La fine della Seconda guerra mondiale non ha portato a una vera pace, ma solo a una tregua tra i grandi poteri imperiali. La deterrenza nucleare sembra vacillare, e la tecnica militare avanza verso l’uso di armi senza conseguenze catastrofiche immediate. La volontà di potenza domina, schiacciando le istituzioni giuridiche e filosofiche. I conflitti non dichiarati trasformano il mondo in uno stato di eccezione permanente, alimentando paure e incertezze. Le vecchie strutture statali sono in crisi, sostituite da complessi interessi globali. La sopravvivenza dipende dalla capacità degli Imperi di comprendere e adattarsi al nuovo significato della guerra, spostando la competizione sul piano tecnologico e culturale, piuttosto che militare.
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di Massimo Cacciari
Chiediamocelo dunque – poiché forse di fronte all’immagine della catastrofe potremmo cercare con più forza di evitarla: non è stato che un intervallo la non-guerra, o la guerra per interposta persona, tra i grandi spazi imperiali dopo la Seconda guerra mondiale? Nient’altro che una pausa per meglio prendere la rincorsa in vista della definitiva “sistemazione” del pianeta? Perfino l’atomica, questa formidabile arma di equilibrio, sembra aver perduto il suo potere deterrente. Forse in qualche laboratorio del grande complesso militare-industriale si è scoperto il modo di usarla senza finire tutti sottoterra.
Così come si inventano virus e poi vaccini, armi batteriologiche e poi antidoti. Soltanto la Tecnica, è noto, può, secondo la vox populi, risolvere i problemi che essa stessa genera. Se siamo certi di poter usare la Bomba senza che ci colpisca come un boomerang perché non usarla? Chi ha detto che è morto il dottor Stranamore? E chi dice che oggi finirebbe male? Lo puoi fare? – dice ancora la vox populi – E allora fallo.
Quale Giudice, d’altra parte, quale Autorità terza potrebbe impedire che la logica della guerra (ancora) non dichiarata, ma in atto, si svolga “iuxta propria principia”?
Se la filosofia se ne va misera, via dal mondo dove a parlare è solo la volontà di potenza, la scienza giuridica non conosce disfatta minore. Sognava, un tempo non certo remoto, addirittura una giuridicizzazione del conflitto politico. Contribuiva, coi suoi massimi esponenti, alla creazione di Alte Corti di Giustizia, di Corti penali internazionali. Si batteva per conferire all’Onu effettivi poteri sovranazionali, superando la procedura dei veti. E citavano anche i filosofi i nostri giuristi, per dare fondamento alle loro teorie del diritto internazionale: i Rawls e gli Habermas – e maledicevano il cupo realismo dei Miglio e degli Schmitt.
La grande politica è tornata a imporsi in tutta la sua tragicità. Volontà di potenza contro volontà di potenza. E schiacciate nel mezzo le istituzioni che ne avrebbero dovuto giudicare gli atti e anche giungere a sanzionarli. Esplicitamente ormai queste istituzioni sono considerate “nihil” dai detentori del potere effettuale. Nihilismo concreto: ogni soggetto non dotato di potere in atto è niente, semplicemente non è. Parla, dichiara, ma la parola non ha più valore. Neppure più il velo dell’ipocrisia sta a coprire la realtà che il diritto vigente è il diritto del più forte. Ma proprio questo è il problema: chi è il più forte? Come lo si deciderà?
Tacciono i filosofi, muti i giuristi, le assemblee parlamentari ridotte a fantasmi. Non ci sarà altro arbitro, allora, che il conflitto in armi? La decisione spetterà soltanto al vincitore? Così è sempre stato e così è destino avvenga ancora, se tutti gli istituti di mediazione, tutti i luoghi di discussione e compromesso vengono smantellati.
Quando la rotta non è più segnata dalla volontà del confronto e del compromesso – o quando sembra che il perseguirlo non corrisponda più ai propri interessi – la situazione normale trapassa nell’imprevedibile. Normale diviene il susseguirsi di situazioni eccezionali. Virus locali ovunque in agguato che possono in ogni istante esplodere nella Pandemia. E ciò moltiplica le istanze di controllo, di sorveglianza, il rafforzamento spasmodico di barriere di ogni tipo, l’accentramento delle funzioni esecutive.
O si esce dalla guerra tra i grandi spazi imperiali o questa prospettiva distopica si svilupperà inesorabilmente. L’incertezza sul futuro genera paura. Sembra non esservi più nulla intorno a noi che possiamo dire capace di dar forma al futuro. Un grande scrittore del Novecento, Elias Canetti, ha parlato di questa situazione in pagine memorabili. «Questa cattedrale con i suoi ottocento anni potrebbe ridursi in polvere la prossima notte… questa città traboccante di vita crollare in un quarto d’ora». Se non avvertiamo la realtà del pericolo non potremo superarlo. Se lo comprendiamo, invece, può crescere la possibilità di salvezza.
L’incertezza che domina sempre più la nostra vita deriva certo anche dal fatto che non possiamo più rivolgerci al potere dello Stato come al regolatore in ultima istanza. Noi “fingiamo” ancora che il governo si costituisca nel sistema dello Stato, ma in realtà l’Auctoritas che decide è la risultante di una serie straordinariamente complessa di atti, mediazioni, conflitti tra oligarchie economico-finanziarie globali, in cui si incarnano le funzioni di Ricerca e Sviluppo, e dimensioni amministrativo-burocratiche particolari degli apparati statuali o di insiemi di Stati, come nel caso dell’Unione Europea.
È questo il “luogo” del Politico oggi – “luogo” che coinvolge non solo la navicella del pianeta, ma lo spazio in cui essa ancora naviga. È “male” questa situazione? A vedere la resistenza dei governi dei vecchi Stati europei e la senile gelosia con la quale proteggono gli antichi privilegi, si direbbe di sì. Ma forse è proprio il carattere globale del confronto tecnico-economico e la mescolanza di interessi che esso produce a contenere e frenare gli appetiti egemonici di quei soli Stati in grado di svolgere ancora una propria politica, cioè i grandi Imperi. Forse è proprio lo “stacco” tra statuale e effettiva potenza politica a trattenerci sull’orlo della catastrofe.
Ma non potrà durare se gli Imperi non sapranno interrogarsi su cosa significhi guerra oggi, su che cosa per essi voglia dire vittoria. È possibile vincere la Guerra? E le guerre debbono per forza essere condotte attraverso massacri e distruzioni? La Guerra non può essere vinta. Le guerre sì, ma senza necessariamente ricorrere all’antico, crudele, barbaro gioco delle armi. A cosa porta la vittoria militare? A cosa ha portato in Iraq? Nessuna vittoria “a ferro e fuoco” può più portare alla sottomissione della nazione vinta. Figurarsi nel caso di grandi spazi culturali, di millenari Imperi, se è immaginabile la loro umiliazione. Il “metodo” non può che essere quello della competizione sul piano complessivo della Tecnica: sviluppo, innovazione, efficienza amministrativa. E anche modello culturale, giuridico. Su questi piani la vittoria può essere reale, l’egemonia effettiva. Fin quando vi saranno uomini vi saranno nemici, diceva l’umanista Petrarca. Ma non è affatto necessario che i nemici siano così ciecamente tali da pensare di poter vincere soltanto rischiando con la Guerra l’auto-distruzione.
La Stampa, 29 luglio 2024