Il realismo e Guicciardini

Francesco Guicciardini, con "I ricordi", offrì un prezioso manuale di sopravvivenza politica, enfatizzando l'interesse personale e l'abilità nel prosperare in tempi traditori.

Durante il fascismo, gli italiani affrontarono il problema antico di sopravvivere e prosperare tra guerre, rivoluzioni e tirannie, senza la protezione della legge. Le soluzioni escogitate erano spesso insoddisfacenti e parziali. Francesco Guicciardini, considerato un esperto in queste arti di sopravvivenza, confidò la propria esperienza nel suo taccuino segreto, “I ricordi”, pubblicato secoli dopo la sua morte. Questo taccuino è un manuale per navigare in tempi traditori e mantiene un valore inestimabile ancora oggi.

Guicciardini e Niccolò Machiavelli, entrambi fiorentini e contemporanei, erano amici e rivali, con carriere politiche parallele. Tuttavia, i loro approcci alla vita e al potere differivano profondamente. Machiavelli era un idealista e sognatore, sperando che un grande capo potesse unire l’Italia e governarla con mano ferma. Credeva che la storia potesse essere dirottata e che i mali d’Italia potessero essere risolti con sistemi realistici, come una milizia cittadina e un grande capo che utilizzasse tutti i mezzi della scienza di governo dell’epoca.

Guicciardini, d’altra parte, era pragmatico e realista. Figlio di una famiglia patrizia, fu educato severamente e condusse una vita più ordinata e riservata rispetto a Machiavelli. Non aveva illusioni giovanili e credeva fermamente che la ricerca del successo fosse un imperativo assoluto. Riuscì a mantenere una posizione di potere e a prosperare sotto diversi regimi grazie alla sua abilità, prudenza e conoscenza della natura umana. Occupò con successo alcune delle più alte cariche d’Italia e contribuì alla realizzazione dei progetti dei Papi, consolidando i domini materiali della Chiesa.

Guicciardini accettava la discrepanza tra i suoi pensieri personali e le sue decisioni pubbliche come una realtà della vita. Era devoto e religioso in privato, ma nelle sue decisioni pubbliche agiva sempre per il proprio interesse. Credeva che fosse necessario imparare a vivere con i tiranni, comportandosi con prudenza e, se necessario, dissimulazione. La sua formula fondamentale era che gli uomini dovessero sempre anteporre il proprio interesse personale e misurare tutte le azioni con questo fine. Tuttavia, capiva anche che l’onore e la reputazione erano essenziali per mantenere e accrescere la propria posizione.

Gli italiani, secondo Guicciardini, non hanno bisogno di leggere i suoi scritti per sapere come comportarsi; hanno imparato da tempo a essere realistici, a badare ai propri affari e a non farsi ingannare dalle apparenze. Preferiscono piaceri tangibili e sostanziali e sono sospettosi verso ideali nobili e sentimenti elevati. Questo atteggiamento è riflesso nella loro cultura e letteratura, che spesso esalta i forti e deride i deboli.

Gli italiani moderni, pur avendo attraversato il Risorgimento e altre trasformazioni, mantengono molte delle stesse caratteristiche. Sono realisti, diffidenti verso le illusioni e concentrati su interessi concreti. Tuttavia, questa predilezione per il palpabile e il concreto ha anche prodotto alcune delle opere d’arte e letteratura più vivide e realistiche, che continuano a influenzare il mondo oggi.

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IL REALISMO E GUICCIARDINI

di Luigi Barzini

Il problema che molta gente dovette affrontare durante il fascismo è antico quanto l’Italia: come sopravvivere e possibilmente prosperare, tra guerre civili, rivoluzioni e invasioni straniere, sotto tiranni sanguinari e i loro avidi cortigiani in tempi corrotti, senza la protezione sicura della legge. Va detto che quasi tutti gli accorgimenti escogitati dagli italiani sono insoddisfacenti. Si tratta, nel migliore dei casi, di soluzioni parziali. È possibile sopravvivere e prosperare in un mondo in sfacelo, ma quanto meglio gli uomini singolarmente riescono a proteggersi dalle calamità, tanto peggiore diviene il mondo. Eppure, che cosa deve fare un poveretto che non è fatto della stoffa degli eroi? Non può cambiare la storia passata. Non può scegliere i tempi nei quali nasce. Non gli è possibile deviare il corso degli avvenimenti. Può soltanto tentare di difendersi dalla violenza cieca degli eventi, tenere la bocca chiusa e badare agli affari suoi. Forse il piú grande esperto italiano in queste arti (per lo meno il solo che ne abbia scritto) è Francesco Guicciardini che le mise alla prova e le raffinò durante la sua attiva e fortunata esistenza. Egli confidò la propria esperienza a un taccuino segreto, I ricordi, che fu pubblicato soltanto secoli dopo la sua morte. È il miglior manuale che si conosca per navigare in tempi traditori. Il suo valore è ancor oggi inestimabile.

Montaigne, che esercitò con onore le affini arti francesi del savoir faire e del savoir vivre, lo chiamava, affettuosamente, « mon Guichardin». Persino Machiavelli, il cui nome è divenuto proverbiale all’estero come quello dello spietato codificatore delle regole italiane del gioco, rese omaggio al rivale, per il quale provava non soltanto la piú alta stima, un sentimento raro tra concorrenti, ma anche ammirazione, amicizia, e addirittura affetto. « Amo messer Francesco Guicciardini, amo la mia patria piú dell’anima mia », scrisse una volta. Non avrebbe potuto dire di piú, in quanto amava la sua piccola patria, Firenze, e la sua grande patria, l’Italia, letteralmente piú dell’anima sua.

I due uomini sono stati ripetutamente paragonati nel corso dei secoli. Il parallelo è quasi irresistibile. In fin dei conti, erano entrambi fiorentini, nati nella stessa città press’a poco nello stesso periodo (Machiavelli nel 1469 e Guicciardini nel 1482); entrambi cominciarono giovani, quando la repubblica li impiegò come ambasciatori; entrambi seguirono carriere politiche e furono affascinati dalla tecnica di governare gli uomini e di conseguire il potere. Entrambi, alla fine, furono sconfitti e decisero di ritirarsi nelle loro proprietà di campagna, ove studiarono, scrissero opere storiche e meditarono sulle leggi immutabili e misteriose degli eventi umani; entrambi pervennero alla conclusione che uomini e cose erano quello che erano e che ogni ragionevole piano d’azione doveva partire da tale assunto. I due amici ritenevano che la ricerca del successo fosse un imperativo assoluto, per gli individui oltre che per gli stati, la sola meta ragionevole dell’azione. « Colui che non ha alcuna posizione nella vita », scrisse Machiavelli, « non può neppure farsi abbaiare contro da un cane. »

Ma, nonostante queste analogie superficiali, i due uomini differivano profondamente. Machiavelli, il piú anziano, conservava alcune illusioni giovanili d’una piú verde e piú felice età. Era soprattutto un artista e scrisse la prosa forse piú bella, scarna e muscolosa di tutta la letteratura italiana; a volte amara, caustica, ironica o arguta, a volte solenne, grave e sonora, ma sempre limpida. Condusse una vita irregolare, quasi da bohémien. Fu un brillante fallito e non riuscí mai a raggiungere realmente i suoi fini: non possedette mai le donne che desiderava, non soddisfece le proprie ambizioni, non giunse alla vetta della carriera politica e non fu mai preso sul serio finché visse. Morí quasi povero: non riuscí mai a convincere la repubblica di Firenze a pagargli gli arretrati e a rimborsargli le spese. Non riuscí mai neppure a veder pubblicate le sue opere immortali. Fu l’eterna vittima dei mutamenti politici: non aveva compiuto alcun progresso quando Firenze era democraticamente governata dal popolo; ma quando i Medici tornarono al potere, fu arrestato e torturato con quattro giri di ruota come repubblicano; in seguito, quando la repubblica fu una volta di piú restaurata, venne guardato a torto con sospetto ed escluso dagli affari pubblici come sostenitore dei Medici. Tale è la sorte degli uomini troppo intelligenti che, tuttavia, non sono intelligenti abbastanza per celare la loro intelligenza e placare e assopire i timori e i sospetti altrui. (Dice un antico motto toscano: « Figlioli, state fermi e arriverete primi ».)

Machiavelli fu in realtà troppo sognatore e ottimista per poter conseguire risultati pratici. Credeva che si potessero scoprire sistemi sicuri per risolvere il problema nazionale italiano; credeva che la storia potesse essere dirottata, il destino sviato, la gente cambiata, naturalmente non già mediante insegnamenti morali, crociate, riforme di struttura e preghiere, ma con espedienti e mezzi realistici. Credette (proprio come, trecento anni dopo, Stendhal doveva ingenuamente credere che tutti i mali d’Italia sarebbero scomparsi il giorno in cui fosse stato adottato un sistema parlamentare bicamerale) che una milizia di cittadini soggetti a coscrizione, tale da poter evitare la necessità di eserciti mercenari comandati da condottieri corruttibili, avrebbe reso invincibile il paese. (Questa proposta venne respinta dal piú esperto Guicciardini, quando era governatore della Romagna, perché astratta e pericolosa; egli riteneva che nessuno avrebbe potuto impedire ai cittadini, una volta armati, di farsi guerra a vicenda.) Machiavelli sperava, soprattutto, nell’avvento di un grande capo, di un superuomo in grado di compiere il miracolo di unire l’Italia e di governarla con mano ferma, di un uomo capace di tenere a bada gli eserciti stranieri e i nemici interni ricorrendo a tutte le arti e ai mezzi della scienza di governo dell’epoca, i veleni, l’inganno, il terrore, le corruzioni, le spie, e, se necessario, la giustizia.

Guicciardini non era un artista. Non condusse un’esistenza irregolare. Non si fece illusioni. Figlio di famiglia patrizia, fu educato severamente. La sua virtuosa gioventú era trascorsa, come scrisse egli stesso, senza corruzione, frivolezza o perdita di tempo. Il suo vizio, che si sappia, fu uno solo, le donne, per le quali ebbe una passione durevole e ostinata, anche se segreta, donne di ogni condizione e di ogni età. (Non gli piacque mai la moglie, che aveva sposato per ragioni politiche e che lasciava sempre a casa.) Sembrava cosí freddo, riservato e inflessibile, da destare l’avversione di tutti coloro che lo conoscevano solo superficialmente. Aveva appreso le prime lezioni nell’arte di sopravvivere e di prosperare in tempi traditori dal padre Piero. Piero era inaffondabile. Riusci a conquistarsi una buona reputazione, ma non cosí buona da spaventare il prossimo; riuscí ad arrivare ad alte cariche, ma non cosí alte da provocare invidie e critiche. Aveva sempre sentito che il tempo stava per mutare con un anticipo sufficiente per prepararsi senza una fretta volgare. Prosperò sotto tutti i regimi, popolari e aristocratici, democratici e tirannici.

Francesco possedeva lo stesso senso vivo della meteorologia politica e riuscí a rimanere a galla quasi con la stessa sicurezza fin quasi all’ultimo, pur attraversando talune delle piú complesse e mortali convulsioni della storia italiana, forse con una dignità e una disinvoltura ancor piú grandi di quelle del padre. Rimanere a galla, prosperare, esercitare il potere, erano dopo tutto i suoi unici scopi. Occupò con successo alcune delle piú alte cariche d’Italia, pervenendo quasi a poteri sovrani. Si fece una solida reputazione, coltivò con serietà gli studi storici e politici, e accrebbe notevolmente il proprio patrimonio personale. Ottenne tutto quel che voleva con mezzi onesti, senza adulare i potenti, o adulandoli con tale discrezione da non essere scoperto. « Lascio sempre che siano le cariche a corrermi dietro, e non viceversa », scrisse sdegnosamente. Ciò fu dovuto alla fortuna, al suo carattere e alla sua educazione, a una conoscenza esatta della natura umana, alla sua abilità e alla sua prudenza che rendevano a chiunque desiderabili i suoi servigi in difficili incarichi. Anche coloro che lo odiavano continuavano ad ammirarlo: « Era messer Francesco,» scrisse Benedetto Varchi, che non lo poteva soffrire, « oltre la ricchezza, oltre il grado del dottorato, oltre l’essere stato governatore e luogotenente del Papa, riguardevole ancora, e straordinariamente riputato, per la non solo cognizione, ma pratica, che egli aveva grandissima delle cose del mondo e delle azioni umane, le quali egli discorreva e giudicava ottimamente, ma non già cosí le metteva in opera. »

Ecco, brevemente, le tappe della sua rapida carriera. Era un avvocato ventinovenne quasi sconosciuto quando la repubblica lo nominò ambasciatore presso il re di Spagna. Nel 1515, a trentatré anni, fu inviato a rendere omaggio al grande Papa Leone X, un concittadino, l’ex cardinale Giovanni de’ Medici. Leone X, che aveva fiuto per gli uomini capaci, gli concesse il suo favore e tre anni dopo lo nominò governatore delle città ribelli di Reggio e Modena. Nel 1521 i suoi poteri furono estesi anche a Parma. Il giovane e inesperto avvocato fu cosí saggio da circondarsi di pompa principesca, di un seguito imponente e di scorte di cavalieri e fanti ogni volta che si mostrava in pubblico. Fu un governatore capace. Agí spietatamente contro tutti i sudditi rivoltosi, non soltanto coloro che si schieravano con l’imperatore ed erano, di conseguenza, selvaggina consentita, ma anche coloro che si schieravano con il Papa, avevano amici alla corte romana e avrebbero potuto rendere difficile la vita al governatore. Disarmò tutti, arrestò e torturò gli elementi sospetti, qualunque fosse il loro rango, condannò a morte banditi e assassini, applicò in genere la legge e impose l’ordine, pavimentò con pietre le vie principali e risanò il bilancio. Il Papa che succedette a Leone X, dopo il breve interregno di un altro pontefice, fu anch’egli un Medici, Clemente VII: nominò il quarantunenne Francesco viceré della vasta provincia di Romagna e, tre anni dopo, luogotenente generale degli eserciti papali.

Nel 1531 Guicciardini divenne governatore di Bologna, la piú importante di tutte le luogotenenze papali. Dopo la morte di Clemente VII, nel 1534, rassegnò le dimissioni e tornò a Firenze per darsi alla politica cittadina come fedele seguace dei Medici. Con il suo appoggio, Alessandro de’ Medici conquistò il potere. Era un tiranno crudele, stupido, avaro e dissoluto; ordinava di portargli negli appartamenti privati le graziose fanciulle e le belle matrone di Firenze, e fu odiato da tutti, compreso il Guicciardini, che ciononostante lo serví lealmente. Alessandro venne assassinato. Messer Francesco si avvalse allora di tutta la sua abilità politica e del suo ascendente per dare il potere a un altro tiranno, il giovane Cosimo de’ Medici, appartenente a un ramo cadetto della famiglia.

La nomina di Cosimo fu il solo errore da lui commesso. Cosimo era un ragazzo di diciassette anni, appassionato di sport e di frivole occupazioni. Guicciardini ritenne che si sarebbe limitato a divertirsi con i dodicimila fiorini d’oro che gli sarebbero stati versati ogni anno, lasciando a lui le questioni di Stato. (Benedetto Varchi descrive Messer Francesco che inconsapevolmente rivela i suoi segreti disegni mentre discute la nomina di Cosimo. Si proponeva « gli dovessero essere pagati per suo piatto ogni anno 12.000 fiorini d’oro e non piú, avendo il Guicciardini, abbassando il viso e alzando gli occhi, detto: “Un 12.000 fiorini d’oro è un bello spendere” ». Il gesto sarebbe ancora eccellente per il personaggio scellerato di un’opera italiana o di un film in costume.) Guicciardini ignorava che Cosimo era un enfant prodige politico, un precoce statista adolescente. Con discrezione e modestia e con una conveniente ostentazione di deferenza, l’inesperto giovane si era servito dello scaltro e circospetto veterano, uno dei piú grandi uomini politici di tutti i tempi, come di una scala, per ascendere al trono; e poi spinse la scala lontano da sé, lasciandola cadere.

Guicciardini si ritirò decorosamente nella sua villa vicino ad Arcetri, chiamata « Il Finocchieto », per sorvegliare i contadini, migliorare la qualità del vino, studiare, meditare, fare il punto sulle proprie esperienze e scrivere alcune delle migliori opere storiche della letteratura italiana. Morí di un colpo a cinquantott’anni.

Quel che v’è di sorprendente e di istruttivo in Messer Francesco è la notevole discrepanza tra i suoi pensieri e convinzioni personali e le pubbliche decisioni. Ancor piú sorprendente e istruttivo è il fatto che non si stupí né si turbò a causa di tale discrepanza, e l’accettò placidamente come una delle realtà della vita. Non consentí mai alle proprie intime convinzioni di influenzare le decisioni che doveva prendere. Fu ad esempio, in privato, uomo devoto e religioso, onesto e onorevole, educato severamente nella fede cattolica. In gioventú aveva pensato addirittura di farsi prete. Desiderava fortemente che la religione tornasse all’antica devozione e allo zelo morale di un tempo. Da buon cristiano, riprovò il potere temporale dei Papi, che del Vicario di Cristo aveva fatto un principe terreno troppo impegnato nella torbida politica del Rinascimento. Nel suo taccuino segreto si scagliò contro la corruzione che il potere, la ricchezza e le ambizioni promuovevano inevitabilmente tra il clero. Ciononostante contribuí a realizzare i progetti profani di due Papi e li aiutò a consolidare e a ingrandire i domíni materiali della Chiesa.

Benché odiasse la tirannide piú d’ogni altra cosa, non fece nulla per liberare Firenze dai tiranni, e contribuí anzi a distruggere per sempre le libertà civiche. Si limitò a disapprovare privatamente i tiranni nel suo diario e continuò ad assolvere il suo compito. Era troppo saggio per consentire a se stesso di sognare e sperare. Avrebbe mai potuto riporre fiducia negli uomini che complottavano per ristabilire le libere istituzioni? No di certo. Francesco spiegò malinconicamente:

Fatevi beffe di questi che predicano la libertà: non dico di tutti, ma ne eccettuo bene pochi; perché se sperassino avere meglio in uno stato stretto, vi correrebbero per le poste, perché in quasi tutti prepondera el rispetto dello interesse suo, e sono pochissimi quegli che cognoscono quanto vaglia la gloria e l’onore.

E:

Non voglio già ritirare coloro che infiammati dallo amore della patria si metteriano in pericolo per riducerla in libertà; ma dico bene che chi nella città nostra cerca mutazione di stato per interesse suo non è savio, perché è cosa pericolosa; e si vede con effetto che pochissimi trattati [rivoluzioni] sono quelli che riescono. E di poi quando bene è successo, si vede quasi sempre che tu non conseguisci nella mutazione di gran lunga a quello che tu hai disegnato, ed inoltre ti oblighi a uno perpetuo travaglio, perché sempre hai da dubitare che non tornino quelli che tu hai cacciati, e che ti ruinino.

Bisognava imparare a vivere con i tiranni. Ecco alcuni accenni sul modo di prosperare sotto di essi:

A salvarsi da uno tiranno bestiale e crudele non è regola o medicina che vaglia, eccetto quella che si dà alla peste: fuggire da lui el piú discosto ed el più presto che si può…. Ma quando el tiranno o per prudenzia o per necessità e per le condizione del suo stato si governa con rispetto, uno uomo bene qualificato debbe cercare d’essere tenuto d’assai ed animoso, ma di natura quieto, né cupido di alternare… in tal caso el tiranno ti carezza e cerca di non ti dare causa di pensare a fare novità, il che non farebbe se ti cognoscessi inquieto; perché allora, pensando che a ogni modo tu non sia per stare fermo, è necessitato a pensare sempre la occasione di spegnerti.

Dico che uno buono cittadino ed amatore della patria non solo debbe intrattenersi col tiranno per sua sicurtà, perché è in pericolo quando è avuto a sospetto, ma ancora per beneficio della patria, perché governandosi cosí gli viene occasione co’ consigli e con le opere di favorire molti beni e disfavorire molti mali; e questi che gli biasimano sono pazzi… Nel caso di sopra è meglio non essere de’ piú confidenti del tiranno… Cosí tu godi la sua grandezza, e nella rovina sua diventi grande…

Un comportamento prudente implica inevitabilmente qualche dissimulazione. Come dovrebbe un uomo morale prospettarsi tale necessità? Ecco Messer Francesco che medita sull’eterno problema:

Piace universalmente chi è di natura vera e libera, ed è cosa generosa, ma talvolta nuoce, da altro canto la simulazione è utile ed anche spesso necessaria per le male nature degli altri, ma è odiata ed ha del brutto; donde non so quale sia da eleggere. Crederrei che si potessi usare l’una ordinariamente, non abbandonando però l’altra; cioè nel corso tuo ordinario e commune di vivere, usare la prima in modo che acquisti el nome di persona libera; e nondimanco in certi casi importanti e rari usare la simulazione, la quale a chi vive cosí è tanto piú utile e succede meglio, quanto per avere nome del contrario ti è piú facilmente creduto.

La formula fondamentale del Guicciardini è la seguente: « Quegli uomini conducono bene le cose loro in questo mondo, che hanno sempre innanzi agli occhi lo interesse proprio, e tutte le azione sue misurano con questo fine ». È il sistema per sopravvivere e prosperare in tempi traditori. Purtroppo, soggiunse il Guicciardini, troppi uomini di vista corta « non cognoscono bene quale sia lo interesse suo, cioè reputano che sempre consista in qualche commodo pecuniario piú che nell’onore, nel sapere mantenersi la riputazione ed el buono nome ». Messer Francesco la sapeva piú lunga. Sapeva che senza una certa rinomanza e una certa autorità un uomo poteva accumulare ricchezze, ma raramente conservarle o accrescerle. Sapeva inoltre che i nobili ideali a lui cari non avrebbero ostacolato il suo successo personale soltanto se li avesse strettamente considerati suoi preconcetti personali. Si concedeva di parlare di religiosità, d’onore, di libertà, di giustizia, di moralità, e della speranza di vedere l’Italia liberata dagli oppressori stranieri, solo con alcuni amici fidati, insegnava tali cose alle figlie e ai nipoti, scriveva di esse nei suoi taccuini, entro le quattro pareti di casa sua, a porte chiuse. Ma le sue decisioni nel mondo non dovevano essere mai dettate dal desiderio di mutarlo. Si potrebbe paragonarlo a un esperto capitano che, come è naturale, preferirebbe navigare col mare calmo, sospinto da brezze favorevoli, nella direzione voluta, ma è rassegnato ad adattare vele e rotta con arte alle condizioni meteorologiche che prevalgono, perché nessun uomo ha il potere di mutarle. Il suo solo scopo è quello di arrivare sano e salvo con qualsiasi tempo.

Quando Angelo Musco si senti domandare da Mussolini se fosse fascista, rispose enigmaticamente: «Marinano sugno ».

Gli italiani non hanno bisogno di leggere Guicciardini, e infatti soltanto pochissimi di loro lo leggono. Hanno imparato già da un pezzo ad essere privatamente prudenti, realisti assennati e perspicaci in ogni circostanza. Badano agli affari loro. Si comportano con circospezione, cautela, e persino qualche volta con cinismo. Sono increduli: non vogliono lasciarsi trarre in inganno dalle apparenze seducenti e dalle parole eloquenti e persuasive. Non possono permettersi di lasciarsi guidare dai sentimenti. Li tengono sotto controllo. Ciò non significa che siano freddi. Tutt’altro. Quando è possibile, si abbandonano volentieri come chiunque altro, a stati d’animo spontanei. Ma sanno che la libera manifestazione di genuine emozioni è spesso un lusso per privilegiati, un lusso che può essere anche pericoloso e costoso. Solo i santi, gli eroi, i poeti, i signori facoltosi, gli stranieri, i pazzi e i poveri che non hanno nulla da perdere possono permettersi di dare sfogo sfrenato ai loro sentimenti. Le persone comuni, devono purtroppo scegliere, il piú delle volte, tra l’incontrollata manifestazione di stati d’animo simulati e la manifestazione di stati d’animo sinceri ma tenuti a freno. Anche se hanno dimenticato uno dei loro antichi proverbi, che Lord Chesterfield citava a suo figlio, gli italiani si sforzano di attenervisi ancora; mantengono « volto sciolto e pensiero stretto », per gli stessi motivi per cui le facciate delle loro case sono spesso allegramente invitanti, mentre la porta di casa rimane sempre prudentemente chiusa a doppia mandata.

Al pari di chiunque altro essi preferirebbero logicamente che il mondo fosse diverso: un’Arcadia ove le pecore potessero giacere con il lupo, ove ognuno potesse dire e scrivere liberamente quello che pensa senza danno, e gli uomini fossero tutti fratelli. Ma sanno che coloro i quali si illudono vanno quasi sicuramente a finir male; sanno che il mondo è spesso un luogo triste e spietato, e si adattano, senza inutili recriminazioni, alle sue leggi inviolabili. Allegramente, traggono i massimi vantaggi possibili dalla loro sorte, qualunque possa essere, come fanno, negli avamposti solitari circondati dal nemico, i soldati che protestano, ma si adattano, evitano pericoli inutili, rendono come possono comodi i loro rifugi, li decorano con immagini e fiori, sperano nella salvezza, ma sono rassegnati anche alla morte.

Soltanto pochi italiani trovano sollievo in una vera e propria ribellione. Pochi tra i numerosi iscritti al Partito comunista vogliono scatenare la rivoluzione. Nella massima parte desiderano godersi la condizione privilegiata di rivoluzionari che spaventano la società capitalista. Quei pochi i quali vogliono istituire uno stato marxista sanno malinconicamente che neppure la loro rivoluzione, come fece rilevare il Guicciardini, porrebbe rimedio alle ingiustizie fondamentali della vita. Con la ribellione, in ogni caso, non si approda a niente, si è semplicemente strappati a una sicura e anonima oscurità, e ci si complica inutilmente l’esistenza. Nelle circostanze piú favorevoli, nelle rare occasioni in cui essa riesce, la rivoluzione tutt’al piú può migliorare le sorti dei nostri pronipoti, ma quasi mai le nostre. Ecco perché molti nostri ribelli e rivoluzionari sono sempre stati e sono tuttora i migliori degli uomini, piú disinteressati e degni .d’ammirazione di altri. La maggior parte degli italiani, in effetti, ritiene che la condition humaine sia una condanna senza molte prospettive di grazia e di amnistia, che non si possa essere mondati dal peccato originale, che l’uomo non possa facilmente mutare la propria sorte e che, in ultimo, debba scontare qualsiasi eventuale sollievo con guai diversi e peggiori.

Per tutti questi motivi molti si sforzano di essere realisti, e consentono raramente alla loro immaginazione di spingersi troppo lontano, assorbiti come sono da questioni, situazioni, uomini e cose concrete. Perseguono piú volentieri piaceri tangibili, senza problemi, i piaceri dei sensi, e, quando possono, quelli, altrettanto sostanziali, consentiti dalla ricchezza e dal potere. L’imperativo al quale ubbidiscono implicitamente in tutte le loro decisioni è non farsi far fesso. Essere fatto fesso è l’ignominia ultima, cosí come la credulità è la colpa innominabile. Il fesso è tradito dalla moglie, compra patacche d’oro falso, è vittima di inganni e di intrighi, e spesso accetta l’invito del lupo a giacersi con lui. Il fesso, incidentalmente, è anche colui che ubbidisce alle leggi, paga le tasse, crede a ciò che legge nei giornali, mantiene le promesse e in genere compie il proprio dovere. Per fortuna vi sono ancora abbastanza fessi in Italia, soprattutto nel Nord, che mantengono in vita il paese; senza di loro, probabilmente, tutto si fermerebbe; e ciononostante ben pochi li ammirano o li lodano. Il loro numero va pertanto diminuendo. Nessuno sa che cosa accadrà quando scompariranno del tutto.

Questa intensa passione per la realtà concreta, misurabile, sensibile, viene subito percepita da chiunque abbia una conoscenza anche soltanto superficiale della vita italiana. La si può scorgere in alcune decisioni politiche di ogni giorno, altrimenti inspiegabili, o nel modo astuto con il quale vengono condotte certe trattative d’affari. Se ne trova la conferma al caffè, in uno scompartimento ferroviario o in una sala d’aspetto. Gli italiani medi parlano quasi sempre di ciò di cui parlano molti altri, del cibo, dei soldi, dell’arte di fornicare, del lavoro, dei vestiti, delle apparenze, dei divertimenti, del modo di difendersi dalle mene dei rivali e dalla severità della legge. Non molti, e per lo piú giovani, parlano d’arte, di virtú, di giustizia, di sogni, di libertà e di ideali. Si attribuisce sempre maggiore importanza al solido, al terra-terra, al misurabile, con abbondanza di particolari precisi e sostanziali. Le persone che si sentono descrivere sono di rado virtuose, disinteressate e generose; gli amori sono di rado puri e spirituali. Molti personaggi ai quali si accenna, rispettabili uomini politici viventi o venerate figure storiche del passato, vengono blandamente accusati di ogni genere di colpe, omosessualità, adulterio, seduzione di minorenni, corruzione, nepotismo, tradimento, codardia, appropriazione indebita di fondi pubblici, o, colpa peggiore d’ogni altra, stupidità. Perché un determinato individuo è stato innalzato a una certa carica? L’ultima spiegazione accettata da molti è che egli sia in grado di assolvere le relative mansioni. Si preferisce pensare che la sua fortuna è dovuta al fatto che egli è il cognato di qualcuno, o che ha messo le mani su documenti tali da rovinare l’uomo che lo ha nominato, appartiene a una società segreta dalle molte diramazioni, o è favorito dall’amante di un uomo potente.

Dopo la guerra, ad esempio, tutti si sforzarono di trovare una risposta convincente all’interrogativo che lasciava perplessi: perché gli Stati Uniti stavano inondando l’Italia con miliardi di dollari? I comunisti erano sicuri che ciò facesse parte di un piano diabolico per impoverire, affamare, rendere schiavo e distruggere il proletariato italiano. I non comunisti non riuscivano a capire. Gli americani erano forse pazzi? Molte possibili spiegazioni vennero discusse e scartate. Alla fine, la maggior parte concluse: « Perché, dopo di aver vinto la guerra, gli americani vogliono arricchire noi che l’abbiamo persa? Devono avere le loro buone ragioni che noi non conosciamo. Quali che siano queste ragioni, gli americani, non v’è dubbio, stanno facendo il proprio interesse. Pertanto, non abbiamo il dovere di essere loro grati ». V’è una gran parte della realtà che i realistici italiani non riescono mai ad afferrare; vi sono molte cose che essi non vedono perché sono troppo perspicaci.

Molti anni fa, una famigliola inglese prese in affitto una villa senza pretese. Avevano modeste possibilità, nessuna ambizione, e conducevano un’esistenza tranquilla. Il padre era uno studioso, leggeva molto e scriveva un libro interminabile. La moglie badava ai suoi due figlioli, curava il giardino e batteva a macchina il manoscritto del marito. Firenze e le colline circostanti sono sempre state un rifugio tradizionale per gente come loro, anglosassoni eruditi e miti che trovavano la vita nel loro paese troppo frenetica ed esigente. Questa particolare famiglia si sistemò piacevolmente: amavano il paesaggio, i contadini semplici, le lunghe passeggiate in campagna. Erano felici.

Una cameriera li aiutava a sbrigare le faccende di casa, Elvira, una contadina che essi trattavano quasi come una persona della famiglia. Le insegnarono a leggere e a scrivere e a lavarsi i denti due volte al giorno. Man mano che i mesi passavano, il ventre della ragazza incominciò a gonfiarsi visibilmente. Un giorno ella non poté piú rinviare la confessione di ciò che i suoi padroni avevano già indovinato: aspettava un bambino. Pianse copiosamente, si strappò i capelli, disse che non meritava la loro fiducia, che avrebbero fatto bene a licenziarla e a metterla in mezzo a una strada. Disse che voleva morire, che doveva morire, in ogni caso, in quanto non sapeva dove andare e suo padre l’avrebbe ammazzata se avesse saputo. Il suo innamorato, responsabile del suo stato, era emigrato mesi prima, e non poteva essere rintracciato; non esisteva assolutamente alcun modo di farlo tornare e di costringerlo a sposarla.

L’inglese e la moglie la consolarono come meglio sapevano, i bambini l’abbracciarono. La coppia l’assicurò che, dal loro punto di vista piú moderno e illuminato, non era una vergogna essere una ragazza madre, si trattava soltanto di un contrattempo; non era la prima alla quale fosse capitato un incidente del genere e non sarebbe stata neppure l’ultima. Doveva smettere di crucciarsi, le faceva male. A partire da quel momento, avrebbero pensato loro a tutto. Lei sarebbe rimasta in casa, avrebbe sbrigato soltanto lavori leggeri, badato alla propria salute; poi il bambino sarebbe nato in una buona clinica di Firenze, a loro spese, e infine madre e figlio avrebbero potuto tornare a vivere con loro. L’inglese promise addirittura, generosamente, che lui e la moglie avrebbero fatto da padrino e da madrina al battesimo, qualora la loro diversa religione non lo avesse impedito. La cameriera si asciugò le lacrime e sorrise.

Quando tornò con il bambino, l’inglese mandò a chiamare il padre, gli disse quel ch’era accaduto, lo rassicurò, gli spiegò che tutto andava bene, e invitò lui e l’intera famiglia alla festa del battesimo. Al termine del discorsetto, osservò benignamente il vecchio contadino, sentendosi giustamente fiero di essere disposto ad alleviare le sofferenze altrui con i suoi modesti mezzi e di poter dare sicurezza e felicità alla povera Elvira e al suo piccolo. Era inoltre comprensibilmente orgoglioso di poter dimostrare a quel contadino toscano quanto sapessero essere generosi e civili gli inglesi in circostanze del genere. Forse la lezione non sarebbe andata perduta, forse sarebbe stata ricordata in casi analoghi in avvenire e avrebbe contribuito a modificare le costumanze locali crudeli e primitive.

Il vecchio parve assorto e sospettoso mentre ascoltava le parole esitanti del forestiero dallo strano accento, crollò il capo e non disse nulla. Naturalmente era troppo intelligente per poter credere alla favola che gli stavano raccontando. Era una favola attraente, ed egli aveva paura a crederci, paura di sembrare ingenuo, di passar per fesso. Perché mai un inglese, ovviamente un gentiluomo ricchissimo e distinto, avrebbe voluto occuparsi di quella sgualdrina svergognata e bugiarda, Elvira, che avrebbe fatto meglio a morire invece di disonorare la famiglia, come chiunque che sapesse qualcosa della vita sarebbe stato disposto a riconoscere? Perché l’inglese non l’aveva gettata a calci fuori di casa? Perché aveva speso tutti quei quattrini per medici di lusso, per una stanza, in una clinica carissima, per brodi di pollo, borotalco e pannolini? Perché voleva continuare a spenderne? Perché voleva fare da padrino? E, soprattutto, perché perdeva tempo a raccontargli tutte quelle nobili sciocchezze?

.Esisteva, era abbastanza ovvio, una sola spiegazione. Chiunque avrebbe capito. L’inglese era il padre del neonato. Elvira probabilmente lo aveva sedotto, com’era capacissima di fare, la puttana svergognata, oppure egli aveva preso Elvira in casa per andarci a letto. Si potevano capire le ragioni, si poteva addirittura compatirlo, guardando la sua ossuta moglie inglese. Che donna stupida o immorale doveva essere, pensò il contadino, per essere disposta a fare da madrina al figlio bastardo di suo marito, al frutto di una relazione peccaminosa! La mentalità degli stranieri è misteriosa. Eppure, concluse il vecchio, qualsiasi cosa fosse accaduta, non poteva ignorare la realtà e doveva fare quello ch’era giusto. Salutò con un brusco cenno del capo e se ne andò.

Nei giorni successivi, documenti legali incominciarono a piovere sulla povera famiglia straniera. L’inglese, a quanto risultava dalla prosa contorta, veniva citato dal padre di Elvira per ottenere una grossa somma di denaro, denaro per danni, denaro per placare l’offesa e per rimediare il disonore e il discredito della famiglia, altro denaro per assicurare al bambino e alla madre adeguati mezzi di sostentamento, denaro per pagare avvocati e, infine, le spese di giudizio. Evidentemente, la famiglia di Elvira riteneva di avere acquisito il diritto di vivere, da quel giorno, sfruttando la disgrazia e la vergogna della povera figliola. L’inglese affidò la questione ad avvocati, rinunciò alla villa, licenziò la cameriera e si affrettò a partire con la moglie e i bambini.

Quest’ovvia predilezione degli italiani per il solido, per il troppo umano, per il comprensibile, per il divertente; questo costante sospetto di tutto ciò che è troppo onorevole, spirituale, cavalleresco e nobile; questa paura insistente delle trappole emotive; questo concentrarsi sugli interessi personali e questa noncuranza per il pubblico bene; questo timore che le cose piú allettanti finiscano male, tutto ciò ha costituito tendenze costanti della vita italiana da tempi immemorabili. Si tratta in genere di antiche precauzioni mentali e di espedienti, inconsapevolmente accettati dalla grande maggioranza, perfezionati per passare illesi attraverso la vita. Numerosi studiosi stranieri, trovandoli confermati da gran copia di esempi nella letteratura e nell’arte, conclusero che non si trattava di artifizi ma di caratteristiche perenni, di una parte immutabile della natura stessa del popolo italiano. John Addington Symonds, ad esempio, dedicò a questa inclinazione vari eloquenti brani del suo Rinascimento in Italia. « Quando ci lamentiamo», scrisse, « perché gli italiani difettano della suprema immaginazione tragica, perché i loro sentimenti non sono per natura romantici, o perché nessuna delle loro opere d’arte – o soltanto pochissime – raggiunge il sublime, ci limitiamo a insistere sulla predisposizione realistica che li ha resi inclini alle cose tangibili, palpabili, sperimentate, raggiungibili dai sensi… Il realismo, preferire il tangibile e il concreto al visionario e all’astratto, il definito all’indefinito, ciò che è dei sensi a ciò che è ideale, determina il carattere del loro genio in tutte le sue manifestazioni. »

Norman Douglas pensò addirittura, strano a dirsi, che gli italiani fossero assorbiti a tal punto dalle questioni pratiche da essere divenuti ciechi alla pura bellezza, alla bellezza del loro paese in particolare. « Vi sono sfumature mirabili della terra, del cielo e del mare, in queste regioni,» scrisse in Siren Land, parlando di Capri e della costa sorrentina, « tramonti fiammeggianti e lune di melodrammatica grandezza che cavalcano le cime dei monti o nuotano con esultanza nell’etere; gole colorate d’ambra in cui le ombre dormono nelle giornate scintillanti di giugno, e il folle tumulto estivo dei rampicanti che inondano con verde frenesia ulivi ed olmi e fichi; vi sono tremule fiamme violette che si librano sull’arenaria calcinata dal sole, brume marine che salgono con inghirlandata maestosità tra fenditure bagnate, e i bagliori sulfurei di un’alba con lo scirocco, quando i pescherecci rimangono sospesi come pallidi spettri sulla linea dell’orizzonte: vi sono migliaia di estasi come queste, ma i nativi non le vedono, anche se, per far piacere agli stranieri, fingono talora di vederle… Le spirali di muscoli sulle spalle di qualche adolescente mentre si irrigidisce per sollevare un pesante blocco d’arenaria; una fanciulla le cui forme esuberanti promettono fruttuose maternità; un ondeggiante campo di grano, un acquazzone in maggio, un piatto di grasse quaglie allo spiedo… tutto ciò è legittimamente bello: ma i monti costituiscono meri impedimenti all’agricoltura, spiacevoli protuberanze sul bel volto della terra; le caverne sono utili per accumularvi il fieno; le grotte marine azzurre o verdi servono a riparare le barche dalla pioggia; il mare stesso, con tutte le sue armonie corali, è semplicemente un luogo in cui si prendono pesci. »

Questo attaccamento al palpabile, al sostanziale e al reale è particolarmente evidente nelle antiche novelle, forse il prodotto piú caratteristico della letteratura popolare italiana, i racconti che Shakespeare e altri poeti nordici saccheggiarono per trame le loro vicende. Ve ne sono a migliaia. La parola stessa « novella » è concreta. Non significa storia, un parto dell’immaginazione, un’invenzione poetica, ma notizia, vera e propria notizia, rapporti di eventi che ebbero effettivamente luogo, aneddoti della vita dei ricchi, dei personaggi potenti e famosi, informazioni avute da luoghi lontani. Gli scrittori stranieri furono giustificati nell’attingere ad esse idee per le loro commedie quanto lo sono oggi gli autori contemporanei nell’attingere intrecci alla cronaca dei giornali. Gli eventi delle antiche novelle non si svolgono in una atmosfera nebulosa e leggendaria, tra personaggi vagamente definiti e fantomatici, cavalieri virtuosi e nobili vergini, guidati da moventi onorevoli, come nei racconti scritti press’a poco nello stesso periodo in altre parti dell’Europa. Nelle novelle italiane vi sono persone reali, mercanti, monaci, artigiani, bottegai e principi, esseri umani fatti di carne e dai sani appetiti, che si esprimono nei dialetti vivaci e coloriti della piazza del mercato e della taverna.

La lezione che il lettore ne traeva non era intesa ad edificarlo. Egli non imparava a evitare il peccato, a combattere il male, a proteggere la virtú altrui, a riformare il mondo, a prepararsi per la salvezza nell’aldilà; imparava soprattutto a difendersi dall’inganno, dal tradimento, dall’arroganza e dalla scaltrezza altrui; a profittare delle debolezze del prossimo; a leggere attraverso l’ipocrisia degli uomini, e a godere le cose piacevoli della vita: le donne gagliarde, le vergini pronte ai rossori, il buon cibo, il buon vino, le allegre compagnie, e le battaglie vittoriose contro nemici possibilmente piú deboli. I sistemi crudeli e spietati del mondo sono accettati come immutabili. Di rado vengono giudicati. Il povero di spirito, il gonzo, l’ingenuo, il marito tradito, in altre parole i fessi, sono derisi. La loro malinconica sorte è considerata non soltanto inevitabile, ma giusta e opportuna. Gli uomini arditi, scaltri e forti, che si avvalgono delle loro capacità senza scrupoli né carità, prevalgono sempre, sono fatti oggetto dell’ammirazione e dell’approvazione dell’autore e del lettore. Solo a pochi principi è consentito essere magnanimi e generosi. Tutti gli altri vivono, vincono o perdono, attenendosi strettamente alle regole del gioco cosí come gli italiani le intendevano allora e le intendono, piú o meno immutate, ancor oggi.

In pratica senza interruzioni, nel corso degli anni, gli italiani hanno continuato a creare, tra le altre, opere d’arte intese principalmente a lodare i forti e i potenti e a deridere i deboli e gli sconfitti, o dedicate alla celebrazione della carne, e alle armoniose e perlacee bellezze del nudo corpo femminile; alcune di queste opere furono volgari, ribalde, oscene, altre delicate, sottilmente velate e allusive. Anche quando questi artisti si cimentavano in soggetti piú elevati, le loro tendenze innate affioravano inevitabilmente. In molte delle loro Madonne si può scorgere il piacere che il pittore ha trovato nella freschezza di una bella contadina, piuttosto che la reverenza religiosa. Le Madonne di Raffaello sono ritratti della sua voluttuosa amante, la figlia del fornaio, il cui insaziabile appetito d’amore fu una delle cause della sua morte prematura. Nei poemi piú vasti e ambiziosi, dedicati a temi religiosi ed epici, i nobili sentimenti hanno il piú delle volte un che di zuccheroso e di sentimentale, il linguaggio è ampolloso, e le immagini sono studiate e letterarie. Solo quando i poeti descrivono la furia della battaglia, oggetti palpabili, perfidi infedeli, delizie terrene e passioni umane, si trovano a loro agio e riescono convincenti. Quanto piú a loro agio si sentirono gli autori nelle irriverenti e satiriche parodie che scrissero dei nobili e ispirati poemi cavallereschi in voga nel resto d’Europa !

Agli italiani piaceva inoltre scrivere commedie ciniche di intrighi e di raggiri, seguendo da vicino l’esempio dei padri, gli antichi modelli romani cosí espliciti che non sarebbe possibile metterli in scena non espurgati neppure oggi. La migliore di queste commedie fu scritta da Niccolò Machiavelli, per deridere gli uomini di chiesa, le convenzioni borghesi, i mariti gelosi e la virtú delle donne. È strano che un cosí grande storico e pensatore politico perdesse tempo scrivendo farse leggere, e tuttavia la cosa non è inesplicabile come sembra. Molti uomini eminenti di quei tempi, alti prelati, statisti e studiosi, dedicarono il tempo libero alla composizione di poesie lubriche in latino o in italiano. E del resto le commedie di Machiavelli non sono poi cosí moralmente lontane dai suoi grandi libri, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio e Il principe, quanto si potrebbe pensare. Sono tutte ispirate dall’insuccesso, dalla delusione e dall’amarezza; dall’insuccesso personale di un uomo estremamente abile che non riuscí mai a divenire importante, dall’insuccesso pubblico di una nazione estremamente intelligente e civile, la sua, che non conseguí mai l’unità e la disciplina necessarie per tenere a bada o sconfiggere i rozzi e incolti invasori stranieri.

Nelle sue opere politiche egli mise in dubbio, a fini pratici, la validità di moventi nobili e disinteressati nel governo della cosa pubblica; nelle commedie, contestò la validità di moventi analogamente nobili e disinteressati nella vita privata. In entrambi i campi, come molti buoni italiani, puntò sul sicuro: tremava all’idea che ci si potesse far gioco di lui, gabbarlo, paventava la possibilità di essere fatalmente portato, a conclusioni errate e a una brutta fine, da ideali onorevoli. Si sentiva molto piú al sicuro ritenendo che le pire est toujours certain o, come avrebbe detto lui in buon toscano, il peggio non è mai morto. Preferiva dare per dimostrato che tutti i sovrani fossero crudeli, astuti e spietati; che tutti i preti e i monaci fossero libertini, ruffiani, ghiottoni e rapaci strozzini, e tutte le donne sgualdrine. Riteneva, nel peggiore dei casi, di sbagliare solo pochissime volte, forse quasi mai.

Dalla fine del diciottesimo secolo alla fine del diciannovesimo, gli scrittori dedicarono infine il loro genio a qualcosa di piú degno delle lettere eleganti e vuote, delle colorite descrizioni dei piaceri terreni e delle attività di uomini e donne duttilmente e prontamente adattati agli aspetti peggiori della vita. Finalmente apparvero alcuni scrittori i quali ritenevano che il popolo italiano potesse ribellarsi con fierezza alla sua squallida e ignominiosa sorte, correggere i difetti nazionali e migliorare la propria vita morale e le condizioni materiali dell’esistenza. Questi poeti e questi romanzieri esaltarono i valori spirituali, la fede religiosa, i nobili ideali; lodarono il patriottismo, la forza di carattere, il coraggio, l’onestà, la giustizia e la verità. Alcuni previdero il risorgere delle antiche virtú virili del popolo e il rinnovamento spirituale d’Italia. I loro versi risonanti e i loro romanzi storici, insieme alla musica eroica di Verdi, accompagnarono quello che sembrava un vasto e profondo rivolgimento morale, politico e militare, la rivoluzione del Risorgimento, la conquista dell’indipendenza e dell’unità nazionale.

Ma dalla fine del secolo passato e all’inizio del nuovo, quando il fumo delle battaglie si era dissipato e gli entusiasmi si erano spenti, gli italiani incominciarono a scoprire ch’erano rimasti piú o meno gli stessi di sempre, che coloro i quali avevano realmente creduto nel Risorgimento erano stati una esigua minoranza. Gli antichi tratti del carattere incominciarono a riaffermarsi e nella letteratura ricomparve allora il modo consueto di vedere le cose. Gli scrittori ricominciarono a confidare soltanto nel palpabile e nel ponderabile. Giovanni Verga descrisse la dura avarizia dei contadini e dei pescatori che si sforzavano di accumulare « la roba », o la ricchezza, per divenire borghesi nel nuovo stato liberale. D’Annunzio sentí il patriottismo non piú come una passione giovanile e pura, ma come un pretesto per avventure sanguinose, sfarzose e decadenti. Era portato soprattutto verso ogni sorta di piaceri fisici, la sensazione di un cavallo ansimante al galoppo tra le ginocchia, una nuotata all’alba nel mare, i profumi rari, l’uccisione dei nemici in battaglia, e le delizie inesauribili dei corpi delle donne. L’antica tradizione continua. Alcuni celebri scrittori italiani d’oggi (e alcuni dei piú bei films, in parte ispirati da essi) hanno prestato la stessa attenzione dei nostri antenati agli aspetti concreti della vita e hanno tradito lo stesso antico, familiare sospetto degli ideali e delle cose nobili. Alcuni di questi uomini hanno descritto, sulla carta o nella celluloide, i piaceri della lussuria, dell’avidità e dell’ambizione, con lo stesso gusto di un tempo, pervenendo talora ad audaci raffinatezze che neppure il Rinascimento aveva conosciuto.

Quando si pensa, tuttavia, ad altre opere d’arte contemporanee, si è tentati di credere che gli italiani, per la prima volta, non siano piú quello che sono sempre stati. Si tratta di alcuni plumbei romanzi d’avanguardia, di dipinti macabri, di films sconsolati e di poesie senza gioia che vanno di moda. L’antica paura di essere fatti fessi dalle illusioni pare ormai divenuta un’ossessione. La ricerca di verità che non possano tradire l’uomo, verità modeste, se necessario, ha ormai raggiunto un punto morto. Ovviamente, all’uomo non rimane molto in cui credere. Non certo i nobili ideali di ieri, l’amor di patria screditato dai fascisti, l’amore dell’onore, dell’onestà, della moralità, della probità deriso dal costume attuale; non certo la speranza di un avvenire migliore, nel quale neppure i comunisti osano piú credere. Nulla rimane, perché l’ultimo rifugio di tutti gli italiani, il loro interesse strettamente privato, l’inseguimento di cose concrete e misurabili, è stato per la prima volta messo in dubbio. Questi nuovissimi italiani, apparentemente, non credono neppur piú nella certezza italiana ultima e fondamentale: la carne. In effetti, la fornicazione, per la prima volta dopo secoli, in alcuni dei migliori romanzi italiani d’oggi è divenuta un diversivo fastidioso e quasi repellente. Non rimane altro, dunque, che la noia, il tedio che Moravia ha cosí acutamente analizzato. Ma poi ascolti la gente conversare nei caffè, la vedi comprare con diffidenza pesci o frutta in un mercatino all’aperto, la osservi ascoltare con aria rapita la musica sonora di una banda, guardi i vecchi sorridere a una graziosa ragazza sconosciuta che passa per la strada… E ti senti immediatamente rassicurato. Gli italiani sono sempre gli stessi.

Luigi Barzini, Gli italiani, Arnoldo Mondadori Editore, 1964

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