Saggi e spigolature
Lo scrittore è un posseduto”
Nel piccolo appartamento a Città del Messico sopra al bar americano che lo riforniva di alcolici, nel pomeriggio del 6 settembre 1951, William Burroughs è con la moglie Joan e due loro amici. Vuole mostrare la sua destrezza di tiratore ripetendo la scena del Guglielmo Tell, con la Star 380 automatica che tiene sempre in tasca invece che con arco e frecce: Joan si mette un bicchiere di cognac sulla testa a due metri da lui, e lui spara colpendola alla tempia. Dal foro fuoriesce un rigolo di sangue; Burroughs si precipita su Joan, che morirà poco dopo. Viene arrestato: uscirà su cauzione e offrendo tangenti alle guardie. Dalla nuova condizione di scapolo bisessuale — una libertà coatta, scaturita da un delitto-burletta che si trasforma in catarsi, costantemente in bilico tra stordimento tossico e micidiale lucidità — emerge il nuovo William Burroughs: uno che, a detta della madre che gli scrive inorridita dopo aver letto un articolo su Life in cui viene definito un “maledetto della Beat Generation” (ha appena pubblicato il suo secondo libro, dal cremoso titolo Il pasto nudo), si è trasformato in uomo perverso e malvagio.
Da questo momento Burroughs, laureato a Harvard e figlio del privilegio (è nato nel Missouri da una ricca famiglia di industriali di calcolatrici meccaniche), scrive di tutto: cinema, letteratura, psichiatria, ipnosi, mass-media, attualità, politica e morte, in saggi che vende alle riviste e che oggi Adelphi pubblica sotto il titolo La calcolatrice meccanica (in libreria da martedì, ndr), suggerito dallo stesso Burroughs al suo editor James Grauerholz in omaggio al nonno, inventore del famoso abaco.
Nell’ottobre 1959 due reporter di Life, in effetti, erano andati da lui a intervistarlo. Per ingannare l’attesa, il suo compagno Brion Gysin si era avvicinato alla scrivania e aveva cominciato a ritagliare pezzi di giornale. Burroughs intuì che in quei ritagli affiancati in modo random si celava un metodo interessante: quello del cut-up, del montaggio. Ne parla la prima volta a Allen Ginsberg, a cui scrive lettere che iniziano con la frase “Thanks a million for the mescaline” e finiscono con “Please send mescaline if possible”. Si rende conto di non aver fatto altro: anche Il pasto nudo, scritto a Tangeri nel delirio, “è tutto cut up“, tutto montato, ma “io non lo avevo capito”.
In giornate squallide e coatte (sonno, veglia, creazione, anestesia), sotto la pressione di una vertigine lisergico-stilistica, scopre che l’espansione della coscienza che domanda alle droghe sfonda la forma romanzo: “Gli scrittori lavorano con le parole e le voci così come i pittori lavorano con i colori; ma da dove arrivano queste parole e queste voci? Da varie fonti: conversazioni ascoltate o sentite di sfuggita, film e trasmissioni radiofoniche, giornali, riviste e, sì, altri scrittori… Lo scrittore non lo dice mai a parole sue; è sempre un posseduto, un ventriloquo”.
Negli anni 70, riferisce Grauerholz, piomba in una dipendenza dall’eroina: “Minuscole buste di pergamina gli venivano consegnate nel Bunker al 222 di Bowery da alcuni dei nostri giovani amici newyorkesi felici di farsi con il Papa della Droga”. Diffida della parola, puro agente patogeno: “Dal 1971 la mia teoria generale è che la Parola sia in tutto e per tutto un virus non ancora riconosciuto come tale poiché ha raggiunto con il suo ospite umano uno stato relativamente stabile di simbiosi: ossia, il Virus della Parola (l’Altra Metà) si è confermato come parte accettata dell’organismo umano”.
Ma William è davvero un cinico? La smentita è in uno dei saggi più belli della raccolta, Un epitaffio, dove si schiera a favore degli umiliati e offesi: “Più che agire, una vittima subisce gli atti altrui. È ferita, malata, incarcerata, affamata o morta, ossia è affetta da altre persone o dalle circostanze o da entrambe… La vittima più tosta raggiunge da sé la condizione di vittima… Prendiamo Hemingway: a Parigi gli cadde in testa un WC, si sparò al piede cercando di uccidere un pesce arpionato, rimase ferito in una serie di disastri aerei e automobilistici”. La solidarietà con Hemingway, che ha impastato l’arte con la vita e la morte (“Chi scrive la morte in qualità di pilota di un piccolo aereo in Africa dovrebbe guardarsi dai piccoli aerei in Africa, specie nei pressi del Kilimangiaro. Ma era scritto e lui entrò diretto nella sua stessa scrittura. Il danno cerebrale che subì uscendo di forza dall’aereo in fiamme lo portò a una depressione disperata e infine al suicidio”) è totale. Così come la sua identificazione coi gatti, esseri votati alla difesa e alla sopravvivenza. Ne Il gatto in noi (Adelphi) scrive. “I gatti sono piccoli dèi del focolare, compagni psichici… Uno psicoanalista direbbe che sto semplicemente proiettando queste fantasie nei miei gatti. Sì, del tutto naturalmente e letteralmente, i gatti fanno da schermi sensibili che riflettono atteggiamenti precisi. Questi ruoli variano, se è il caso, così un gatto può assumere parti diverse: mia madre, mia moglie Joan… Forse i gatti sono per me l’ultimo legame vivente con una specie che muore”.
Williams S. Burroughs
La calcolatrice meccanica
Pagine: 305
Prezzo: 24 €
Editore: Adelphi
Il Fatto Quotidiano, 29 giugno 2024