudaico-cristiana. I giudei non avevano la più pallida idea di anima, e tantomeno i cristiani. Ne è prova il fatto che i cristiani, quando, nonostante siano convinti di avere un’anima e che quest’anima sia immortale, recitano il Credo, cosa dicono? Non credono nell’immortalità dell’anima, ma nella resurrezione dei corpi. Perché il cristianesimo è innanzitutto incarnazione: è il Figlio di Dio che si fa uomo, che nasce, cresce, predica, muore e risorge. È una religione dei corpi, attestato anche dall’iconografia. Se è vero che le chiese cristiane rappresentano corpi nelle immagini che noi ammiriamo nelle chiese, mentre le altre due religioni monoteiste, l’ebraismo e l’islam, non prevedono corpi nei loro templi. Nelle sinagoghe hanno semplicemente delle citazioni tratte dalla Bibbia, così come le moschee hanno citazioni tratte dal Corano.

Successivamente, a partire dal Quattrocento d.C., Agostino preleva la nozione di anima da Platone e la inserisce però in un altro scenario. Platone l’aveva introdotta per un problema di conoscenza, per giungere a una conoscenza universale valida per tutti. Agostino la trasferisce in un altro scenario: lo scenario della salvezza. Per cui, oltre al corpo, noi abbiamo un’anima. Il corpo è corruttibile, l’anima è incorruttibile. Nell’anima si rivela, dice Agostino, Cristo, Dio, la verità. E organizza anche una visione della società come città terrena, che al pari del corpo è corruttibile, e come città celeste, incorruttibile ed eterna.

Questa impostazione di Agostino è diventata la forma con cui ancora oggi pensiamo di avere un’anima e un corpo. In realtà, nella tradizione cristiana questa concezione dell’anima proprio non ha giustificazioni. Con il cristianesimo, chi garantisce le cose dalla possibile rapina del nulla non sono più le idee di Platone, ma Dio. Ecco, c’è un immutabile Dio che decide quando le cose sono e quando le cose non sono. E attraverso il riferimento a Dio, le cose vengono in qualche modo salvaguardate. Questa dimensione prosegue successivamente con Cartesio, il quale inventando la scienza garantisce le cose del mondo, e ancor più la tecnica.

Perché la tecnica che cosa fa? Innanzitutto garantisce le cose che ci sono. Quando poi queste cose vengono consumate e ricondotte al nulla, vengono riprodotte. Per cui la tecnica, a parere di Heidegger, è la forma più alta, l’estrema, la più garantita e la più garante, soprattutto, della salvaguardia delle cose del mondo. Ora, noi oggi viviamo nell’età della tecnica, e a questo proposito Heidegger ha le idee chiarissime. In un’intervista che ha rilasciato al direttore di Der Spiegel nel 1966 scrive una frase che vi leggo: “Tutto funziona”, dice Heidegger. “E questo è appunto l’inquietante, che tutto funziona, e che funzionare respinge sempre verso un ulteriore funzionare. E che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra. Non so se lei è spaventato,” chiede Heidegger al suo intervistatore, “io in ogni caso lo sono stato appena ho visto le fotografie della terra scattate dalla luna. Non c’è bisogno della bomba atomica, lo sradicamento dell’uomo è già fatto. Tutto ciò che resta è una situazione puramente tecnica. Non è più la terra quella su cui oggi l’uomo vive.”

Bene, la tecnica da che cosa è caratterizzata? A parere di Heidegger è caratterizzata da una qualità di pensiero che lui definisce “pensiero calcolante”, pensiero come calcolo: calcoli economici, calcoli tecnici. E nel 1952 dice, ribadendo il concetto che poi espliciterà nell’intervista al direttore dello Spiegel che ho appena letto: “L’inquietante non è il fatto che l’intero pianeta si risolve in un enorme apparato tecnico. Ancora più inquietante,” scrive Heidegger, “è che non siamo affatto preparati a questa radicale trasformazione del mondo. Ma ancora più inquietante” — siamo al terzo grado di inquietudine — “è che non abbiamo un pensiero alternativo al pensiero che sa fare solo di conto, un pensiero che sa solo calcolare.”

Il tedesco usa l’espressione “Rechnen”, calcolare. Ora, questa denuncia mi pare l’essenza e la miglior visione della cultura contemporanea: l’unico pensiero che noi abbiamo è un pensiero che parla solo di calcolo. Non abbiamo un pensiero che sappiamo capire anche che cos’è il bello, che cos’è il buono, che cos’è il giusto, che cos’è il vero, che cos’è il santo. Abbiamo solo un pensiero capace di percepire solo ciò che è utile, inutile ciò che non è utile ad altro, perché ha valore in sé. Inutile, per esempio, l’amore quando non è un amore di interesse; inutile la bellezza, che non è utile ad alcunché, ma è un valore in sé. Ora tutte queste dimensioni vengono sostanzialmente trascurate dalla nostra cultura. Anche l’opera d’arte diventa arte non quando esprime una qualche bellezza, ma diventa arte semplicemente quando entra nel mercato e, allora, ancora una volta, viene assoggettata al pensiero che calcola, che fa di conto, che riguarda l’utilità, che guarda il profitto.

Questa situazione è stata denunciata da Heidegger con una chiarezza estrema. Come se ne esce? Heidegger avvisa che purtroppo il problema qui si pone in maniera molto seria, dovuto al fatto che non abbiamo un linguaggio alternativo al linguaggio della metafisica. Il linguaggio della metafisica era un linguaggio che si proponeva unicamente di salvare le cose del mondo. Questo linguaggio, incominciato da Platone, proseguito nel Medioevo, riformulato in maniera ancora più stringente da Cartesio, il quale dice che con la scienza l’uomo diventa “padrone e possessore del mondo” (maître et possesseur du monde). E qui potremmo dire che l’essenza dell’umanesimo, che di solito siamo abituati a concepire come adiacente, se non addirittura antitetico al sapere scientifico, bene, l’essenza dell’umanesimo è proprio la scienza, anzi la tecno-scienza, perché attraverso la tecno-scienza l’uomo diventa padrone e signore del mondo.

Quindi non solo si riconferma l’intenzione metafisica di salvare le cose del mondo, ma soprattutto si conferma che lo scopo della filosofia fino adesso non è stato altro che irrobustire sempre di più l’intenzione di Platone di rendere l’uomo padrone del mondo. Bene, di fronte a questa dimensione, dice Heidegger, come facciamo a riscattarci? C’è un primo inizio, dice Heidegger, l’inizio di coloro che sono filosofi che sono nati prima di Platone e che si sono occupati della natura non concependola come il pensiero calcolante fa oggi, che la concepisce come materia prima, ma concependola come quella orizzonte immutabile che nessun uomo, nessun dio fece. Sempre stata, è e sarà. Questa natura oggi viene riguardata solo dal punto di vista del suo sfruttamento e non più come terra dell’abitazione dell’uomo, una natura che confligge con l’utilizzo che ne fa la tecnica.

Non da sempre, perché all’inizio la tecnica era modesta. E quando Eschilo nel Prometeo incatenato fa chiedere da parte del coro a Prometeo “dimmi, è più forte la tecnica o più forte la legge che governa la natura?”, Prometeo risponde in una maniera chiarissima, lui che aveva dato la tecnica agli uomini: “La tecnica è di gran lunga più debole della necessità che governa le leggi della natura”. E allora tutto è tranquillo perché la natura continua ad avere la sua dominanza rispetto all’operare umano.

Oggi non è più così. L’operare umano non è più un enclave all’interno della natura, ma è la natura che è diventata un nightclub all’interno di una dimensione sostanzialmente tecnica, demograficamente imponente, con trasmigrazione della popolazione dalla terra alle città e alle metropoli sempre più numerose, e la natura si è ridotta a una piccola enclave all’interno di queste città. Bene, la natura è lo sfondo a cui fare riferimento, dice Heidegger, la natura intesa come sfondo immutabile che nessun uomo, nessun dio fece. Noi abbiamo capovolto le cose: è l’uomo che invece è diventato signore e padrone della natura, e allora non abitiamo più nella natura.

Come ho letto in quella pagina con cui Heidegger risponde al direttore dello Spiegel, noi abitiamo la tecnica. La tecnica è diventata la nostra casa e l’uomo è stato sradicato dalla natura. Questo sradicamento, dice Heidegger, è molto più pericoloso della bomba atomica, perché è un’impostazione mentale: è quella di guardare l’universo solo sotto il profilo dell’utilità. Bene, i filosofi che sono venuti prima di Platone sono i filosofi del primo inizio, quando la verità era concepita come manifestazione. La parola greca “alétheia” in greco, “léthe” vuol dire nascosto. Anche noi italiani abbiamo le parole latitante, letargo. “Alétheia”, con alfa privativo, vuol dire “non nascosto”, quindi manifesto. La verità è manifestarsi dall’essere, della natura, di ciò che appare e di ciò che si rende visibile.

Noi oggi abbiamo tutto un altro concetto di verità, e la verità la misuriamo sull’efficacia: vero è ciò che è efficace, ciò che produce risultati, ciò che raggiunge gli obiettivi che l’uomo si è proposto. E allora sotto questo profilo abbiamo un’inversione del rapporto con la verità: non più la visione della natura, ma l’efficacia del nostro operare. Il primo inizio rivendicava la verità come manifestazione, rivendicava il logos, il pensiero che consisteva nel guardare e nel contemplare e nel costruire teorie per riuscire a catturare le costanti della natura allo scopo di costruire una città secondo natura e una condotta della vita umana secondo natura.

Tutto questo con Platone si chiude, questo primo inizio si chiude con Platone, e questa chiusura rimane tale per tutto il corso dell’Occidente. A denunciare questo travisamento, questa smobilitazione del concetto antico di verità, prima di Heidegger è stato Nietzsche, il quale ha detto: “Sono ancora alla ricerca di un filosofo medico, medico che vuole curare una cultura, una mentalità. Sono ancora alla ricerca di un filosofo medico che sappia portare al culmine il mio sospetto che in ogni filosofare, quindi in tutta la storia della metafisica, che coincide con la storia della filosofia, non si è mai trattato di verità ma di sviluppo, di avvenire, di potenza, di vita”, cioè ciò che stava a cuore all’uomo era rassicurare la propria vita, assicurare le cose che gli servono per vivere, garantirsi la sussistenza in questo mondo attraverso la disponibilità di tutte le cose.

E mentre la tecnica antica si limitava ad assecondare la natura, per cui il mulino sfruttava il vento per muovere le sue pale, oggi invece la tecnica non si accontenta di sfruttare la natura, ma gli interessa accumulare ciò che ottiene da questo sfruttamento. Vale a dire, non si limita a usare ciò che la natura offre, ma a incamerare i risultati offerti dallo sfruttamento tecnico della natura per averli sempre a disposizione. L’essere a questo punto non è più la natura, ma come dice Heidegger: “Das Gestell”, usando una parola tedesca che sta a significare “deposito”. È il deposito, è il magazzino, è la disponibilità delle cose in qualsiasi momento, non solo quando la natura le offre, come offre il vento per far girare le pale del mulino, ma a disposizione ogni qual volta l’uomo ha intenzione di utilizzarle.

Per un nuovo inizio, dice Heidegger, non possiamo usare il linguaggio della metafisica perché è un linguaggio appropriante, un linguaggio che si appropria delle cose, che non guarda le cose per come sono ma per come devono essere utilizzate.

Un esempio molto semplice: se un poeta o un falegname vanno in un bosco, anche se il bosco offre le stesse piante, la stessa vegetazione, il poeta vede ciò che il bosco offre; il falegname, quando guarda le piante, vede già armadi, sedie, tavoli, cioè le guarda sotto il profilo dell’utilizzabilità. A questo proposito, dobbiamo smettere di pensare che la scienza sia pura e che la tecnica sia buona o cattiva a seconda dell’uso che se ne fa. La tecnica non è un derivato dalla scienza, non è ciò che viene dopo la scienza, e non è valutabile solo a seconda dell’uso che se ne fa, perché la tecnica è l’essenza della scienza. La scienza non guarda il mondo per contemplarlo, ma per utilizzarlo e manipolarlo. Quindi, l’intenzione della scienza è la tecnica, per cui dobbiamo parlare della tecnica come essenza della scienza.

Per usare la parola più semplice, dobbiamo parlare di tecno-scienza: non c’è una scienza pura e una tecnica applicata; la tecnica è già nella qualità dello sguardo scientifico. Ma cos’è probabilmente la tecnica? Forse è la forma più alta di razionalità mai raggiunta dall’uomo. La parola “razionalità” o, in generale, la parola “ragione” non è nata nell’ambito della filosofia; la parola “ragione” è nata nell’ambito dell’economia. La “ratio” era ciò che io ti dovevo dare quando tu mi vendevi qualcosa; dovevi darmi la giusta corrispondenza del valore delle cose che io ti stavo dando. Abbiamo sostituito il logos del pensiero aurorale, del pensiero iniziale, con la ratio, che è un’equivalenza nello scambio, un’equivalenza di valori.

Allora abbiamo un’economia regolata dalla ratio, ovvero dall’equivalenza negli scambi, per cui le cose non vengono guardate dal punto di vista del bisogno che esse soddisfano, ma semplicemente della loro capacità di scambiarsi tra di loro secondo questa ratio. Un esempio molto semplice: un bicchiere d’acqua svolge la stessa funzione, quella di dissetare, sia qui che nel deserto, ma qui non ha lo stesso valore di scambio che ha nel deserto; nel deserto costerebbe molto di più. E allora, se le cose valgono in funzione del denaro che producono, è chiaro che le cose vengano a loro volta snaturate, non più misurate sulla base del bisogno, ma misurate sulla base del loro valore, che non è nella soddisfazione dei bisogni, ma nella capacità di scambiarsi con altre cose, di cui il mediatore è il denaro.

Queste cose erano state in qualche modo già anticipate da Marx, quando distingueva il valore d’uso e il valore di scambio. Ora, sia l’economia che la tecnica, che sono i due grandi scenari dove funziona la razionalità, sono regolati da questo tipo di razionalità molto semplice, ma al tempo stesso molto pericolosa, qualora dovesse diventare la forma unica di pensiero, come giustamente Heidegger denuncia sia già diventata. La razionalità tecnica consiste nel raggiungere il massimo degli scopi con l’impiego minimo dei mezzi.

Questo modello è diventato anche il modello dell’economia, ma l’economia non è perfetta in questa razionalità perché l’economia ha ancora una passione umana: la passione per il denaro, mentre la tecnica è del tutto generata da questa passione. Per cui la tecnica non considera l’uomo, né le sue passioni; è razionalità pura, e i valori che diffonde sono esclusivamente i valori dell’efficienza e della produttività, nient’altro.

Ora, se questa razionalità diventa la forma universale del nostro modo di pensare, noi avremo una progressiva esclusione dell’uomo dalla storia. Questa cosa, i filosofi lo avevano già detto da un secolo: lo aveva detto Spengler, lo aveva detto Heidegger, lo aveva detto Jaspers, lo aveva detto quel discepolo di Heidegger che era Günther Anders, lo ha detto Severino. Cosa vuol dire che l’uomo è fuori dalla storia? Perché, se adotta, e questa adozione diventa universale, unicamente la razionalità tecnica… bene, non dimentichiamo che l’uomo è anche irrazionale perché il dolore è irrazionale, l’amore è irrazionale, la fantasia è irrazionale, l’immaginazione è irrazionale, l’ideazione è irrazionale, il sogno è irrazionale.

Tutte queste cose, per la tecnica, sono elementi di disturbo che vanno progressivamente messi da parte. Non solo: gli uomini diventano sempre meno soggetti di vita e sempre più funzionari di apparati; la nostra identità non è più qualcosa che ci caratterizza perché ci viene assegnata dall’apparato in cui siamo inseriti. Infatti, la nostra identità viene spostata gradatamente verso il ruolo. La parola “ruolo” viene dal latino “rotulus”, il rotolo su cui gli attori leggevano le parti a loro assegnate. Bene, oggi, se noi ci troviamo in una riunione, i convenuti ci dicono il loro nome, noi lo ascoltiamo e non ci dice niente quel nome; quando ci danno il biglietto da visita in cui viene indicata la loro funzione, incominciamo ad orientarci.

Allora, l’uomo viene spostato sul suo ruolo, è un’identità di ruolo che non dipende da lui, ma dall’apparato che glielo consegna. Quando l’apparato promuove il suo funzionario, abbiamo un incremento dell’identità; quando lo rimuove, un decremento di identità, con tutte le conseguenze che ne possono derivare. Le conseguenze negative hanno cambiato persino la psicopatologia nell’età della tecnica. Se prendiamo, per esempio, una delle sindromi più pesanti…

Heidegger non definisce mai l’uomo “uomo”, pure i tedeschi avevano la parola “Mensch” e la parola “Mann”. Lui definisce l’uomo come “essere-nel-mondo”, cioè io sono uno che è nel mondo. Anche questo paio di occhiali è nel mondo, solo che questi occhiali sono nel mondo, ma io sono nel mondo aprendomi a un mondo. Questa è la differenza: io non insisto nel mondo, non sono semplicemente dentro il mondo, io “ex-sisto”, sono nel mondo ma lo vedo anche questo mondo, rispondo al mondo, reagisco agli stimoli del mondo, mi sento impegnato dal mondo.

Questa diventerà la struttura fondante della psichiatria fenomenologica che ha le sue espressioni in Sartre, Jaspers, Merleau-Ponty, Binswanger, Minkowski, e qui in Italia abbiamo come massimo esponente vivente Eugenio Borgna, e non dimentichiamo Franco Basaglia. Il principio teorico di Basaglia, nella chiusura dei manicomi, deriva proprio da questa concezione dell’uomo heideggeriano, per cui l’uomo è un essere-nel-mondo che apre un mondo, e io vivo non nel mondo come le cose, ma nel mondo a partire dall’apertura e dai significati che io do al mio mondo.

Queste cose sono molto importanti; forse qui ci potrebbe essere un recupero dell’umanesimo, anche se Heidegger esclude che questa sia la procedura per cui si debba recuperare l’uomo, dal momento che è diventato il padrone del mondo. Però, è un uomo razionale, è un uomo inquietante perché non conosce un altro pensiero se non il pensiero che sa far solo di conto. Come si esce? Qui Heidegger, dopo aver esposto tutta la sua filosofia dell’essere-nel-mondo in Essere e Tempo, che è un’opera che è stata l’opera più commentata in tutto il mondo nel Novecento, la lascia interrotta.

E perché è interrotta? Perché, dopo aver descritto che l’uomo è diventato il padrone del mondo a partire da Platone e successivamente sempre di più fino ad approdare alla tecnica che Heidegger include nella metafisica, si rende conto che per descrivere una nuova modalità di essere al mondo è necessario un altro linguaggio, e non possiamo mobilitare tutto il linguaggio metafisico che ha duemila anni. E allora, si procede per tentativi. Quando un editore tedesco pubblica tutte le opere di Heidegger, che sono 104 volumi, lui vuole che sia messo in apertura di questa raccolta di tutte le sue opere l’espressione “cenni”, non “opere”.

Perché “cenni”? Perché bisogna inventare un altro linguaggio, un linguaggio che non sia il linguaggio della metafisica, che è un linguaggio che calcola, un linguaggio acquisitivo, un linguaggio che ha in vista il possesso, che ha in vista la rassicurazione del mondo. Ci vuole un altro linguaggio, e lui questo altro linguaggio lo va a cercare nei poeti, come Hölderlin, Trakl, Stefan George, perché i poeti sono anche loro produttori. Noi dimentichiamo, purtroppo, perché le nostre scuole non funzionano, e quindi non sappiamo neanche da dove vengono le parole: la parola “poesia” a cui Heidegger fa riferimento per trovare il nuovo linguaggio deriva dal greco “poiein”. “Poiein” vuol dire in greco “produrre”, ma la produzione poetica non è la produzione tecnica. Che cosa producono i poeti? Producono un nuovo linguaggio, la poesia è una produzione di nuovi linguaggi.

Allora, lui fa ricorso alla poesia, la quale non può diventare un sistema filosofico, e non lo può diventare perché non è sistematico il linguaggio dei poeti. I poeti lanciano parole nuove, e questo spiega innanzitutto perché Heidegger sia un accanito ricercatore di etimologie, e dall’altro perché non è possibile costruire una filosofia come sistema attingendo il linguaggio che ci proviene dalla poetica. È un linguaggio nuovo, un linguaggio non metafisico, non acquisitivo, non concettuale, che non ha in vista il possesso delle cose, ma che è libero, che si dischiude nell’aperto invece che nel chiuso del possesso. Questo linguaggio lui cerca di recuperarlo in un’altra grande opera che ha scritto e che ha intitolato Beiträge zur Philosophie (Contributi alla Filosofia).

Cosa vuol dire questo? Lo dice lo stesso Heidegger: “Devo chiamare le cose con un linguaggio noto”. Quest’opera la chiama “Contributi alla Filosofia”, però una filosofia nuova. E dov’è la novità? Nell’evento, nel “Ereignis”. Cioè, i poeti fanno emergere un linguaggio nuovo che può essere un nuovo inizio, un nuovo modo di pensare che non sia il pensiero calcolante, che è il pensiero calcolante affermato dal mondo economico e dal mondo tecnico. Naturalmente, questo libro è un libro che non procede sistematicamente, è un libro che lascia tutti un po’ sospesi, e allora qualcuno ha stabilito che Heidegger è diventato un confusionario, o addirittura un mistico, o addirittura un esoterico, solo perché l’impostazione metafisica che è nella testa di tutti noi non ci consente di accedere a questo nuovo inizio, che è attingere da quella produzione nuova di cui i poeti sono i portatori, la produzione di un nuovo linguaggio.

Heidegger è stato anche oggetto di accuse – fondate – circa la sua adesione al nazismo. Anche qui vale la pena di dire qualcosa: adesione al nazismo e adesione all’antisemitismo. Per quanto concerne l’antisemitismo, io, guardando bene tutte le cose, non credo che sia stato antisemita. Primo, perché lavorava con i suoi colleghi ebrei. Secondo, perché quando ha iniziato il nazismo, ha cercato di sistemare tutti i suoi allievi ebrei in cattedre universitarie o in incarichi universitari fuori dalla Germania. Abbiamo una lettera in cui si rivolge a sua moglie dicendo: “Non ho mai guardato se uno era ebreo o ariano, ho guardato solo nei miei studenti chi era intellgente e chi no”. Questo è l’atteggiamento di Heidegger, e sotto questo profilo lo posso anche capire. Posso anche capire che le accuse di antisemitismo non sono granché fondate. Del resto, la Germania era antisemita già dall’Ottocento, e tutti i grandi pensatori, a partire anche dal famosissimo pensatore tedesco Schmitt… Il filosofo e sociologo Gadamer dice: “Ma il fatto stesso che si sia innamorato di Hannah Arendt, che era ebrea, forse è la prova che questo antisemitismo non era in lui fondato”.

Per quanto concerne invece la dimensione di nazismo, sì, dobbiamo dirlo: Heidegger ha accettato la carica di rettore all’università, perché quando il precedente rettore è stato trasferito, i professori hanno chiesto a Heidegger di diventare rettore. Allora, onde evitare che il ministro della cultura tedesca mandasse un nazista a fare il rettore all’università, Heidegger ha accettato. Ha accettato ed è stato rettore per otto mesi. In quegli otto mesi ha evitato di bruciare i libri degli ebrei, altra prova che non era antisemita. Questo ha disturbato molto il ministro della cultura e tutti i professori nazisti che ormai avevano occupato le cattedre della sua università, e lo obbligarono a dimettersi per mandare un rettore che fosse un nazista al 100%.

Heidegger a quel punto si è dimesso. L’idea che io mi sono fatto è che lui fosse assolutamente impreparato dal punto di vista politico. Dopo la guerra, quando è entrato il comando militare francese, Heidegger è stato esonerato dall’insegnamento, è stato mandato nella sua casa, ma nella sua casa ha aggiunto altre due famiglie. Heidegger scriveva in una piccola cameretta senza libri, perché i suoi libri erano stati tutti portati via dalla sua casa e mandati all’università di Magonza. Nonostante questo, non ha smesso di scrivere, di pensare, di lavorare.

Sempre il comando militare francese organizza una commissione per stabilire se Heidegger è o non è nazista, e la commissione, composta da Romano Guardini, Karl Jaspers, e Nicolai Hartmann, conviene che sì, è stato nazista. Dopodiché, continua la sua assenza dall’università, ma non si interrompe la sua attività di scrittura, finché un giorno, finito tutto il nazismo, siamo negli anni ’51-’52, il rettore dell’università chiede a Jaspers se è il caso di reintegrare Heidegger nell’insegnamento. E Jaspers, con cui Heidegger aveva avuto una grande amicizia, interrotta nel 1933 quando Heidegger era diventato rettore dell’università di Friburgo, risponde a questo rettore dicendo: “Sì, può essere riammesso, perché se ci priviamo del pensiero di Heidegger e gli proibiamo di pubblicare le sue opere, ci priviamo del pensiero più grande attualmente mondiale che abbiamo a disposizione”.

Ecco, questo è Heidegger, con tutta la sua ambivalenza. Anche perché, lui, fondamentalmente, cos’era? Era un uomo che viveva in cima a una montagna, scriveva a lume di candela perché nella sua baita non aveva luce elettrica, scendeva con gli sci, come ci ricorda Gadamer, quando doveva insegnare, affascinando una quantità incredibile di studenti. Karl Löwith ha dato ampia testimonianza anche del suo modo di vestire, che era un modo di vestire da contadino. Era ripreso molto spesso le autorità accademiche che ritenevano si dovesse venire vestiti in un altro modo. E il fascino che però esercitava su questi suoi allievi, la modalità con cui pensava, l’acribia con cui sfondava i testi della metafisica, la competenza filosofica ad altissimo livello… Non ho alcun dubbio che sia il filosofo più grande del Novecento.

Questa è la ragione per cui ho scritto questo libro su Heidegger, e ho messo come sottotitolo “Il pensiero al tramonto dell’Occidente”, perché l’Occidente non potrà che tramontare. Non si può reggere una cultura e una civiltà su un unico valore, che è il valore della razionalità tecnica ed economica. Del resto, nella parola “Occidente” è già scritto il significato di “terra della sera”. I tedeschi lo esplicitano, lo chiamano Abendland, “terra della sera”. E dopo la sera arriva la notte. Allora Heidegger si chiede: stiamo precipitando verso la notte del mondo o c’è la possibilità di recuperare uno spirito europeo? Heidegger muore nel 1976, ma la sua visione profetica della tecnica, quando all’epoca non c’era ancora l’informatica e la tecnica non aveva raggiunto i livelli che ha raggiunto oggi, è stata una dimensione profetica, secondo me, non ancora superata, ma troppo poco pensata.

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