Nel capitolo “Dal Che vuoi? al fantasma: Lacan con Eyes Wide Shut” del libro “Leggere Lacan: Guida perversa al vivere contemporaneo” di Slavoj Žižek, vengono esplorati diversi concetti fondamentali del pensiero lacaniano, applicati all’analisi del film “Eyes Wide Shut” di Stanley Kubrick.
Uno dei punti chiave è l’analisi del passaggio all’atto (passage à l’acte) nel contesto del film. Žižek descrive come il finale del film, in cui Nicole Kidman dice a Tom Cruise che devono fare qualcosa al più presto (“Scopare”, risponde lei), non rappresenti una vera soddisfazione fisica, ma piuttosto un modo per evitare di confrontarsi con l’orrore del mondo fantasmatico sotterraneo. In altre parole, l’atto sessuale è visto come un tappabuchi per mantenere a distanza le fantasie spettrali.
Questo concetto si collega alla natura del fantasma nel pensiero lacaniano, che Žižek descrive come uno schermo che ci protegge dall’incontro con il Reale. Il fantasma, al livello fondamentale, non può mai essere soggettivato e deve rimanere rimosso per funzionare. Il vero risveglio, secondo Lacan, consiste nel risvegliarsi non solo dal sonno, ma dall’incantesimo del fantasma che ci controlla ancor più quando siamo svegli.
Inoltre, Žižek discute la questione del grande Altro e del desiderio dell’Altro, dove il soggetto desidera solo nella misura in cui esperisce l’Altro come desiderante. Questo desiderio enigmatico dell’Altro ci porta ad affrontare l’enigma del nostro desiderio, ossia il fatto che non sappiamo cosa desideriamo realmente.
Infine, Žižek esplora l’ambiguità della nozione di fantasma e la sua funzione protettiva nei confronti del Reale. Sottolinea come, nel film “Eyes Wide Shut”, il passaggio all’atto sessuale rappresenti una misura preventiva disperata per soffocare le fantasie brulicanti e mantenere il mondo sotterraneo a debita distanza, riflettendo così il gioco di parole lacaniano sul risvegliarsi nella realtà per fuggire dal Reale incontrato nel sogno.
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Dal Che vuoi?1 al fantasma: Lacan con Eyes Wide Shut
di Slavoj Žižek
Quest’altro lo scriveremo, se vi garba, con un’A maiuscola.
Perché con un’A maiuscola? Per una ragione indubbiamente delirante, come ogni volta che si è obbligati ad apportare dei segni supplementari a ciò che ci dà il linguaggio. Questa ragione delirante è qui la seguente. Tu sei la mia donna – dopo tutto, che ne sapete? Tu sei il mio maestro – in effetti, ne siete così sicuri? Ciò che precisamente costituisce il valore fondante di queste parole, è ciò cui si mira nel messaggio, come pure ciò che è manifesto nella finta, è il fatto che l’altro è lì in quanto Altro assoluto. Assoluto, cioè è riconosciuto ma non è conosciuto. Ugualmente, ciò che costituisce la finta, è che in fondo non sapete se è una finta o no. È essenzialmente questa incognita dell’alterità dell’Altro, ciò che caratterizza il rapporto tra la parola al livello cui è parlata e l’altro.2
Questo brano dovrebbe sorprendere chiunque conosca Lacan, in quanto fa coincidere il grande Altro con l’impenetrabilità di un altro soggetto al di là del «muro del linguaggio», ponendoci così all’estremo opposto dell’immagine predominante che Lacan presenta del grande Altro, quella della logica inesorabile di un automatismo che conduce lo spettacolo in modo che, quando il soggetto parla, lungi dall’essere padrone a casa sua, è a propria insaputa meramente «parlato». Che cos’è, dunque, il grande Altro? È il meccanismo anonimo dell’ordine simbolico, o un altro soggetto nella propria radicale alterità, un soggetto dal quale il «muro del linguaggio» irrimediabilmente mi separa? La più comoda via di fuga da questo difficile problema sarebbe stata leggere nella presente discrepanza il segno di un cambiamento intercorso nello sviluppo di Lacan: dal primo Lacan, concentrato sulla dialettica intersoggettiva del riconoscimento, all’ultimo Lacan, che mette in evidenza il meccanismo anonimo regolatore dell’interazione fra soggetti (in termini filosofici, dalla fenomenologia allo strutturalismo). Benché vi sia una parziale verità in questa soluzione, essa offusca quello che è il mistero centrale del grande Altro, ossia il momento in cui il grande Altro, l’anonimo ordine simbolico, viene soggettivato.
Il caso emblematico riguarda la divinità: quello che chiamiamo «Dio» non è forse il grande Altro personificato, che ci si rivolge come una persona più immensa della vita, un soggetto al di là di tutti i soggetti? Analogamente, parliamo della Storia che ci chiede qualcosa o della nostra Causa che ci chiama a compiere il necessario sacrificio. Abbiamo qui a che fare con un soggetto misterioso che non è semplicemente un altro essere umano, ma il Terzo, il soggetto che sovrasta l’interazione dei reali individui umani. Il terrificante enigma è dunque: che cosa vuole da noi questo soggetto impenetrabile (la teologia si riferisce alla presente dimensione nei termini di Deus absconditus)? Secondo Lacan, per avere un assaggio di questa dimensione abissale, non siamo obbligati a evocare Dio, poiché essa è presente in ogni essere umano:
Il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro, in cui «dell’» è la determinazione che i grammatici chiamano soggettiva, cioè che egli desidera in quanto Altro (…) Ecco perché la questione dell’Altro, che ritorna al soggetto dal posto dove questi ne attende un oracolo, nella formazione di un Che vuoi?, è quella che meglio lo conduce alla strada del proprio desiderio.3
La formula di Lacan è ambigua. «Che egli desidera in quanto Altro» significa anzitutto che il desiderio dell’uomo è strutturato dal grande Altro «decentrato», ossia l’ordine simbolico: quel che desidero è predeterminato dal grande Altro, lo spazio simbolico nel quale dimoro. Persino quando i miei desideri sono trasgressivi, persino quando violano le norme sociali, la trasgressione dipende da quel che essa trasgredisce. Se ne rende ben conto san Paolo, quando, in un famoso passaggio della Lettera ai Romani, spiega come la presenza della legge sollevi il desiderio di violarla.
Poiché l’edificio morale delle nostre società ruota ancora intorno ai Dieci Comandamenti – la legge cui Paolo si riferiva – l’esperienza della nostra società liberal-permissiva non fa che confermare l’intuizione di Paolo, dimostrando continuamente che i nostri tanto decantati diritti umani sono, in sostanza, semplicemente diritti a infrangere i Dieci Comandamenti. «Il diritto alla privacy»: diritto all’adulterio, commesso in segreto, quando nessuno mi vede né ha il diritto di intromettersi nella mia vita. «Il diritto di ricercare la felicità e di detenere una proprietà privata»; diritto di rubare (di sfruttare gli altri). «La libertà di stampa e di opinione»; diritto di mentire. «Il diritto dei liberi cittadini di possedere armi»; diritto di uccidere. E, infine, «la libertà di culto»; diritto di venerare false divinità.
Vi è, però, un altro significato della frase «il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro»: il soggetto desidera solo nella misura in cui esperisce l’Altro come desiderante, come il luogo di un insondabile desiderio, quasi un desiderio opaco scaturisse da lui. Non solo l’altro mi indirizza un desiderio enigmatico, ma fa sì che io affronti l’enigma del mio desiderio, ossia il fatto che io stesso non sappia cosa desidero realmente. Secondo Lacan, che qui segue Freud, questa dimensione abissale di un altro essere umano – l’abisso della profondità di un altro temperamento, la sua radicale impenetrabilità – trovò per la prima volta piena espressione nel Giudaismo, con la sua ingiunzione di amare il prossimo come se stessi. Per Freud così come per Lacan, questa ingiunzione è estremamente problematica, in quanto offusca il fatto che, dietro al prossimo come mia immagine specchiata, come quello che mi somiglia, come colui con il quale posso empatizzare, è sempre in agguato l’insondabile abisso della radicale Alterità, di uno del quale infine non conosco nulla. Posso davvero fare affidamento su di lui? Chi è? Come posso essere certo che le sue parole non siano una mera finzione? In contrasto con l’atteggiamento new age che riduce il mio prossimo a mia immagine specchiata, o a mezzo per il fine della mia autorealizzazione (come nel caso della psicologia junghiana, in cui gli altri intorno a me finiscono per essere esteriorizzazioni/proiezioni degli aspetti rinnegati della mia personalità), il Giudaismo apre una tradizione nella quale un nucleo traumatico e alieno persiste per sempre nel mio prossimo, sicché esso rimane una presenza inerte, enigmatica e impenetrabile che mi rende isterico. Il fulcro di questa presenza è, ovviamente, il desiderio del prossimo, un enigma non solo per noi, ma anche per il prossimo stesso. Per questo, il «Che vuoi» di Lacan non chiede semplicemente: « Cosa vuoi?», ma piuttosto «Cos’è che ti irrita? Che cosa c’è in te che ti rende così insopportabile non solo a noi, ma anche a te stesso e che tu stesso evidentemente non controlli?»
La tentazione alla quale è qui necessario resistere coincide con l’addomesticamento etico del prossimo, ossia, ad esempio, quel che Emmanuel Lévinas fece con la sua nozione del prossimo come punto abissale dal quale emana il richiamo della responsabilità etica. Lévinas offusca la mostruosità del prossimo, una mostruosità a causa della quale Lacan applica al prossimo il termine Cosa (das Ding), utilizzato da Freud per designare l’oggetto ultimo dei nostri desideri nella sua intollerabile intensità e impenetrabilità. In questo termine si dovrebbero sentire tutte le connotazioni della fiction horror: il prossimo è la Cosa (Malvagia) che sta potenzialmente in agguato dietro a ogni volto umano familiare. Si pensi a Shining di Stephen King, in cui il padre, un modesto scrittore fallito, si trasforma gradualmente in una bestia assassina che, con ghigno malefico, arriva a trucidare l’intera sua famiglia. Non c’è da sorprendersi, allora, se il Giudaismo è anche la religione della Legge divina che regola i rapporti fra le persone: questa Legge è strettamente connessa all’emergere del prossimo come Cosa inumana. In altre parole, la funzione ultima della Legge non è di farci tenere a mente la nostra vicinanza al prossimo, di impedirci, cioè, di dimenticare il prossimo, ma, viceversa, di mantenere il prossimo a debita distanza, di proteggerci dalla mostruosità della porta accanto. Come scrive Rainer Maria Rilke nei Quaderni di Malte Laurids Brigge, c’è un essere affatto innocuo: quando ti sta davanti agli occhi quasi non lo vedi, e subito lo dimentichi. Ma non appena in qualche modo ti arriva invisibile nell’orecchio, lì si sviluppa, striscia subito fuori, e si sono visti casi in cui è arrivato fino al cervello e in quest’organo è cresciuto devastando tutto, come i pneumococchi del cane, che penetrano dal suo naso.
Questo essere è il vicino.4
E per questa ragione che trovarsi nella posizione dell’amato è una scoperta tanto violenta, talvolta persino traumatica: essere amato mi fa sentire direttamente lo scarto fra quello che sono in quanto essere determinato e l’insondabile x che è in me e che causa l’amore. La definizione lacaniana dell’amore – «Amore è dare qualcosa che uno non ha» – va integrata con «a qualcuno che non lo vuole». Ciò non è forse confermato dalla nostra più elementare esperienza quando qualcuno inaspettatamente ci dichiara il suo amore appassionato? La prima reazione, che precede la risposta positiva, che alla fine arriva, è che qualcosa di osceno, di invadente, venga spinto a forza su di noi. A metà di 21 Grammi di Guillermo Arriaga, Paul, che sta morendo per un problema al cuore, dichiara pacatamente il proprio amore a Cristina, traumatizzata dalla recente scomparsa del marito e dei suoi due bambini. Durante il loro successivo incontro, Cristina sbotta in una denuncia contro la natura violenta delle dichiarazioni d’amore:
Sai, mi hai fatto pensare tutto il giorno. Non ho parlato con nessuno per mesi e ti conosco appena e già sento il bisogno di parlare con te… E c’è qualcosa che più ci penso e meno capisco: perché diavolo mi hai detto che ti piaccio? Rispondimi, perché non mi è piaciuto proprio per nulla che tu me lo abbia detto. Non puoi prendere, andare da una donna che conosci appena e dirle mi piaci. N-o-n-p-u-o-i. Non hai idea di che cosa lei stia passando, di che cosa provi. Non sono sposata, lo sai. Non sono niente in questo mondo. Non sono proprio niente.5
A questo punto, Cristina guarda Paul, alza le mani e disperatamente prende a baciarlo sulla bocca. Dunque, non è che lui non le piacesse e che quindi lei non desiderasse il contatto carnale; al contrario, il suo problema era che lo desiderava. Il punto della sua denuncia era: che diritto aveva lui di infiammare il suo desiderio? Proprio a partire da questo abisso dell’Altro in quanto Cosa possiamo capire quel che Lacan intende quando parla di «parola fondante», ossia di affermazioni che conferiscono a una persona un qualche titolo simbolico e fanno sì che quella persona sia quanto è stata chiamata a essere, andando così a costituire la sua identità simbolica: «Tu sei la mia donna, tu sei il mio maestro…» Questa nozione è solitamente intesa come un’eco della teoria dei discorsi performativi, di quegli atti discorsivi, cioè, che nel loro stesso enunciarsi assolvono lo stato di cose che dichiarano (quando dico «Questa riunione è conclusa», concludo effettivamente la riunione).6 Tuttavia, dal brano che apre questo capitolo, risulta chiaro come Lacan miri a qualcosa di più. I discorsi performativi sono fondamentalmente atti di fiducia simbolica e di impegno simbolico. Quando dico a qualcuno «Tu sei il mio maestro!», obbligo me stesso a trattarlo in un certo modo e, con la medesima mossa, obbligo lui a trattare me in un certo modo. La questione per Lacan è che abbiamo bisogno di questo ricorso ai discorsi performativi, all’impegno simbolico, precisamente e solo nella misura in cui l’altro che dobbiamo affrontare non è solo il mio doppio-specchiato, qualcuno come me, ma anche lo sfuggente Altro assoluto che rimane un mistero insondabile. La funzione principale dell’ordine simbolico, con le sue leggi e le sue costrizioni, è di rendere la nostra coesistenza con altri minimamente sopportabile: un Terzo si deve frapporre fra me e il mio prossimo in modo che le nostre relazioni non esplodano in una violenza omicida.
Negli anni sessanta, nell’era dello «strutturalismo» (teorie basate sul concetto che l’intera attività umana sia regolata da meccanismi simbolici inconsci), Louis Althusser lanciò la celeberrima formula dell’«antiumanismo teorico», consentendo, se non addirittura richiedendo, che fosse integrata dall’umanismo pratico. Nella pratica dovremmo comportarci come umanisti, rispettando gli altri, trattandoli come persone libere con piena dignità, come creatori del loro mondo. Se non che, a livello teorico, dovremmo sempre tenere a mente che l’umanismo è un’ideologia, il modo in cui spontaneamente facciamo esperienza della nostra condizione, e che la vera conoscenza degli uomini e della loro storia non dovrebbe trattare gli individui come soggetti autonomi, ma come elementi di una struttura che segue leggi sue proprie. In contrasto con Althusser, Lacan sostiene che noi approviamo un antiumanismo pratico, un’etica che va oltre la dimensione di quanto Nietzsche chiamava «umano, troppo umano», e affronta il cuore inumano dell’umanità. Questo significa un’etica che tiene spericolatamente testa alla mostruosità latente dell’esser umani, quella dimensione diabolica che eruppe nel fenomeno ampiamente coperto dall’etichetta «Auschwitz».
Forse la maniera migliore per descrivere lo statuto di questa dimensione inumana del prossimo è riferirsi alla filosofia di Kant. Nella Critica della ragion pura, Kant introdusse una distinzione-chiave fra giudizio negativo e indefinito. L’affermazione positiva «l’anima è mortale» può infatti essere negata in due modi: possiamo negare un predicato («l’anima non è mortale»), o affermare un non-predicato («l’anima è non-mortale»). La differenza è esattamente la stessa di quella, nota a ogni lettore di Stephen King, fra la frase «non è morto» e la frase «è non-morto». Il giudizio indefinito apre un terzo dominio che scalza la distinzione fra morto e non-morto (vivo): i «non-morti» non sono né vivi né morti, sono i mostruosi «morti viventi». E lo stesso vale per l’«inumano»: dire «egli non è umano» non equivale a dire «egli è inumano». «Egli non è umano» significa semplicemente che egli è esterno all’umanità, animale o divino, mentre «egli è inumano» significa qualcosa di completamente diverso, ossia il fatto che egli non è né umano né inumano, ma contraddistinto da un terrificante eccesso che, nonostante neghi quanto intendiamo con umanità, è inerente all’esser umani. E forse bisognerebbe azzardare l’ipotesi che questo sia quel che cambia con la rivoluzione filosofica kantiana: nell’universo prekantiano, gli umani erano semplicemente umani, esseri ragionevoli che combattevano gli eccessi delle brame animali e della follia divina; con Kant, invece, l’eccesso da combattere è immanente e riguarda il nucleo stesso della soggettività. (Il che spiega perché, nell’idealismo tedesco, la metafora che indica il nucleo della soggettività sia la Notte, la «Notte del Mondo», in contrasto con la nozione illuminista della Luce della Ragione che combatte le tenebre tutt’intorno). Nell’universo prekantiano, quando un eroe impazzisce è privato della sua umanità, e le passioni animali o la follia divina prendono il sopravvento. Con Kant, la follia è segno della libera esplosione del nucleo stesso dell’essere umano.
Come possiamo evitare l’impatto traumatico dell’esposizione troppo diretta a questo terrificante abisso dell’Altro? Come possiamo fare i conti con l’insidioso incontro con il desiderio dell’Altro? Per Lacan, il fantasma fornisce una risposta all’enigma del desiderio dell’Altro. Va anzitutto notato, a proposito del fantasma, che esso letteralmente ci insegna come desiderare: fantasma non significa che quando desidero una torta alle fragole e non la posso avere nella realtà, fantastico di mangiarla; il problema è piuttosto: come so che desidero anzitutto una torta alle fragole? Proprio questo è quanto mi viene detto dal fantasma. Il presente ruolo del fantasma è imperniato sul punto morto della sessualità designato da Lacan nella sua paradossale asserzione «Non c’è rapporto sessuale», non c’è garanzia universale, cioè, di un rapporto sessuale armonioso con il proprio partner. Ogni soggetto ha da inventare un suo fantasma, una formula «privata» per il rapporto sessuale; il rapporto con una donna è possibile solo in quanto il partner aderisce a questa formula.
Un paio di anni fa, le femministe slovene sollevarono la pubblica indignazione contro il manifesto pubblicitario di una lozione solare messo in circolazione da una grossa azienda cosmetica, sul quale l’immagine di un certo numero di deretani femminili abbronzati e inguainati in succinti costumi da bagno era accompagnata dallo slogan «A ciascuna il suo fattore». Naturalmente, questa pubblicità si basava su un doppio senso di dubbio gusto: lo slogan, in apparenza, si riferiva alla crema, che veniva offerta ai consumatori con diversi fattori di protezione solare adatti a diversi tipi di pelle; tuttavia, il suo effetto complessivo si fondava sull’ovvia lettura sciovinista-maschile: «Qualsiasi donna può essere posseduta, se solo l’uomo ne conosce il fattore, lo specifico catalizzatore; insomma, quello che la eccita! » Il punto di vista freudiano è che ciascun soggetto, maschio o femmina che sia, possiede un tale «fattore» che regola il suo desiderio: «Una donna vista da dietro carponi» era il «fattore» per l’Uomo dei lupi, il paziente più celebre di Freud; una donna statuaria priva del pelo pubico era invece il fattore per John Ruskin. Non vi è nulla di edificante nel nostro essere consapevoli di questo fattore: esso è misterioso, persino terrificante, poiché in qualche modo spossessa il soggetto, riducendolo al livello di una marionetta, al di là di dignità e libertà.
Tuttavia, va subito aggiunto che il desiderio rappresentato nel fantasma non è il desiderio del soggetto stesso, ma il desiderio dell’altro, il desiderio di coloro che mi circondano e con i quali interagisco. Il fantasma, ossia la scena o lo scenario fantasmatico, è dunque una risposta al quesito: «Tu dici questo, ma cos’e che davvero vuoi nel momento in cui lo dici?» La domanda originaria del desiderio non è direttamente: «Cosa voglio?», ma: «Cosa vogliono gli altri da me? Cosa vedono in me? Cosa sono io per quegli altri?» Un bambino piccolo, per esempio, è incastrato in una complessa rete di relazioni, in quanto serve come sorta di catalizzatore e di campo di battaglia per i desideri di chi lo circonda. Suo padre, sua madre, i fratelli e le sorelle, gli zii e le zie, combattono le loro battaglie in suo nome; la madre invia un messaggio al padre attraverso la cura del figlio. Sebbene sia ben consapevole di questo suo ruolo, il bambino non può capire fino in fondo quale razza di oggetto egli sia per questi altri, a che razza di giochi stiano giocando con lui. Il fantasma fornisce una risposta a questo enigma: fondamentalmente esso mi indica che cosa io sia per i miei altri. È possibile individuare questo carattere intersoggettivo del fantasma persino nei casi più elementari, come quello, documentato da Freud, di sua figlia che fantasticava di mangiare una torta alle fragole. Quel che abbiamo qui non è affatto il semplice caso della diretta soddisfazione allucinatoria del desiderio (la bambina voleva una torta, non l’ha avuta, dunque non le resta che fantasticare). L’aspetto cruciale è che, nel fare una scorpacciata di torta alle fragole, la bambina aveva notato come i suoi genitori fossero profondamente soddisfatti alla vista del suo piacere. Quel che il fantasma del mangiare la torta alle fragole riguardava davvero era dunque il tentativo della bambina di formarsi un’identità (l’identità di una che gode pienamente nel mangiare una torta alle fragole donatale dai genitori) che avrebbe soddisfatto i suoi genitori rendendola l’oggetto del loro desiderio.
Dal momento che la sessualità è la sfera nella quale ci avviciniamo più che mai all’intimità di un altro essere umano, esponendoci completamente a lui, il godimento sessuale è per Lacan reale: qualcosa di traumatico nella sua intensità mozzafiato, ma anche qualcosa di impossibile, nel senso che mai riusciamo a dargli un senso. Ecco perché un rapporto sessuale, affinché funzioni, deve essere schermato da un qualche fantasma. Si ricordi l’incontro fra Sarah Miles e il suo amante illecito, l’ufficiale inglese, nel film La figlia di Ryan di David Lean: la descrizione dell’atto sessuale in mezzo alla foresta, con i suoni della cascata intesi a rappresentare la loro passione sommessa, non può che colpirci oggi come un’accozzaglia di cliché. Tuttavia, il ruolo dell’assurdo accompagnamento sonoro è profondamente ambiguo: nell’enfatizzare l’estasi dell’atto sessuale, questi suoni in un certo qual modo smaterializzano l’atto e ci liberano del peso della sua presenza. Un piccolo esperimento mentale può chiarire questo punto: immaginiamo che, nel mezzo di una simile resa patetica dell’atto sessuale, la musica taccia improvvisamente, obbligandoci ad affrontare l’inerte presenza dell’atto sessuale; non rimarrebbero, infatti, che gesti rapidi e convulsi, il loro doloroso silenzio interrotto soltanto da un occasionale fruscio o da un gemito. In breve, il paradosso della scena della Figlia di Ryan è che il suono della cascata stesso funziona come schermo fantasmatico che, filtrando il Reale, lo rimuove dall’atto amoroso.
Il canto dell’Internazionale in Reds di Warren Beatty svolge esattamente lo stesso ruolo del suono della cascata nella Figlia di Ryan: il ruolo dello schermo fantasmatico che ci consente di sopportare il Reale dell’atto amoroso. Reds integra la Rivoluzione d’Ottobre – per Hollywood l’evento storico più traumatico – nell’universo hollywoodiano rappresentandolo come sfondo metaforico dell’atto sessuale fra i protagonisti del film, ossia John Reed (interpretato dallo stesso Warren Beatty) e la sua amante (Diane Keaton). Nel film, la Rivoluzione d’Ottobre ha luogo immediatamente dopo una crisi nella loro relazione. Consegnando alla folla turbolenta una fiera orazione rivoluzionaria, Beatty incanta Keaton; i due si scambiano sguardi carichi di desiderio e le grida della folla fungono come metafora della rinascita della passione. Le scene mitiche-chiave della rivoluzione (le manifestazioni in piazza, la presa del Palazzo d’inverno) si alternano alla descrizione dei rapporti fisici della coppia, sullo sfondo della folla che canta l’Internazionale. Le scene di massa funzionano come metafore volgari dell’atto sessuale: il momento in cui la massa nera si avvicina e poi circonda il fallico tram, non è forse una metafora di Keaton che, nell’atto amoroso, gioca il ruolo attivo, cavalcando Beatty? Qui abbiamo l’esatto opposto di quel realismo socialista sovietico nel quale gli amanti esperivano il loro amore come contributo alla lotta per il socialismo, facendo un voto attraverso il quale sacrificare tutti i loro piaceri privati alla causa della rivoluzione e sommergersi nelle masse: in Reds, al contrario, la rivoluzione stessa appare come metafora dell’incontro sessuale riuscito.
Il comune buon senso solitamente attribuito alla psicoanalisi a proposito della sessualità intesa come il referente universale e nascosto di ogni attività – qualsiasi cosa facciamo, stiamo «pensando a quello» – è qui capovolto: è proprio il vero sesso che, per essere gradevole, deve essere filtrato dallo schermo asessuato della Rivoluzione d’Ottobre. In luogo del proverbiale «Chiudi gli occhi e pensa all’Inghilterra!», abbiamo qui «Chiudi gli occhi e pensa alla Rivoluzione d’Ottobre!» La logica è la medesima di quella di una tribù di nativi americani i cui membri hanno scoperto che tutti i sogni hanno un qualche significato sessuale nascosto; tutti tranne quelli apertamente sessuali: proprio lì va ricercato un senso diverso. (Nei suoi diari segreti, recentemente scoperti, Wittgenstein registra che, nel masturbarsi al fronte durante la prima guerra mondiale, pensava a problemi matematici). Ed è anche lo stesso nella realtà, con il cosiddetto sesso reale, che a sua volta ha bisogno di un qualche schermo fantasmatico. Qualsiasi contatto con un corpo reale in carne e ossa, qualsiasi piacere sessuale proviamo nel toccare un altro essere umano, non è qualcosa di evidente, ma qualcosa di intimamente traumatico, e può essere sopportato solo nella misura in cui questo altro si colloca all’interno della cornice fantasmatica del soggetto.
Che cos’è, dunque, il fantasma nella sua accezione più elementare? Il paradosso ontologico – se non addirittura lo scandalo – del fantasma risiede nel fatto che esso sovverte l’opposizione tradizionale fra «soggettivo» e «oggettivo»: ovviamente, il fantasma è per definizione non oggettivo (riferito a qualcosa che esiste indipendentemente dalle percezioni del soggetto); tuttavia, esso non è nemmeno soggettivo (qualcosa che appartiene alle intuizioni delle quali il soggetto coscientemente fa esperienza, al prodotto della sua immaginazione, insomma). Il fantasma appartiene piuttosto alla «bizzarra categoria dell’oggettivamente soggettivo – il modo in cui le cose ti sembrano realmente e oggettivamente, anche se non ti sembra che a te sembrino così».7 Per esempio, quando sosteniamo che qualcuno che sia coscientemente ben disposto nei confronti degli Ebrei non di meno covi profondi pregiudizi antisemitici dei quali non è consapevole, non sosteniamo forse (nella misura in cui questi pregiudizi non rappresentano ciò che gli Ebrei sono davvero, ma il modo in cui appaiono ai suoi occhi) che quel qualcuno non è davvero consapevole di come gli Ebrei gli appaiono veramente?
Nel marzo 2003, Donald Rumsfeld si impegnò in una breve gara di dilettantesco filosofare intorno alla relazione fra il conosciuto e lo sconosciuto: «Vi sono conoscenze conosciute. Si tratta di cose che sappiamo di conoscere. Vi sono conoscenze sconosciute, ossia cose che sappiamo di non sapere. Ma vi sono anche non-conoscenze sconosciute. Vi sono, cioè, cose che non sappiamo di non sapere». Quel che Rumsfeld dimenticò di aggiungere era il quarto, cruciale termine: «le conoscenze sconosciute», quelle cose che non sappiamo di sapere, vale a dire l’inconscio freudiano, la «conoscenza che non conosce se stessa», come diceva Lacan, il nocciolo della quale è il fantasma. Se Rumsfeld pensa che le principali insidie nell’affrontare l’Iraq siano le «non-conoscenze sconosciute», ossia le minacce che provengono da Saddam o dai suoi successori, delle quali non possiamo nemmeno sospettare la portata, quel che potremmo rispondere è che le principali insidie sono, al contrario, le «conoscenze sconosciute», le credenze e le supposizioni rinnegate che non sappiamo nemmeno far parte di noi, ma che non di meno determinano le nostre azioni e i nostri sentimenti.
Questo è anche un modo fra gli altri per specificare il significato dell’asserzione di Lacan secondo cui il soggetto è sempre «decentrato». Il che non significa che la mia esperienza soggettiva sia regolata da inconsci meccanismi oggettivi decentrati rispetto alla mia autoesperienza e, in quanto tali, al di là del mio controllo (un’idea affermata da ogni materialista). Lacan sostiene infatti qualcosa di ben più destabilizzante: sono privato della mia esperienza soggettiva, anche della più intima, del modo in cui «le cose mi sembrano davvero»; sono privato, insomma, del fantasma fondamentale che costituisce e garantisce il nucleo stesso del mio essere, dal momento che non posso mai farne esperienza consapevolmente né, dunque, immaginarlo.
Secondo la visione tradizionale, la dimensione costitutiva della soggettività è quella dell’(auto)esperienza fenomenica: sono un soggetto nel momento in cui posso dire a me stesso «non importa quale sconosciuto meccanismo governi le mie azioni, le mie percezioni, i miei pensieri; nessuno può portarmi via quanto sto vedendo e sentendo in quest’attimo». Se, quando fossi appassionatamente innamorato, un biochimico mi informasse del fatto che tutti i miei intensi sentimenti altro non sono che il risultato di un processo biochimico nel mio corpo, potrei rispondere attenendomi all’apparenza: «Può darsi che quanto dici sia vero, ma, ciò nonostante, nulla può portarmi via l’intensità della passione della quale sto facendo esperienza ora…» L’idea di Lacan, tuttavia, è che lo psicoanalista possa portar via dal soggetto tutto ciò: l’obiettivo ultimo dell’analista è di privare il soggetto proprio del fantasma fondamentale che regola l’universo della sua (auto)esperienza. Il soggetto freudiano dell’inconscio emerge soltanto quando un aspetto-chiave dell’(auto)esperienza del soggetto (il suo fantasma fonda-mentale) gli diviene inaccessibile, rimosso a un livello primordiale. In sostanza, l’inconscio coincide con il fenomeno inaccessibile e non con i meccanismi oggettivi che regolano la mia esperienza fenomenica. Dunque, in contrasto con il luogo comune secondo il quale abbiamo a che fare con un soggetto nel momento in cui un’entità presenta segni di una vita interiore (di un’esperienza fan-tasmatica che non può essere ridotta al comportamento esteriore), si dovrebbe sostenere che ciò che caratterizza la soggettività umana propriamente detta è, piuttosto, la breccia che separa i due, ossia il fatto che il fantasma, al suo livello più elementare, diviene inaccessibile al soggetto. È questa inaccessibilità a rendere il soggetto, come Lacan lo caratterizzava, «vuoto».
Otteniamo dunque un rapporto che sovverte completamente la nozione tradizionale del soggetto che esperisce direttamente attraverso i suoi stati interiori: uno strano rapporto fra il soggetto vuoto, non fenomenico e i fenomeni che rimangono inaccessibili al soggetto. In altre parole, la psicoanalisi ci consente di formulare una paradossale fenomenologia senza un soggetto; sorgono fenomeni che non sono fenomeni di un soggetto, che appaiono a un soggetto. Questo non significa che il soggetto non sia qui coinvolto: lo è, ma precisamente nella maniera dell ‘esclusione, in quanto diviso, in quanto agire [agency] che non è in grado di assumere il nocciolo della sua esperienza interiore.
Questo stato paradossale del fantasma ci porta al punto decisivo dell’inconciliabile differenza fra la psicoanalisi e il femminismo, quello dello stupro (e delle fantasie masochistiche che lo sostengono). Almeno per il femminismo tradizionale, che lo stupro sia una violenza imposta dall’esterno è un assioma: anche se una donna fantastica di essere stuprata o brutalmente maltrattata, si tratta pur sempre di un fantasma maschile sulle donne. Altrimenti, se una donna si abbandona a simili fantasie, lo fa nella misura in cui ha «interiorizzato» l’economia libidica paternalista e sottoscritto la propria vittimizzazione. L’idea sottesa a quest’ultima ipotesi è che, nel momento in cui riconosciamo questo fatto di sognare a occhi aperti uno stupro, apriamo la porta alle banalità scioviniste-maschili secondo cui, nell’essere stuprate, le donne otterrebbero semplicemente quanto segretamente volevano, e il loro shock e la loro paura esprimerebbero soltanto il fatto che non erano abbastanza sincere per ammettere il proprio desiderio. Dunque, nel momento in cui si fa cenno al fatto che una donna potrebbe fantasticare di essere stuprata, ci si sente obiettare che «È come dire che gli Ebrei fantasticano di essere uccisi con il gas nei campi di concentramento, o che gli Afroamericani fantasticano di essere linciati!» In questa prospettiva, la posizione isterica scissa della donna (che si lamenta di essere sessualmente maltrattata e sfruttata, mentre, al medesimo tempo, lo desidera e provoca l’uomo affinché la seduca) è secondaria, laddove per Freud questa scissione è primaria, costitutiva della soggettività.
La conclusione pratica di tutto ciò è che se anche (alcune) donne forse davvero sognano a occhi aperti di essere stuprate, questo fatto non solo non legittima in alcun modo il reale stupro, ma lo rende ancor più violento. Prendiamo due donne: la prima è emancipata, si fa avanti, è attiva; l’altra sogna segretamente a occhi aperti di essere trattata brutalmente, persino violentata, dal suo partner. La questione cruciale è che, se entrambe fossero stuprate, lo stupro risulterebbe ben più drammatico per la seconda donna, proprio per via del fatto che realizzerebbe nell’«esterna» realtà sociale la «sostanza dei suoi sogni». Vi è una breccia che separa irrimediabilmente il nucleo fantasmatico dell’essere del soggetto dai più superficiali modi delle sue identificazioni simboliche o immaginarie. Non mi è mai possibile assumere pienamente (nel senso di integrazione simbolica) il nucleo fantasmatico del mio essere: quando mi avvicino troppo, ciò che accade è quanto Lacan chiama afanisi (l’annientamento di sé) del soggetto. Il soggetto perde la propria consistenza simbolica, si disintegra. E forse l’attualizzazione forzata nella stessa realtà sociale del nucleo fantasmatico del mio essere è il peggiore, il più umiliante tipo di violenza, una violenza che scalza il fondamento stesso della mia identità (della mia autorappresentazione).8 Di conseguenza, secondo Freud il problema con lo stupro è che il suo impatto così traumatico non dipende semplicemente dal fatto che si tratta di un caso di brutale violenza esteriore, ma anche dal fatto che esso va a toccare qualcosa di rinnegato nella vittima stessa. Dunque, quando Freud scrive: «Ciò a cui [i malati di nevrosi] ambiscono più intensamente con l’immaginazione, essi lo fuggono allorché la realtà lo offre loro»,9 la sua idea è che questo non accada meramente a causa della censura, ma piuttosto perché il nucleo del nostro fantasma ci è insopportabile.
Un paio di anni fa, la televisione britannica trasmise un affascinante spot che pubblicizzava una birra. Incominciava con un tipico incontro da favola: una ragazza sta camminando sulla riva di un ruscello, quand’ecco che vede un rospo, lo prende garbatamente in grembo, lo bacia, e naturalmente il disgustoso ranocchio si trasforma in un giovane di bella presenza. Ma la storia non è finita: il giovane scocca alla ragazza uno sguardo famelico, la trae a sé, la bacia, e lei si trasforma in una bottiglia di birra che lui tiene trionfalmente in mano. Per la donna, l’essenziale è che il suo amore e il suo affetto (segnalati dal bacio) trasformino il rospo in un bell’uomo, una piena presenza fallica; per l’uomo, invece, è ridurre la donna a oggetto parziale, la causa del suo desiderio. Per via di questa asimmetria, non vi è rapporto sessuale: o abbiamo una donna con in mano un ranocchio, o un uomo con una bottiglia di birra. Quel che non riusciamo mai a ottenere è la coppia naturale del bell’uomo con la bella donna: la controparte fantasmatica di questa coppia ideale sarebbe stata la figura di un ranocchio che abbraccia una bottiglia di birra; un’immagine incongrua che, invece di garantire l’armonia del rapporto sessuale, ne sottolinea il ridicolo disaccordo.10 Questo apre la possibilità di scalzare la presa che un fantasma esercita su di noi attraverso la nostra stessa sovraidentificazione con esso: abbracciando simultaneamente, nel medesimo luogo, la moltitudine di elementi fantasmatici inconsistenti. In altre parole, ambedue i soggetti sono coinvolti ciascuno nel proprio soggettivo fantasticare; la ragazza fantastica sul rospo che in realtà è un giovanotto, l’uomo sulla ragazza che in realtà è una bottiglia di birra. A questo l’arte moderna e la scrittura oppongono non già la realtà oggettiva, ma l’«oggettivamente soggettivo» che soggiace al fantasma e che i due soggetti non riescono mai a rappresentare, un dipinto magrittiano con un rospo a cavallo di una bottiglia di birra, dal titolo «Un uomo e una donna» o «La coppia ideale». (L’associazione con il famoso spezzone surrealista dell’« Asino morto su un pianoforte» è qui pienamente giustificata, giacché anche i surrealisti praticavano questa sovraidentificazione con fantasmi incongrui). E non è forse questo il dovere etico degli artisti odierni, di metterci cioè di fronte al rospo che abbraccia la bottiglia di birra, quando sogniamo a occhi aperti la persona amata? O, detto altrimenti, di allestire fantasmi radicalmente desoggettivati, che non potranno mai essere rappresentati dal soggetto?
Questo ci conduce a un’ulteriore complicazione cruciale: se ciò di cui facciamo esperienza in termini di «realtà» è strutturato dal fantasma, e se il fantasma svolge la funzione dello schermo che ci protegge dall’essere direttamente sommersi dal Reale nudo e crudo, allora la stessa realtà può funzionare come scappatoia dall’incontro con il Reale. Nell’opposizione fra sogno e realtà, il fantasma sta dalla parte della realtà, ed è nei sogni che incontriamo il Reale traumatico. Non che i sogni siano per chi non è in grado di sopportare la realtà; la realtà stessa, piuttosto, è per chi non è in grado di sopportare (il Reale che si annuncia ne)i loro sogni. Questa è la lezione che Lacan trae dal famoso sogno riportato da Freud nella sua Interpretazione dei sogni, quello del padre che si addormenta mentre fa la guardia alla bara del figlio. In questo sogno, il figlio morto gli appare, pronunciando il terribile appello: «Padre, non vedi che sto bruciando?» Allorché il padre si risveglia, si accorge che il drappo sulla bara del figlio ha preso fuoco, incendiato da una candela caduta. Per quale motivo, dunque, il padre si era svegliato? Era perché l’odore del fumo era divenuto troppo acre, al punto da non consentirgli più di prolungare il suo sonno contenendo l’evento in un sogno improvvisato? Lacan propone una lettura ben più interessante:
Se la funzione del sogno è di prolungare il sonno, se, dopo tutto, il sogno può avvicinarsi tanto alla realtà che lo provoca, non si può forse dire che a questa realtà si potrebbe rispondere senza uscire dal sonno? – dopo tutto, ci sono attività sonnamboliche. La questione che si pone, e che, del resto, tutte le precedenti indicazioni di Freud ci permettono di produrre qui, è – Cos’è che sveglia? Non è forse, nel sogno, un’altra realtà? – realtà che Freud descrive così – Das Kind das an seìnem Bette steht, il bambino è vicino al suo letto, ihn am Armefasst, lo prende per un braccio e gli sussurra con aria di rimprovero, und ìhm vorwurfsvoll zuraunt: Vater, siehst du denn nicht, Padre, non vedi, das ich verbrenne?, che brucio?
Non c’è forse più realtà in questo messaggio che nel rumore per cui il padre pure identifica la strana realtà di ciò che avviene nella stanza accanto? Non passa forse in queste parole la realtà mancata che ha causato la morte del figlio?11
Non fu dunque l’intrusione della realtà esterna a svegliare lo sfortunato padre, ma il carattere insopportabilmente traumatico di quel che aveva incontrato nel sogno. Nella misura in cui «sognare» significa fantasticare in modo da evitare di trovarsi faccia a faccia con il Reale, il padre si svegliò, letteralmente, per poter andare avanti a sognare. Lo scenario era il seguente: nel momento in cui il fumo disturbò il suo sonno, il padre costruì rapidamente un sogno che incorporasse l’elemento di disturbo (fumo-fuoco), in modo da poter prolungare il sonno; tuttavia, quel che. si trovò di fronte nel sogno era un trauma (della sua responsabilità per la morte del figlio) ben più forte della realtà, tale da farlo risvegliare nella realtà per evitare il Reale.
Nell’arte contemporanea incontriamo spesso tentativi brutali di «tornare al reale», di ricordare allo spettatore (o al lettore) che quel che percepisce è una finzione, di risvegliarlo dal dolce sogno. Questo gesto ha due forme principali che, seppur opposte, equivalgono allo stesso effetto. Nella letteratura o nel cinema vi sono (specialmente nei testi postmoderni) promemoria autoriflessivi che ci ricordano che quanto stiamo guardando è una mera finzione, come quando gli attori o lo schermo si rivolgono a noi direttamente come spettatori, rovinando così l’illusione dello spazio autonomo della finzione narrativa, o quando lo scrittore interviene direttamente nella narrazione con commenti ironici. Anche nel teatro vi sono occasionalmente eventi brutali che ci risvegliano alla realtà del palcoscenico (come sgozzare un pollo in scena). Anziché conferire a questi gesti una sorta di dignità brechtiana, percependoli come versioni dell’alienazione, bisognerebbe denunciarli per quello che sono, ossia l’esatto opposto di quanto sostengono di essere: vie di fuga dal Reale, tentativi disperati di evitare il reale dell’illusione stessa, il Reale che emerge in guisa di uno spettacolo illusorio.
Ci troviamo qui di fronte alla fondamentale ambiguità della nozione di fantasma: mentre, da un lato, il fantasma è lo schermo che ci protegge dall’incontro con il Reale, dall’altro esso, al suo livello più fondamentale – quello che Freud chiamava il «fantasma fondamentale», che fornisce le coordinate più elementari della capacità desiderativa del soggetto – non può mai essere soggettivato, e deve rimanere rimosso per funzionare. Si ripensi alla conclusione apparentemente volgare del film di Stanley Kubrick Eyes Wide Sbut. Dopo che Tom Cruise ha confessato a Nicole Kidman la sua avventura notturna ed entrambi si trovano a dover fronteggiare l’eccesso del loro rispettivo fantasticare, Kidman – constatato che ora sono ben svegli, di nuovo nel giorno dove, se non per sempre, almeno per lungo tempo intendono rimanere mantenendo il fantasma a debita distanza – gli dice che devono fare qualcosa al più presto. «Che cosa?» chiede lui. «Scopare» risponde lei. Fine del film; scorrono i titoli di coda. La natura del passage à l’acte (passaggio all’atto) come la falsa via d’uscita, la maniera, cioè, per evitare di misurarsi con l’orrore del fantasmatico mondo sotterraneo, non era mai stata affermata così schiettamente in un film. Lungi dal procurare loro una reale soddisfazione fisica che soppianti il vuoto fantasticare, il passaggio all’azione è presentato come un tappabuchi, come una disperata misura preventiva che possa mantenere distante lo spettrale mondo sotterraneo delle fantasie. È come se il messaggio di lei fosse: «Scopiamo ora per poter soffocare le nostre fantasie brulicanti prima che prendano di nuovo il sopravvento su di noi». Il gioco di parole lacaniano a proposito dello svegliarsi nella realtà per fuggire dal reale incontrato nel sogno è più che mai appropriato nell’atto sessuale: non sogniamo di scopare quando non siamo in grado di farlo; scopiamo, piuttosto, per soffocare il potere esorbitante del sogno che altrimenti arriverebbe a sopraffarci, e per sfuggirgli. Secondo Lacan, il compito ultimo dell’etica è quello del vero risveglio: non solo dal sonno, ma dall’incantesimo del fantasma, che ci controlla ancor più proprio quando siamo svegli.
1 In italiano nel testo [N.d. T.].
2 Lacan J., Le séminaire de Jacques Lacan. Livre III. Les psychoses (1955-1956), Seuil, Paris 1981 [trad. it. Il Seminario. Libro III. Le psicosi. 1955-1956. Testo stabilito da Jacques-Alain Miller, a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1985, p. 45].
3 Lacan, Scritti cit., p. 817.
4 Rilke R. M., Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge, Insel, Leipzig 1910 [trad. it. I quaderni di Malte Laurids Brigge, Adelphi, Milano 1992, p. 126].
5 Arriaga G., 21 Grams, Faber & Faber, London 2003, p. 107, trad, nostra [N.d.T. ].
6 Il collegamento fra Lacan e J. L. Austin, autore della nozione di discorso performativo, fu Emile Benveniste.
7 Dennett D.C., Consciousness Explained, Brown, Boston-Toronto-London 1991 [trad. it. Coscienza, Rizzoli, Milano 1993, p. 153].
8 È anche per questo che gli uomini che davvero commettono stupri non fantasticano di stuprare le donne; al contrario, fantasticano di essere garbati e di trovare una compagna amorevole. Lo stupro è piuttosto un violento passage a l’acte che emerge dalla loro incapacità di trovare una tale compagna nella vita reale.
9 Freud S., Frammento di un’analisi di isteria (Caso clinico di Dora) (1901), in Opere, vol. 5, Boringhieri, Torino 1970, p. 109.
10 Naturalmente, l’ovvia idea femminista sarebbe che quanto le donne testimoniano nella loro esperienza quotidiana è lo scenario opposto: baci un bel giovane e, dopo che ti sei avvicinata troppo a lui, vale a dire quando è ormai troppo tardi, ti accorgi che in realtà non è che un rospo, magari pure alcolizzato.
11 Lacan Le séminaire de Jacques Lacan. Livre XI. Le quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse. 1964, Seuil, Paris 1973 [trad. it. Il Seminano. Libro XI. Testo stabilito da Jacques-Alain Miller. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, Einaudi, Torino 1979, pp. 58-59].