Seconda guerra mondiale – I retroscena del nostro intervento – 2
Servizio a cura di Duilio Susmel
L’Italia doveva essere pronta alla guerra per la fine del 1942. Lo aveva scritto al re Mussolini stesso. Ma l’ansia di intervenire cominciava ad essere predominante nel duce. Il 20 dicembre 1939, ricevendo un alto gerarca nazista, Mussolini non aveva nascosto la propria impazienza di scendere in campo con la Germania.
Il 5 gennaio 1940, Mussolini indirizzò una lettera a Hitler, nella quale esaminava i problemi del momento, dopo mesi di reciproco silenzio. Fra l’altro definiva freddi i rapporti di Roma con Parigi e Londra, tanto da escludere che potesse ripetersi quanto avvenuto nel 1915, cioè il passaggio dell’Italia dall’una all’altra coalizione. Escludeva anche l’ipotesi di un blocco di neutrali capeggiato dall’Italia e indicava come difficili i rapporti italo-sovietici. Esortava ancora il Führer ad assicurare l’indipendenza della Polonia, per rendere possibili trattative di pace: «Vale la pena — scrisse — ora che avete realizzato la sicurezza dei vostri confini orientali e creato il grande Reich di novanta milioni di abitanti, di rischiare tutto, compreso il regime, e di sacrificare il fiore delle generazioni tedesche per anticipare la caduta di un frutto che dovrà fatalmente cadere e dovrà essere raccolto da noi che rappresentiamo le forze nuove d’Europa?». Egli continuava con una raccomandazione a Hitler di non stringere con la Russia rapporti in contrasto con l’antibolscevismo del nazionalsocialismo, perché ciò avrebbe prodotto in Italia catastrofiche ripercussioni. Insisteva nel ricordare che lo spazio vitale per la Germania era proprio ad oriente. Il bolscevismo era da abbattere prima ancora delle democrazie occidentali, già in fase di decadenza. In quanto all’Italia, essa si armava per intervenire nel momento più redditizio e decisivo.
A tale lettera, Hitler rispose due mesi dopo, l’8 marzo 1940. Sosteneva che ormai la partita poteva essere risolta soltanto con le armi e ricordava che il posto dell’Italia era al fianco dell’alleato. Latore del messaggio fu il ministro degli Esteri von Ribbentrop. Era la mattina di domenica 10 marzo. Nel colloquio che seguì, von Ribbentrop segnalò l’azione di sobillamento contro l’Asse compiuta in Francia, Inghilterra e Polonia dagli ambasciatori degli Stati Uniti. Affermò che Stalin aveva dichiarato di rinunciare alla rivoluzione comunista mondiale. Alla fine della conversazione, Mussolini disse che intendeva riflettere su tutti i problemi e, mostrando la lettera di Hitler, concluse: «Io credo che il Führer abbia ragione».
«L’Italia è come il pugile sul ring»
In vista del secondo colloquio con von Ribbentrop, fissato per il pomeriggio dell’11 marzo, il duce annotò gli argomenti che si proponeva di discutere. Ecco il testo dell’autografo, così come è finora emerso:
«Mese di settembre: impreparazione dovuta alle guerre africana e spagnola. Mi rendo conto che la Germania non poteva fare a meno di marciare contro la Polonia e che ogni ”Verzögerung” [ritardo], poteva essere fatale.
«a) La Germania non aveva certo bisogno dell’Italia per vincere la Polonia; b) e nemmeno sul fronte occidentale. L’intervento dell’Italia avrebbe allargato la guerra, cioè fatto il gioco dei franco-inglesi. Bisogna ricordare che mentre la Germania ha uno scacchiere solo, l’Italia ne ha cinque: e ognuno di essi ha più fronti. Se il corso degli avvenimenti ha dato ragione al Führer, il corso degli avvenimenti ha anche, di fronte ai tedeschi, giustificato l’atteggiamento dell’Italia.
«Situazione attuale: accelerata preparazione degli armamenti. È necessaria l’offensiva per piegare i franco-inglesi? Gli scopi della vostra guerra sono raggiunti». (…)
Come si noterà, il tono di questo promemoria abbandona quello critico della lettera a Hitler del 5 gennaio, ma non v’è neppure un accenno all’eventualità di una nostra imminente entrata in guerra. Significativa è la frase: «È necessaria l’offensiva per piegare i franco-inglesi? Gli scopi della vostra guerra sono raggiunti». Purtroppo, proprio queste due frasi risultano cancellate sommariamente con tratti di matita: cancellate di pugno dal duce.
Al secondo colloquio con von Ribbentrop, infatti, Mussolini preannuncio l’intervento a fianco della Germania. Sino a prova contraria, dunque, Mussolini prese la fatale decisione fra il pomeriggio del 10 marzo e il pomeriggio dell’11.
Il verbale del suo secondo colloquio con von Ribbentrop reca: «(…) Il duce ha dichiarato che al momento dello scoppio della guerra, il 3 settembre, l’Italia non era pronta. (…) Ha sottolineato che è praticamente impossibile per l’Italia di mantenersi al di fuori del conflitto. Al momento dato entrerà in guerra e la condurrà con la Germania e parallelamente ad essa, perché l’Italia ha anche da parte sua dei problemi da risolvere. Egli ha definito i problemi dei confini terrestri, ora deve rivolgersi al problema dei confini marittimi, e mai più forte che in questo momento si è palesata la necessità che l’Italia deve avere libero accesso all’Oceano. (…) L’Italia è molto paziente e lo deve rimanere finché non è pronta, come il pugile sul ring deve in alcuni momenti sapere anche incassare molti colpi. La durata di tale prova di pazienza diventa sempre più breve. L’Italia ha molto progredito con i propri armamenti (…). Se l’Italia il 3 settembre fosse entrata in guerra, avrebbe dovuto chiedere aiuto alla Germania. Il ministro degli Affari Esteri del Reich ha concordato ed ha osservato che il Führer ha egli stesso dichiarato che è stato meglio che l’Italia non sia entrata subito in guerra. (…) Il duce è passato quindi a parlare della questione del momento in cui l’Italia potrà entrare in guerra. Tale questione è la più delicata, poiché egli vuole entrare in guerra solo quando è completamente preparato, per non essere di peso al suo compagno. Ad ogni modo egli deve fin da ora con ogni chiarezza dichiarare che l’Italia non può sostenere finanziariamente una guerra lunga. (…)». Si disse scettico circa l’intervento degli Stati Uniti nel conflitto, e prospettò l’ipotesi di un blocco italo-tedesco-russo-giapponese.
«Hitler mi è parso sicuro della vittoria»
Ormai il dado era tratto, benché il Paese continuasse a ignorarlo. Il 18 marzo Mussolini incontrò Hitler al Brennero. Il Führer ribadì che l’offensiva contro i franco-inglesi era prossima e fece un’esaltazione della potenza militare tedesca. Dal conto suo, Mussolini confermò il proposito espresso a von Ribbentrop di fare intervenire l’Italia al fianco del Reich, con riserva di scelta del momento. Rientrato a Roma, l’indomani telegrafò al re:
«Colloquio di ieri è stato molto importante, più di quanto non avessi preveduto. Hitler mi è apparso in ottimo stato spirituale e fisico, e, malgrado talune oscillazioni, sicuro di vincere. (…)».
Il 4 aprile, Mussolini inviò al sovrano un memoriale segreto, indirizzato pure ad altre sei personalità. Il documento tracciava il programma d’azione. Mussolini sosteneva che la guerra non era più evitabile: «si tratta di sapere quando e come; si tratta di ritardare il più a lungo possibile, compatibilmente con l’onore e la dignità, la nostra entrata in guerra». Strategia difensiva sui fronti terrestri, offensiva su quelli aerei e navali. Il re definì quel memorandum di una logica «geometrica».
Ai responsabili delle operazioni militari, convocati per avvertirli del deciso intervento e fissare le direttive d’azione, il 29 maggio Mussolini disse che la data «era stata, in un primo tempo, fissata per la primavera del 1941». E continuò: «Dopo la facile conquista della Norvegia e la dominazione della Danimarca, io avevo già accorciato questa data ai primi di settembre del 1940. Adesso, dopo la conquista dell’Olanda, la resa del Belgio, l’invasione della Francia e la situazione generale che si è determinata, io ho ancora accorciata questa distanza e considero tutti i giorni buoni per entrare in guerra dal 5 giugno prossimo venturo. La situazione attuale non permette ulteriori indugi, perché altrimenti noi corriamo dei pericoli maggiori di quelli che avrebbero potuto essere provocati con un intervento prematuro. (…) Considero questa situazione [dell’esercito – n.d.r.] non ideale, ma soddisfacente. D’altra parte se tardassimo due settimane o un mese, non miglioreremmo la nostra situazione, mentre potremmo dare alla Germania l’impressione di arrivare a cose fatte, quando il rischio è minimo, oltre alla considerazione, non essere nel nostro costume morale colpire un uomo che sta per cadere. Tutto ciò infine può essere grave nel momento della pace definitiva. (…)».
«Per ricalcare le orme delle legioni di Roma»
Badoglio, presente, nulla obiettò, ma il 1° giugno scrisse al duce una lettera nella quale sosteneva che, molto probabilmente, il tempo previsto dai tedeschi per l’annientamento della Francia poteva prolungarsi di qualche settimana. Di conseguenza, anche per l’impreparazione del fronte libico, Badoglio concludeva: «Secondo il mio convincimento dobbiamo cercare, a ogni costo, di guadagnare tutto il mese di giugno».
Sempre il 1° giugno, Vittorio Emanuele III approvò la formula della prossima dichiarazione di guerra, così come approvò poi la nuova e definitiva data di intervento fissata per l’il giugno. Il re non consultò il Consiglio della Corona e non chiese al duce il parere del Gran Consiglio, del Senato della Camera. Non solo non sollevò obiezioni di sorta, ma considerò la guerra contro la Francia e l’Inghilterra come una decisione necessaria.
L’11 giugno, cioè il giorno dopo il discorso di Mussolini che annunciava l’entrata in guerra, Vittorio Emanuele rese noto in un proclama ai combattenti che affidava a Mussolini «il comando delle truppe operanti su tutti i fronti». Quindi partì verso la zona del confine occidentale, dove il gruppo di armate era comandato dal principe Umberto, il quale, dal canto suo, telegrafò al duce che le truppe «tese verso la vittoria immancabile (…) rinnovano all’infaticabile artefice del destino della Patria la promessa di tutto osare per ricalcare le orme delle legioni di Roma».
Ben presto, nonostante la direttiva prestabilita di restare nella difensiva sui fronti terrestri, davanti alla fulminea avanzata germanica in Francia Mussolini si convinse della necessità di passare all’offensiva sulle Alpi occidentali. Il 15 giugno, quando Parigi era ormai in mano ai tedeschi, ne diede l’ordine per il 18 a Badoglio e al maresciallo Rodolfo Graziani, capo di stato maggiore dell’esercito, i quali però gli obiettarono che il passaggio dallo schieramento difensivo a quello offensivo su quel terreno montagnoso avrebbe richiesto più di venti giorni. Egli insistette perché tutto fosse anticipato, dato che l’Italia non avrebbe potuto avanzare rivendicazioni verso la Francia senza avere prima combattuto. Il 17 giugno, il nuovo capo dello Stato francese, maresciallo Pétain, chiese l’armistizio alla Germania, e Hitler convocò Mussolini a Monaco per esaminare insieme la questione. Quel giorno il duce inviò al re, sempre sul confine occidentale, il seguente dispaccio:
«Gli eventi si sono svolti com’era facile prevedere. Parto alle ventuno per Monaco, invitato dal Führer a conferire circa le condizioni della resa.
«Le cose ai confini egiziani non sono andate brillantissimamente. Ma si tratta di episodi marginali, che saranno esaltati dagli inglesi sì, ma non sono sufficienti a dare loro anche la sola parvenza di un balsamo. Abbiamo perduto durante i giorni scorsi due ridotte, due dozzine di autocarri, e due compagnie libiche, dico libiche, si sono sbandate. Credo che Balbo ristabilirà la situazione».
L’attacco alla Francia fra bufere di pioggia
Il pomeriggio del 20 giugno Mussolini, rientrato a Roma, presiedette a palazzo Venezia una riunione militare, durante la quale fu decisa l’azione contro la Francia. Vi parteciparono Badoglio, Graziani, Soddu e il generale Pricolo, capo di stato maggiore dell’aeronautica. Di quella riunione esiste un dettagliato verbale.
Mussolini esordì dicendo che, in base ai crescenti successi tedeschi in territorio transalpino, occorreva abbandonare ogni ulteriore attesa. «Il duce — è detto testualmente nel verbale — giudica pertanto necessario iniziare l’azione offensiva all’alba di domani venerdì 21 giugno 1940».
Dopo interventi di Badoglio e di Graziani, Mussolini — è detto nel verbale — «ordina che l’attacco sia iniziato domattina alle ore tre. Accenna alla convenienza di tendere ad entrare al più presto possibile in cooperazione con le forze tedesche operanti verso la Savoia. Afferma che la situazione impone di agire, perché sarebbe un grave danno per il nostro prestigio ricevere il territorio dalle mani dell’alleato, senza averlo occupato. D’altra parte le resistenze che si dovessero affrontare costituiranno occasione favorevole per dimostrare come si battono le nostre truppe».
Davanti a un’obiezione del generale Pricolo, che alle tre del mattino le condizioni di visibilità erano proibitive per gli aerei da bombardamento e da caccia, Mussolini acconsentì a spostare l’inizio dell’attacco «non oltre le ore tre e trenta».
L’attacco iniziò con uno schieramento offensivo incompleto, fra bufere di pioggia e di neve. Tuttavia le nostre truppe riuscirono coraggiosamente ad avanzare. La Francia si affrettò a chiedere l’armistizio anche all’Italia, quando la nostra penetrazione sul fronte era appena agli inizi e dei grossi centri era stato occupato soltanto Mentone. Intanto si erano conosciute le condizioni imposte dalla Germania e Mussolini decise di ridurre quelle che aveva preventivato: niente più Tunisia, Corsica e Gibuti, ma appena l’occupazione della fascia territoriale conquistata oltre frontiera, con alcune clausole di salvaguardia in attesa del trattato di pace. L’armistizio franco-tedesco fu firmato il 22 giugno; quello franco-italiano il 24. La guerra continuava contro l’Inghilterra.
2 – Continua
Domenica del Corriere, 23 Giugno 1970