Abitanti e passanti allineati lungo la via Rasella il 23 marzo 1944, dopo l'attentato a un battaglione nazista

Le fosse, vendetta di silenzio e paura

Come i nazisti stabilirono e portarono a termine la rappresaglia in via Rasella, in una Roma in preda alle privazioni: Kesselring temeva una sollevazione generale della città

ARDEATINE: 80 ANNI FA

di Claudio Fracassi

Venerdì 24 marzo 1944 era una giornata calda, di primavera. La notizia di un assalto partigiano ai tedeschi, il giorno prima in via Rasella al centro di Roma, si era diffusa di bocca in bocca. Ma chissà, forse era solo una voce, una delle tante. Sui quotidiani – controllati da nazisti e fascisti – si poteva leggere una scoppiettante apologia del “25° annuale dei Fasci di combattimento” (Il Giornale d’Italia) o lo scandalo delle “truppe nere nemiche impiegate a Cassino; il nemico ha sfruttato reparti di colore” (Il Messaggero). Ma la notizia del giorno era l’eruzione del Vesuvio: venivano giù fiumi di lava larghi 50 metri.

I capi tedeschi avevano deciso di tenere nascosto, almeno fino alla progettata vendetta, il sanguinoso colpo messo a segno al centro di Roma dai partigiani contro un battaglione di militari nazisti. Ecco il verbale dell’interrogatorio del feldmaresciallo Kesselring, comandante della Wehrmacht in Italia, quando nel 1946 fu chiamato a testimoniare:

Domanda della Corte: Faceste qualche appello alla popolazione romana o ai responsabili dell’attentato prima di ordinare le rappresaglie?
Kesselring: Prima, no.
Domanda: Avvisaste la popolazione romana che stavate per ordinare rappresaglie nelle proporzioni di uno a dieci?
Kesselring: No.
Domanda: Ma voi avreste potuto dire: se la popolazione romana non consegna entro un dato termine il responsabile dell’attentato fucilerò dieci romani per ogni tedesco ucciso?
Kesselring: Ora, in tempi più tranquilli dopo tre anni passati, devo dire che l’idea sarebbe stata molto buona.
Domanda: Ma lo faceste?
Kesselring: No, non lo feci.

L’operazione sterminio, dopo una febbrile consultazione fra i capi nazisti, era partita all’una e mezzo di quel venerdì: due lunghi cortei dalle prigioni naziste – via Tasso (il luogo delle torture) e Regina Coeli – diretti alle Fosse Ardeatine. Ha ricordato una delle donne rinchiuse a Regina Coeli, Enrica Filippini Lera:

“Verso le 13:30 comincia uno strano movimento. Si vedono soldati mai visti prima accompagnati dal posten del piano; tengono in mano lunghe liste battute a macchina, chiamano i detenuti fuori dalle celle dicendo di fare in fretta… Escono i detenuti: condannati in attesa di giustizia, magari assolti. Ma in tutto questo c’è qualcosa di orribile che non sappiamo spiegare. Per la prima volta dopo il mio arresto piango… Nella parte del corridoio sotto la nostra cella vengono allineati gli ebrei. Cinque arrestati due sere prima con moglie e bambini, uno dei quali di pochi mesi. Gli ebrei sono 66. Segue l’appello degli ariani… Verso le 21 si apre piano piano lo sportello: è il posten (sempre gentile con me): mi porta un fiore da parte di P. e mi dice che non è stato preso. Ci dice che li hanno portati in Germania, ma so che mente”.

Il terrore, nella vita quotidiana della Roma del ’44, si accompagnava alla fame, al dolore e persino alla speranza. I diari e le lettere catalogati nel dopoguerra nell’Archivio Diaristico Nazionale testimoniano di un mondo sofferente, sempre spaventato, ma come sospeso tra la morte e il domani :

“Ho fame… oggi sparano ancora i cannoni (non ricordo più di quando c’era la pace) ma noi siamo tutti uniti e perciò siamo felici…”

Oppure: “Prima fra tutte la paura. Roma ha ormai i suoi bombardamenti giornalieri… Alle 5 del pomeriggio ci ritroviamo tutti in casa, 12 persone in due stanze, di cui 5 ragazzini affamati e pericolosi, e 7 grandi collerici, nervosi, polemici e affamati pure loro. Ognuno pensa alla sopravvivenza, a odiarsi l’uno con l’altro e al mangiare…’’

“La cosa strana è che malgrado la paura che mi ritrovo, tra infilarmi una scarpa e avvolgere una coperta attorno alle gambe, riesco, sia pure con gesti frenetici, a togliermi i bigodini dai capelli e ancor più strano è che la sera abbia ancora voglia di mettermeli, questi bigodini…”.

La regina della città era la fame. Raccontava una ragazza del quartiere Montesacro:

“Con mia sorella ci volevamo suicidare per la fame. Mi sognavo il pane di notte… E le malattie, perché se non mangiavi eri debilitato e allora cimici, pidocchi. Non c’era sapone, non c’era niente. E poi il freddo. Andavi a dormire senza mangiare. È la guerra, dicevano”.

Nel pomeriggio di quel venerdì 24 marzo, i camion della morte carichi di giovani e vecchi fecero, fino al luogo dello sterminio, un percorso ben studiato. La tecnica della strage era stata decisa dopo aspri scontri fra i capi nazisti. Assente per poco il Feldmaresciallo Kesselring, in ispezione ad Anzio, un “portavoce di Hitler” aveva comunicato a Roma il clima isterico di Berlino : “Strepita e vuole che sia fatto saltare in aria un intero quartiere della città con tutti quelli che lo abitano” (di quell’ordine non è stata trovata traccia dagli storici). La scelta nazista dell’assassinio di massa, fulmineamente eseguito e non preannunciato, rispose probabilmente, insieme alla frustrazione e alla crudeltà, a una situazione di paura. E questo, secondo convincenti riflessioni degli storici, il senso della confessione fatta molti anni dopo, quando fu catturato e processato in Italia, da Erich Priebke, il sanguinario nazista della Gestapo rifugiatosi in Argentina:

“Se la cittadinanza avesse appreso che un eccidio stava per essere perpetrato… nessuno avrebbe potuto prevedere l’intensità della reazione. I partigiani avrebbero potuto organizzare un attacco fulmineo. L’intera città avrebbe potuto insorgere”.

Il comando dell’operazione fu affidato al feldmaresciallo Herbert Kappler, che dopo la guerra, al processo per i suoi crimini, ha così raccontato, orgogliosamente, il faticoso lavoro di assassino:

“Calcolai quanti minuti sono necessari per la fucilazione delle 320 vittime. Calcolai le armi e le munizioni necessarie. Divisi i miei uomini in piccole squadre che dovevano alternarsi. Ordinai che ogni uomo sparasse solo un colpo, specificando che la pallottola doveva raggiungere il cervello della vittima attraverso il cervelletto, in modo che nessun colpo andasse a vuoto e la morte fosse istantanea”.

Quanto alle persone da uccidere, il diffìcile elenco fu elaborato dal capo del Reparto speciale di polizia Pietro Koch. La parte dell’elenco destinata ai reclusi di via Tasso (la prigione delle torture per gli antifascisti) era divisa in tre categorie: “spionaggio”, “comunismo”, “ebrei”. Poiché all’operazione di morte (10 italiani per ogni tedesco) mancavano una cinquantina di italiani, si chiese il soccorso del Questore di Roma, Caruso, che si consultò, nella mattinata di venerdì, col ministro dell’interno fascista Buffarini Guidi. Alla fine gii italiani da ammazzare risultarono 335 (cinque in più di quanto programmato, per un futile errore di conteggio).

I sotterranei delle Fosse Ardeatine, cave abbandonate, erano un labirinto: una serie di gallerie, lunghe da 50 a 100 metri, larghe 3 metri e alte 5. Nessuna apertura: era totalmente buio. Le SS dovettero accendere molte torce. Gli uomini da uccidere erano costretti a inginocchiarsi e inclinare la testa da un lato. Uno dei soldati tedeschi, che si alternavano come carnefici a gruppi di cinque, faceva luce con la torcia. Su ordine del capitano Schutz (“Puntare! Fuoco!”) un altro nazista sparava al collo della vittima, che crollava prona o supina. Ci si accorse che la massa dei cadaveri ostacolava il lavoro: le vittime furono obbligate, prima di essere uccise, a salire sui corpi senza vita, che spesso erano dei loro padri, figli, parenti.

Tutto finì alle 8 di sera. Settimane dopo fu stilato dal parente di una vittima un elenco dei 323 cadaveri identificati nelle fosse:

“Cattolici, 253. Ebrei, 70. Professioni: agenti di Polizia, 1; ambulanti, 16; amministratori e uomini d’affari, 7; architetti, ingegneri e geometri, 5; attori, 2; artisti, disegnatori e pittori, 5; assicuratori, 1; autisti e conduttori, 7; avvocati, 11; banchieri, 1; calzolai, 5; carpentieri e falegnami, 11; commercianti e bottegai, 42; commessi di negozio, 7; dottori in scienze politiche, 1; domestici e camerieri, 2; elettricisti, 5; farmacisti e medici, 4; Forze Armate: aviazione, 3; carabinieri, 11; esercito, 18; marina, 6; funzionari pubblici, 4; impiegati e segretari commerciali, 40; impiegati alle poste e telegrafi, 4; impiegati ferroviari, 3; impiegati telefonici, 2; macellai, 5; meccanici, 13; musicisti, 1; operai edili, 2; operai vari, 28; professori, 5; terrieri e contadini, 10; sacerdoti, 1; studenti, 9; tecnici del cinema, 2; tipografi, 2”.

Il Fatto Quotidiano, 24 marzo 2024

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