Il Barone rampante di Italo Calvino si distingue per la sua struttura narrativa unica, lontana dal realismo ottocentesco e dalle radici romantiche, avvicinandosi invece al romanzo filosofico settecentesco. La narrazione si concentra sulle azioni e sulle idee, con un linguaggio essenziale e distaccato, privo di implicazioni realistiche o introspezione psicologica. La coerenza stilistica e narrativa si mantiene fino alle ultime pagine, nonostante un lieve calo di ritmo, culminando in un finale epico che sottolinea l’originalità e la ricchezza della prosa di Calvino.
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Nel suo intervento nel numero di «Ulisse» dedicato alle sorti del romanzo Italo Calvino scriveva: «Io auspico un tempo di bei libri pieni d’intelligenza nuova come le nuove energie e macchine della produzione, e che influiscano sul rinnovamento che il mondo deve avere. Ma non penso che saranno romanzi; penso che certi agili generi della letteratura settecentesca — il saggio, il viaggio, l’utopia, il racconto filosofico o satirico, il dialogo, l’operetta morale — devono riprendere un posto di protagonisti nella letteratura, dell’intelligenza storica e della battaglia sociale. Il racconto o romanzo avrà quest’atmosfera ideale come presupposto e come punto d’arrivo; perché nascerà da questo terreno e influirà in esso. Però lo farà in un solo modo: raccontando». In queste parole è la preistoria, come meditazione e confessione di poetica, del Barone rampante, allo stesso modo che a questa conclusione conduce l’esperienza del Visconte dimezzato: due testi, cioè, che si distinguono anzitutto per la struttura nuova del racconto filosofico, dell’operetta morale, dell’utopia, appunto, e vivono in una temperie di illuministica chiarezza, in forza del loro linguaggio fermo e limpido, senza increspature, senza le ricerche consuete del nostro tempo di precisione documentaria o di esasperazione espressionistica, tenuto a un degré zèro, di decoro e di razionale dominio, appena mosso dalla lieve deformazione di un’ironia che è senso di distacco, giudizio, ma soprattutto sottile vena di elegia, che nasce dalla coscienza dell’impossibilità di totale identificazione dello scrittore con la misura e il tempo della sua fantasia morale, della sua favola pedagogica. Proprio da questi dati di stile è necessario partire per definire il valore che Il barone rampante ha nella situazione attuale della narrativa italiana (e non solo italiana): si pensi per contrasto a certe impostazioni ideologiche del problema del romanzo, di tipo astratto e meccanico, secondo le quali solo la fedeltà alla poetica realista rappresenterebbe la via maestra dell’arte, un realismo orecchiato sui modelli ottocenteschi (per cui qualcuno ha parlato di evasione reazionaria per il Visconte dimezzato, in confronto con le positive prove realistiche che sarebbero rappresentate da Il sentiero dei nidi di ragno e da Ultimo viene il corvo: chiara dimostrazione di una gran confusione di idee sia in letteratura sia in politica). Proprio i dati stilistici, infatti, impediscono di situare sia Il visconte dimezzato sia, ora, Il barone rampante sotto il segno della libera fantasia, della fiaba, più di quanto sia possibile parlare di fiaba per opere come Candide o come Jacques le fataliste: non c’è nel discorso di Calvino nessuno degli stilemi che traducono il passaggio dal reale al fiabesco, nessuno dei termini dell’evasione surreale, ma sempre vi diffonde la sua luce una chiarezza razionalistica che con esatto calcolo presiede alla sistemazione dei vari episodi, nello svolgersi complessivo della moralità, dell’apologo di cui il romanzo è illustrazione.
È, questa di Calvino, una narrativa del tutto al di fuori delle suggestioni del realismo ottocentesco e delle sue radici romantiche: si veda quanto poco appaiano definiti dall’interno, individuati in un sistema di pensieri e di sentimenti, i suoi personaggi, come, in conseguenza dì ciò, essi risultino interamente dai dati fisici, dall’esteriorità degli atti che compiono. È questo l’esito di una volontà precisa di riferimento ai moduli del romanzo settecentesco: la attenzione portata sull’azione, sulle modalità esterne degli eventi, sul loro rapido incalzarsi, al di qua di ogni indugio sull’individuazione degli impulsi interiori, sulla loro giustificazione (di qui gli scatti meccanici, un po’ astratti rispetto ai personaggi che li compiono, degli episodi, delle avventure); e, correlativamente, un acuto interesse per le idee, per le discussioni generali, i principi e i concetti, di cui le azioni devono essere precisi corollari, nell’ambito sempre di un chiaro calcolo e dominio razionale; e, ancora, parallelo a quest’ultimo motivo, un interesse curioso per la tecnica, per la scienza. «Racconto filosofico», Il barone rampante appare del tutto libero dai modi dell’indagine realistica secondo la codificazione di suoi modelli della narrativa borghese dell’ottocento, allo stesso modo che è estraneo alle forme stilistiche dell’analisi interiore e della giustificazione psicologica: il suo è un linguaggio senza implicazioni realistiche, di un’estrema essenzalità in rapporto con l’agile ritmo delle avventure, descritte col distacco di una cronaca obiettiva, nella quale i toni della memoria non sono quelli della ricerca novecentesca, quanto piuttosto quelli dei grandi memorialisti del settecento, e i momenti descrittivi non rispondono né a una volontà di elegante e raffinato esercizio di stile, né al riporto analitico dei dati esterni ai dati interiori, ma significano un’intenzione di nuova appropriazione degli elementi naturali, la conquista, anche questa in una prospettiva di riferimenti illuministici, della sua sanità e bellezza, e anche della sua utilità, in rapporto cordiale e in continuo scambio con l’uomo. […]
Il barone rampante si dispiega con una sua coerenza mai tradita, dalle prime avventure di Cosimo con i ladruncoli di frutta alla lotta contro i pirati barbareschi, dal soggiorno con i nobili spagnoli esiliati sugli alberi all’amicizia letteraria col bandito Gian dei Brughi, dalle avventure amorose con le donne della campagna a quella ben più seria e inquieta con la marchesina Viola, dall’epica caccia ai lupi alle non meno memorabili imprese contro gli eserciti austriaci durante le guerre della Rivoluzione (ma qui, a tratti, il controllo razionalistico viene meno, e allora più che a Candide viene da pensare alle avventure del barone di Münchhausen), dalla rivolta dei contadini all’incontro con Napoleone, fino all’ultimo episodio, che rialza di colpo il tono del libro appesantitosi nell’ultima parte per una minore alacrità di ritmo e una certa fretta stilistica: la sparizione del barone Cosimo moribondo che si afferra all’ancora di una mongolfiera di passaggio sul suo albero: che è una soluzione epicamente grandiosa, quasi un’assunzione al cielo, per l’insolita esistenza del personaggio. Se un rischio vi è nella scelta di Calvino (e avvertibile riesce appunto nelle ultime pagine del Barone rampante,), è quello della ripetizione, dell’istituzionalizzarsi della sua struttura narrativa in formula di facile applicazione: ma quanto nuovo e ricco appare oggi il suo discorso, ben al di là dello spartiacque della polemica realista, come attingimento di un linguaggio che è oltre la trascrizione del parlato, la raffinatezza della prosa d’arte a degli espressionismi dialettali, e apre una dimensione nuova del narrare, e anche una nuova cultura.
Fonte: Poesia e narrativa del secondo Novecento, Mursia, Milano, 1961, pp. 265-68 passim.
BIBLIOGRAFIA
Opere citate:
E. Falqui: Novecento letterario, serie VI, Vallecchi, Firenze 1961.
G. Pullini: Il romanzo italiano del dopoguerra, Marsilio Editori, Padova 1965.
M. Guglielminetti: «I. Calvino», in Appendice alla Storia della letteratura italiana di A Pompeati, U.T.E.T., Torino 1965.
G. Petronio: «I. Calvino», in L’attività letteraria in Italia, Palumbo, 1970.
Si vedano inoltre:
F. Virdia: Italo Calvino narratore, in «Il Cannocchiale», 1966, 1-3.
C. Marabini: Italo Calvino, in «Nuova Antologia», novembre 1967.
C. Pescio Bottino: Italo Calvino, Firenze 1967.