di Claudia Catalli
Sbatti il mostro in prima pagina. Sembra il mantra di certi politici di oggi, invece è il titolo del film di Marco Bellocchio datato 1972. Datato per modo di dire, visto che i suoi film risultano più attuali che mai, specie questo, restaurato in 4k dalla Cineteca di Bologna, presentato in anteprima a Cannes Classics e in questi giorni nelle sale italiane. È incentrato sulla manipolazione delle notizie: «Sono uno degli ultimi che ogni mattina, appena si sveglia, legge il giornale», racconta a L’Espresso il cineasta di Bobbio, intento a fare i sopralluoghi per la sua nuova serie su Enzo Tortora Portobello. «So che molti non leggono più niente, io invece mi faccio sollecitare dalle notizie, da ciò che accade. Certi fatti, certi temi, mi colpiscono. Quelli che restano nella mia testa, perché continuo a pensarci a lungo, in genere diventano un film: significa che qualcosa di profondo mi ha toccato e va rielaborato». Attraverso le parole di Gian Maria Volonté, che nel film interpretava Giancarlo Bizanti, cinico direttore de Il Giornale deciso a strumentalizzare politicamente un omicidio a sfondo sessuale e incolpare un militante di sinistra, ha portato sullo schermo «la manipolazione che una certa stampa faceva degli avvenimenti politici».
Cinquant’anni dopo, le fake news e le manipolazioni delle notizie ancora dilagano: «In tv l’altro giorno ho visto un pezzo della trasmissione di Augias sul tema, diceva che le notizie più ricorrenti sono quelle che i consumatori dei social gradiscono maggiormente. Quindi non le più vere, le più giuste, le più importanti o le più impegnate. Spesso si tratta di sciocchezze». Sciocchezze che distraggono da tutto, anche dai casi italiani tuttora rimasti senza verità. Dalla strage di Bologna a quella di piazza Fontana, eventi oggetto di manipolazioni. C’era all’epoca la strategia della tensione, chi fossero i mandanti si sapeva e non si sapeva». Ricorda gli anni Settanta Bellocchio, la tensione che infuocava il Paese e le grandi città: «C’erano contrapposizioni forti tra i partiti di sinistra e il blocco conservatore che fomentava la strategia della tensione affinché l’elettorato moderato restasse sulle posizioni più conservatrici».
Da ieri a oggi, non si è smesso di puntare sulla paura della gente: «Con altre forme, immagini, e mezzi sta avvenendo anche nelle democrazie attuali, dalla Francia all’Italia. Le vittorie e i risultati si giocano sulla paura che la gente ha di quello che potrebbe accadere, vedi il grande tema della migrazione. Una serie di partiti gioca su questo, ma anche quelli che dovrebbero sostenere le cause progressiste e più aperte hanno un certo timore, pensiamo allo scandalo dello ius soli (il cui principio prevede che la cittadinanza sia acquisita per il fatto di essere nati sul territorio dello stato italiano, ndr): per un motivo o per l’altro ancora non è stato votato ed è una cosa che ha in sé una disumanità proprio oggettiva, palese. Le forze progressiste non hanno la forza di imporlo».
Da che parte sta Bellocchio oggi? «Avevo votato i Cinque Stelle, mi sembrava avessero un quid, poi non sono riusciti a reggere il loro grande successo. Alle Europee ho votato Alleanza Verdi e Sinistra per Ignazio Marino, ritenevo fosse stato maltrattato ed estromesso in modo osceno anche da partiti della sinistra, quando invece era assolutamente degno di fare il sindaco. Sono contento quindi che sia appena stato eletto».
Quanto al futuro, Bellocchio vede smarrite le nuove generazioni: «Quell’oggetto che anche io uso, ma con molta parsimonia (il cellulare, ndr), è diventato parte del loro corpo. Un oggetto che minaccia la profondità e va nella direzione della superficialità, delle cose che passano: bisogna correre, passare in fretta da una cosa all’altra, distrarsi. Invece la lentezza e la capacità di fermarsi sono fondamentali».
Ai giovani registi dice: «Il nostro è un lavoro complicato e di sacrificio, tanti film escono e scompaiono, altri hanno esiti modesti, altri ancora neanche riescono a uscire. Sono pochissimi quelli che ce la fanno ad avere una visibilità». Il segreto per una carriera come la sua? «Facendo le corna, credo che se ho mantenuto una certa vivacità è perché non ho mai fatto cose in cui non credessi. Sembra retorico, ma dobbiamo continuare a fare quello in cui crediamo». Non è il cinema italiano a essersi disinteressato alla politica, semmai è il contrario: «Mi pare ci siano ancora film che affrontano i grandi temi di oggi, la migrazione, l’emancipazione femminile, l’omofobia. Certo non sono più segnati dalla politica dei partiti, da certi ideali che non appartengono più al mondo attuale, non ci sono più i riferimenti».
Come vede la politica di oggi? «C’è una maggioranza che è stata votata dagli italiani, con una presidente che non credo abbia intenzione di commettere azioni autoritarie, e un’opposizione che contrappone delle idee diverse dalle sue. Idee che vedo dilagare un po’ in tutta l’Europa, è come se in un mondo così globalizzato tutti volessero fare piccole repubbliche, sempre più piccole. Chiudersi in casa, dentro le mura della propria città. Penso anche al nuovo disegno di legge sull’autonomia differenziata delle regioni. C’è di base la paura di essere invasi, schiacchiati, derubati». Una paura infondata: «Il problema è governare l’invasione, non respingerla. Respingerla è una sconfitta».
A che punto è la sua nuova serie Portobello su Tortora? «La macchina è partita, dopo i sopralluoghi bisognerà cercare gli attori, a settembre dovrei iniziare a girare. La storia di Enzo Tortora non è contenibile per me in una sola pellicola, per questo ci siamo orientati sulla serialità, un po’ come per Esterno Notte. Tortora fu la vittima di clamorosi errori in cui magistratura e stampa furono complici nel farne un colpevole, poi il tempo permise di ribaltare la situazione». È uno dei pochi casi italiani di cui si è saputa la verità e si è riconosciuta la completa innocenza di Tortora: «Quell’ingiustizia subita lo distrusse fisicamente, è morto dopo aver riconquistato in pieno l’onore e il successo, ma è morto proprio di quell’orribile ingiustizia».
Un’altra storia sulla manipolazione delle notizie, quindi: «Non ce l’ho con i giornalisti, sia chiaro. Se non mi esprimo, ad esempio, sulla questione del così detto bavaglio alla stampa sul tema delle intercettazioni, con la scusa della privacy, è solo perché non mi sento sufficientemente preparato per dire se sia un attacco alla libertà di stampa. Ai tempi di Tortora, comunque, non tutta la stampa fu “canaglia”, alcuni ebbero un atteggiamento innocentista, da Biagi a Sciascia, da Bocca al giovane Feltri». Intanto il suo leggendario film di debutto I pugni in tasca sta per essere riproposto, sotto forma di remake, dall’autore brasiliano Karim Aïnouz e interpretato da Kristen Stewart e Josh O’Connor: «Quel film era una parabola sull’esplosione della tradizionale famiglia patriarcale, mi fa piacere che ne facciano una nuova versione. Mi auguro sia completamente diversa dalla mia, ma ugualmente toccante e provocatoria. Altrimenti temo avrebbe poco senso». Si difende così dall’accusa di girare solo biografie di uomini: «Ho diretto Vincere con Giovanna Mezzogiorno su Ida Dalser, la prima moglie di Mussolini, un film ingiustamente non premiato. Avevo anche un progetto su Marie Curie, l’ho abbandonato sapendo che altri ci stavano già lavorando. Tuttora coltivo un’idea su Maria Josè di Savoia, regina di maggio, una donna bellissima, ribelle e obbediente al tempo stesso, in un matrimonio combinato con re Umberto II. Ma è un progetto che finora non ha riscontrato grande interesse».
Quando gli chiedo di commentare l’addio al cinema di Ken Loach, autore che più di tutti si è concentrato sulla classe operaia, risponde: «Loach è l’ultimo comunista, un artista che ha saputo trasformare la sua ideologia in qualcosa di profondamente artistico, con una coerenza assoluta. Mi spiace che abbia deciso di smettere, in ogni suo film c’è sempre il suo tocco, un registro e un’originalità preziosi per il cinema. Ma è più grande di me, può esserci dietro una motivazione personale: non siamo eterni, c’è un momento in cui è meglio lasciare». Momento che per lui, per la fortuna del cinema italiano, a 84 anni non è ancora arrivato: «Nessuno crede nell’eternità, so di avere una certa età, ma ho anche molte fortune. Il lavoro non mi manca, sono in buona salute, la mia mente è lucida, perciò continuo a lavorare e a fare cose in cui credo».
L’Espresso, 15 luglio 2024