La stanza di Montanelli
Caro Montanelli,
Sono una sua lettrice di 18 anni. Durante una lezione di storia sulla campagna d’Africa, è riaffiorato in me il ricordo molto vago di un suo articolo riguardo una «storia» vissuta da lei con una «faccetta nera». Vorrei chiederle un grande favore: non racconterebbe un’altra volta quell’avventura che dopo tanto tempo mi è ritornata in modo nebuloso in mente, stuzzicando la mia curiosità?
Rossella Locatelli, Chiuduno (Bg)
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Cara Rossella,
La tua domanda è alquanto indiscreta, e se tu fossi una diciottenne dei tempi in cui io ero un venticinquenne, la cestinerei senza esitare. Ma siccome sento dire che le diciottenni di oggi sono in grado di affrontare qualsiasi verità senza nemmeno l’imbarazzo di doversene fingere scandalizzate, eccoti quella mia, anche se probabilmente tornerà a tirarmi addosso — com’è già accaduto — le qualifiche di colonialista, imperialista, e perfino quella di stupratore.
Dunque, le cose andarono così. Inebriato dall’avventura etiopica, un po’ perché era un’avventura, e un po’ perché, come tutti i giovani di allora, avevo nel sangue la Patria, l’Onore e il lavaggio della cosiddetta «onta di Adua», mi arruolai volontario, e venni assegnato ai reparti indigeni formati dagli Ascari eritrei (ma non soltanto eritrei, perché c’erano anche parecchi abissini, che preferivano combattere dalla parte nostra che non da quella del loro Negus, ma questa è un’altra storia).
Completamente frastornato dal nuovo ambiente (arrivavo da Parigi), mi presentai al comandante di Battaglione, Mario Gonella, un piemontese di lunga e brillante esperienza coloniale, che mi diede alcuni ordini, ma anche alcuni consigli sul modo di comportarmi con gl’indigeni e con le indigene. Per queste ultime, mi disse di consultarmi col mio «sciumbasci», il più elevato in grado della truppa, che dopo trent’anni di servizio sotto la nostra bandiera conosceva i gusti di noi ufficiali.
Si trattava di trovare una compagna intatta per ragioni sanitarie (in quei Paesi tropicali la sifilide era, e credo che ancora sia, largamente diffusa) e di stabilirne col padre il prezzo. Dopo tre giorni di contrattazioni a tutto campo tornò con la ragazza e un contratto redatto dal capo-paese in amarico, che non era un contratto di matrimonio ma — come oggi si direbbe — una specie di «leasing», cioè di uso a termine. Prezzo 350 lire (la richiesta era partita da 500), più l’acquisto di un «tucul», cioè una capanna di fango e di paglia del costo di 180 lire.
La ragazza si chiamava Destà e aveva 14 anni: particolare che in tempi recenti mi tirò addosso i furori di alcuni imbecilli ignari che nei Paesi tropicali a quattordici anni una donna è già donna, e passati i venti è una vecchia. Faticai molto a superare il suo odore, dovuto al sego di capra di cui erano intrisi i suoi capelli, e ancor di più a stabilire con lei un rapporto sessuale perché era fin dalla nascita infibulata: il che, oltre a opporre ai miei desideri una barriera pressoché insormontabile (ci volle, per demolirla, il brutale intervento della madre), la rendeva del tutto insensibile. Ti risparmio altri particolari, e vengo al seguito e alla conclusione di quella mia prima avventura matrimoniale.
Per tutta la guerra, come tutte le mogli dei miei Ascari, riuscì ogni quindici o venti giorni a raggiungermi dovunque mi trovassi e dove io stesso ignoravo, in quella terra senza strade né carte topografiche, di trovarmi. Arrivavano portando sulla testa una cesta di biancheria pulita, compivano — chiamiamolo così — il loro «servizio», sparivano e ricomparivano dopo altri quindici o venti giorni.
Dopo la fine della guerra e delle operazioni di polizia, uno dei miei tre «bulukbasci» che stava per diventare «sciumbasci» in un altro reparto, mi chiese il permesso di sposare Destà. Diedi loro la mia benedizione. Rientrai in Italia giusto in tempo per essere travolto prima dalla guerra di Spagna e poi da quella mondiale.
Nel ’52 chiesi e ottenni di poter tornare nell’Etiopia del Negus, e la prima tappa, scendendo da Asmara verso Sud, la feci a Saganeiti, patria di Destà e del mio vecchio «bulukbasci», che mi accolsero come un padre. Avevano tre figli, di cui il primo si chiamava Indro. Donde la favola, di cui non sono mai più riuscito a liberarmi, che fosse figlio mio. Invece era nato ben 20 mesi dopo il mio rimpatrio.
Spero di non averti scandalizzata. Se l’ho fatto, è colpa tua.